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I “percorsi internazionali”
Josè Luis Sànchez-Martìn
Si è conclusa questa domenica a Roma la rassegna teatrale
internazionale organizzata dall'ETI e ospitata nel circuito dei
teatri dell’ente, sia a Roma, al Teatro Valle e al Quirino, sia a
Firenze, che a Bologna e Napoli. La rassegna, "percorsi
internazionali" appunto, è una parentesi unica e felice nel
cartellone teatrale romano per quanto concerne gli spettacoli
provenienti da altri paesi e soprattutto per la qualità delle
compagnie e dei registi ospiti. Anche questa edizione offriva allo
spettatore spettacoli e nomi di prestigio acclamati ovunque, come il
lituano Eimuntas Nekrosius e l'argentino Alfredo Arias accanto a
nomi emergenti ma già affermati come la coreografa tedesca Sasha
Waltz assieme a registi che sono ampliamente riconosciuti nel
proprio paese e nel resto d'Europa ma come spesso accade non in
Italia, ed è il caso del regista russo Kama Ginkas e del regista
tedesco Christoph Marthaler.
Bisogna aggiungere a questa rosa di artisti venuti a Roma quelli
andati in scena a Firenze (Jerome Deschamps e Macha Makeieff, Hanna
Schygulla, Vanessa Redgrave ) e a Bologna, Edward Hall, il giovane
quanto straordinario regista inglese che avemmo modo di apprezzare
nella precedente edizione con due regie shakespeariane impeccabili
sebbene di segno opposto ovvero La commedia degli errori
e Enrico V, due degli spettacoli più belli visti in assoluto
negli ultimi anni. Questa volta il progetto di Hall, Rose Rage
(Un nuovo sguardo ai testi su Enrico VI di Shakespeare), era
concepito in uno spettacolo in due parti di quasi cinque ore che
veniva eseguito nell'arco di una sola giornata. Dispiace molto che
non sia venuto a Roma.
Il primo spettacolo visto a Roma è stato Zweiland di Sasha
Waltz coreografa tedesca sulle orme di Pina Bausch che mette in
scena l'incontro/scontro tra le due anime della Germania, ma più in
profondità il conflitto tra le "forme del potere" e i
"soccombenti". Un gruppo di danzatori giovani e magnifici,
per intensità, per tecnica e soprattutto per motivazione personale
nell'aderire a un progetto coreografico che è anzitutto emotivo e
quindi politico in senso lato, nel quale è indispensabile essere
presenti e partecipi con tutta la propria individualità.
Le immagini si sovrappongono in modo suggestivo e i quadri che si
vengono a comporre sono di per sé carichi di magnetismo ma non
riescono nel proprio accumularsi a delineare un discorso articolato,
una traiettoria anche soltanto estetica, finendo pertanto col
neutralizzare il mezzo teatrale nella sua specificità, per averne
inconsapevolmente abusato: nodo cronico e irrisolto, questo, di
tutta la danza contemporanea europea.
Le Bonnes (Le serve) di Jean Jenet con la regia di
Alfredo Arias è un piccolo gioiello teatrale. Un testo difficile da
rendere perché in sé conchiuso, perfetto, lucido al punto da
soffocare un'immaginazione che si discosti dalla lettera jenettiana.
Spesso messo in scena in modo "naturalistico" da teatro di
prosa borghese proprio perché apparentemente costituito di sole
parole: opinione quanto mai falsa eppure la prima che si tende ad
avere.
Arias, con due attrici che lasciano un segno profondo, perfettamente
e alternatamente complementari, riesce a giocare sul doppio filo del
verosimile e dell'irreale, del tragico e del grottesco, con coerenza
e fluidità, riservando a se stesso nei panni della Signora un ruolo
tutto sopra le righe, da manichino/marionetta, “iper-macchietta".
Manifesta nel corpo e nella voce della Signora "per bene",
-travolta dalla carcerazione del marito, che è stata cospirata
dalle sue domestiche tramite lettere anonime diffamatorie alla
polizia-, tutta la falsità, la pochezza, la fragilità e la
prepotenza di un mondo borghese che sopravvive parassitando sulla
vita dei suoi subalterni e delle domestiche, le quali a loro volta
giocano a dissimulare " la padrona" fino al momento
estremo, in cui il riscatto passa per una morte da Signora e non da
domestica.
Arias, con uno svestimento progressivo del personaggio che da
Signora diventa manichino nudo, emblematizza teatralmente il cuore
drammatico del testo di Jenet e tiene il pubblico in una tensione
continua che pochi sanno creare.
Was ihr Wolt - La dodicesima notte di Shakespeare con
la regia di Cristoph Marthaler (vd. http://www.caffeeuropa.it/attualita03/
157teatro-wollt.html ), ha un forte impatto visivo iniziale: si
svolge nella sala da ballo di una nave a due piani incastonata
all'interno dello spazio teatrale: la prima assoluta dello
spettacolo fu allestita ,specularmente, all'interno della nave
stessa di cui si è preso il modello per le scene, in modo tale che
il pubblico vedesse di fronte a sé esattamente ciò che aveva alle
spalle.
Al di là di questo, lo spettacolo è forte ed intenso, molto ben
recitato da tutti gli attori. C'è un continuo dinamismo sulla
scena, le azioni sono intagliate con precisione, vi sono canti e
balli, scene di forte emotività declinante sempre verso i toni
scuri in cui si immergono gli abitanti di Illiria, il luogo
immaginario dove si sviluppa la vicenda. L'inquietudine è la cifra
di tutti i suoi abitanti ma durante questo viaggio sottilmente
iniziatico si ricompone lentamente un ordine smarrito, la cui
intelaiatura è proprio la sapiente miscela di registri, l'uso
attento della musica come elemento drammaturgico e il lavoro
d'ensemble degli attori.
Con Il principe felice di O. Wilde, il regista Kama Ginkas,
vero e proprio simbolo della scena teatrale russa, erede diretto
della grande tradizione che da Mejerchol'd e Vachtangov, passando
per Tovstongov (suo precipuo maestro) e Ljubimov, arriva ai registi
della sua generazione come Abramov e Vasil'ev, ha reiterato la
conferma di quanto il teatro dell'ex-Unione Sovietica sia ancora un
teatro necessario, urgente e vivo nel presente.
Ultima roccaforte forse ad un dissolvimento di identità culturale
che nel bene e nel male l'apertura alla società del mercato ha
comportato. Gli attori sono, come sempre in Russia, ineccepibili,
preparati soprattutto, sotto ogni profilo. La regia è secca e
incisiva con un'impronta caustica. Come riporta il programma di
sala, in questo spettacolo, Ginkas "si misura con una favola
moderna....Sulla scena troneggia una maschera enorme, una gabbia di
ferro che intrappola l'anima delicata del protagonista intorno al
quale volteggia sospesa la rondine che gli restituisce la libertà
dei sentimenti". Una favola dolcissima dedicata alla moglie,
attrice, suo riferimento determinante nel percorso di maturazione
artistica ed umana.
Per Il Gabbiano di Eimuntas Nekrosius messo in scena con gli
allievi italiani dell'Ecoles des maitres, dopo averlo già
presentato l'anno scorso in un'unica serata al Teatro Quirino di
Roma ancora sotto forma di studio, non c'è molto da aggiungere a
quanto dicemmo in quell'occasione. Le modifiche sostanziali sono
poche e riguardano soprattutto i tempi e i ritmi interni ad alcune
scene e la definizione delle luci, che qui ha raggiunto il suo grado
di sintesi e di valenza drammaturgica assente nello studio.
I giovani attori italiani sono diventati nel tempo di questo
proficuo tirocinio pedagogico e professionale, assai al di sopra di
quello che siamo abituati a vedere sui palchi nostrani, cosa che da
un lato allieta e dall'altro avvilisce molto. Lo spettacolo è
denso, calibrato, tocca atmosfere difficili da sostenere senza mai
stancare, fa sentire la dimensione del Teatro come quella di un
luogo magico, misterioso in cui accadono eventi speciali e
irripetibili, dove le emozioni attraversano il pubblico e ritornano
agli attori. Che Nekrosius sia uno dei più grandi registi viventi
non c'era bisogno di scoprirlo di nuovo.
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