RomaEuropa Festival 2001
Josè Luis Sànchez-Martìn
Si avvia a conclusione la lunga e articolata rassegna RomaEuropa
Festival 2001 che ha riempito il cartellone romano con spettacoli di
provenienza internazionale per quasi due mesi. La rassegna, apertasi
con una maestosa conferenza stampa in Campidoglio presieduta da
sindaco di Roma, Walter Veltroni, accanto all'Assessore alla Cultura
Gianni Borgna e naturalmente alla direttrice del Festival Dominique
Veaute, ha offerto una visione caleidoscopica della scena europea
della danza e del teatro ospitando i nomi più celebrati del momento
accanto a pietre miliari dello scenario internazionale quali Bob
Wilson e Peter Sellars.
In questa variegata cornice vi sono poi state alcune riconferme
gradite come la Compagnia di danza contemporanea franco-spagnola
Montalvo-Hervieu, che per la terza volta torna a Roma (avrebbero
dovuto inaugurare il Festival ma per rispetto alle vittime dell'11
settembre hanno deciso, concordi alla Direzione di RomaEuropa, di
rimandare e chiudere la rassegna domenica 11 novembre) con
"Gran Ballo" definito dal coreografo Montalvo come
"un affresco Barocco, vicino alla vertigine e
autosufficiente".
Questa ultima creazione mescola elementi contemporanei nella
concezione della danza a quel sostrato sociale costituito dal ballo
come momento in cui il corpo trova una propria dimensione espressiva
e di unione tra le persone: un connubio che riflette l'impronta, se
vogliamo, politica e sociale che la compagnia incarna a cominciare
dal lavoro sull'interculturalità in ordine alle diverse culture che
convivono all’interno della società contemporanea; danzatori hip
hop, classici e di danze etniche tradizionali si esibiscono insieme
in una grande e omogenea coreografia.

Tornando a ritroso, la rassegna si è aperta con il Circo Lattuada,
produzione francese degli allievi dell'ultimo anno del Centro
Nazionale delle Arti del Circo diretti in questo saggio/spettacolo
dalla coreografa italiana Francesca Lattuada. Lo spettacolo,
ambientato in un tendone, fa parte di quella corrente denominata
"nuovo circo", dicitura che viene presentata in Italia
come una nuova realtà ma che rappresenta nel resto del mondo una
più che consolidata branca dello spettacolo da oltre dieci anni.
I giovanissimi artisti circensi sanno dominare la pista non solo
nelle vesti di acrobati, trapezisti, funamboli o altro, ma come veri
e propri attori capaci di gestire il proprio rapporto col pubblico
su più fronti e con diversi registri. Ciò nonostante, la
"Tribù Iota" (questo il nome dello spettacolo) non riesce
a sfruttare il suo enorme potenziale perché ricade nelle classiche
trappole della danza contemporanea un po' altezzosamente ignara
della fragilità del mezzo teatrale, finendo per sottovalutarlo e
depauperandolo in nome di una spettacolarità che viene offerta
attraverso una serie di quadri giustapposti (evoluzione dei
"numeri" di antica memoria) in cui il climax ascendente è
l'unica soluzione di conduzione drammaturgica e i begli exploit
acrobatici si rivelano gusci perfetti ma vuoti: peccato.
Ha seguito, il 12 e 13 ottobre, lo spettacolo della Michael Clark
dance Company, guidata dall'omonimo coreografo britannico con "Before
and After: the Fall", un revival antologico delle migliori
coreografie del passato assieme a nuove creazioni in cui la cifra
del post-modern viene spinta fino agli eccessi del Punk. Le
aspettative erano altissime, in virtù dei meriti che questo artista
trasgressivo si è accaparrato con molte originali ideazioni a
partire dalla metà degli anni Ottanta, tuttavia l'impressione
ricevuta è quella di una fase di stallo poetico sotto le mentite
spoglie di un urgenza comunicativa provocatoria, carica però a
nostro avviso di mediazioni con il mondo e l'estetica
intellettualistica e perbenista a cui Clark lancia, invece,
apertamente i suoi strali invettivi.
Veniamo dunque a Jan Fabre (del quale abbiamo già parlato su Caffè
Europa ), che ha presentato nei giorni 19 e 20 ottobre la sua
ultima creazione "As Long as the World Needs a Warrior's Soul"
ispirato al testo scritto da Dario Fo "Io, Ulrike, grido"
basato sui testi della terrorista tedesca Ulrike Meinhoff.
Il genio belga ha puntato su una caustica risposta a "quella
estrema destra che ha vinto le elezioni nel mio paese e che mina
profondamente le basi del vivere democratico e della libertà
personale". I protagonisti sono poeti/guerrieri/ribelli che in
un mondo abitato da feticci, da Barbie moltiplicate all'infinito, da
menzogne di mercato si rivoltano con i propri corpi, con la forza
della loro musica rock all'omologazione espropriante che l'essere
umano è costretto a subire. Un lavoro difficile ed estremo,
all'insegna della crudezza, del sangue, della violenza sbattuta in
faccia, dell'assalto frontale ai totem fittizi e in un certo senso
lacerazione la verità dei corpi nudi integralmente, della
perfezione dei gesti dei ballerini “ossimoricamente” imbrattati
di sangue.
Jan Fabre riesce a colpire il suo bersaglio ma a dispetto di un cast
straordinario, senza eccezione alcuna, in ultima analisi ci si
ritrova coinvolti in una decadenza brutalizzante che anziché
essere, come è intenzione del regista, criticata e squalificata,
viene a suo modo esaltata e ne diventa perciò una specie di
avanguardia, paradosso molto frequentato dagli artisti del Pulp e da
alcuni celebri cineasti americani che hanno finito per decantare la
violenza che dichiaravano di voler condannare rappresentandola
minuziosamente.
Non si discute il livello eccelso dei ballerini e delle ballerine
che con la potenza della loro nudità integrale per molti momenti
dello spettacolo riempono, in modo affatto gratuito, la propria
danza di una carica dionisiaca e matematica al contempo, destando un
fortissimo impatto emotivo nello spettatore.
Negli stessi giorni lo spettacolo "Relative Light" di Bob
Wilson del quale vale la pena solo dire che non si può pretendere
molto nemmeno da un vero e indiscusso genio quando firma
contemporaneamente e in cinque paesi diversi cinque differenti
regie, tutte in spettacoli complessi come quelli che lui ama mettere
in scena. Ancora una volta quella attesa ansiosa di ricevere il
soffio magico del Maestro si è infranta su una parete di perfezione
geometrica, illuminata da un demiurgo visionario, che costruisce
magnifiche cattedrali sul nulla e magnificandole con la propria arte
riesce a farle sembrare per un attimo opere solide.
Il pubblico reagisce con freddezza, un po' di fastidio e il senso di
non aver capito nulla e tantomeno di essersi emozionato. Una nota a
parte per la violinista che accompagna lo spettacolo suonando brani
di diversa estrazione musicale e che regala nella seconda parte
dello spettacolo una interpretazione della Ciaccona in Re min. di
Bach che fa venire i brividi dall'attacco fino all'ultima nota, di
eccezionale vitalità musicale, sensibilità e rigore tecnico, che
trascina per quindici minuti tutto il pubblico su un altro pianeta.

Ahinoi, lo spettacolo di Peter Sellars è saltato a causa della
comprensibile opposizione da parte della protagonista, un soprano
americano, a compiere il viaggio in aereo per l'Europa; al posto
dello spettacolo, su indicazione dello stesso Sellars, è stato
presentato un doppio concerto: nella prima parte l'ensamble
"Concerto Italiano" diretto dal clavicembalista Rinaldo
Alessandrini con il soprano Gemma Bertagnolli ha eseguito due
cantate di Bach, BW 199 e BWV 82, per la verità un po' sotto tono e
senza mordente in particolare da parte della cantante che non ha
forse avuto tempo a sufficienza data l'improvvisa rivoluzione del
programma di portare a dominio musicale le due partiture; nella
seconda uno straordinario concerto della cantante uzbeka Monajat
Yulchieva che con un repertorio di canzoni della tradizione
dell'Asia centrale ha deliziato gli ascoltatori con timbri e melodie
inusuali per le orecchie occidentali. Un calibro di rara esattezza
nella sua voce e una sacralità vibrante in ogni volo vocale:
bellissimo!
Concludiamo con lo spettacolo del regista ex-tedesco dell'est Frank
Castorf, direttore della compagnia Volksbuhne/Berlin. Lo spettacolo
dal titolo "Endstation Amerika" è ispirato al dramma di
Tennessee Williams "Un tram che si chiama desiderio" che
trovò nel film di Elia Kazan con lo splendido Marlon Brando nel
ruolo di protagonista un coronamento mondiale e unanime. Sulla
falsariga del classico americano si muovono personaggi del mondo
proletario tedesco, abbruttito e perso nella propria inesaudita
ricerca di una felicità illusoria: ogni personaggio rifugge dalla
realtà in un mondo irreale, abitato dalla depressione e dalla
paranoia, dalla incomunicabilità come paradigma relazionale e da
una violenza interiore trattenuta fino a quando esplode ferocemente.
Il gioco di rimandi per quanto espliciti fa torto al capolavoro
drammaturgico prima e cinematografico poi, dal quale non ci si può
mai staccare. Gli attori molto energici e impegnati utilizzano un
registro tutto adeso al quadro isterico dove la condizione del
proletariato tedesco conduce, ma non vi è mai una intensità
autosufficiente in senso teatrale, tutto o quasi è affidato alle
parole che devono veicolare il contenuto intrinseco della
tragicità, palesando pertanto una concezione tutt'altro che nuova o
eversiva del teatro e molto più vicina alla prosa
"borghese" che non alle linee forti del teatro
contemporaneo dove la drammaturgia è solo uno degli elementi e non
sempre il più importante.
Il festival così chiude con gli spettacoli di Kathakali, la forma
più complessa e completa di danza indiana, in cui sono compresenti
il teatro, il canto, la musica e il mimo, che nasce e si sviluppa
nel Kerala, regione del Sud dell'India tuttora viva e partecipata da
tutte le classi o caste sociali. A presentare gli spettacoli tratti
dai due più importanti poemi epici indiani, ovvero il MahaBharata e
il Ramayana, che raccontano il primo la saga di una famiglia reale
spezzata da un conflitto circa il potere sul regno che si risolverà
soltanto con una terribile guerra fratricida vinta dai fratelli
"buoni" i Pandavas guidati dal Dio incarnato Krishna, il
secondo le mitiche imprese del principe Rama che per salvare dal
malvagio demone Ravana la sua promessa sposa da questi rapita dovrà
affrontare un lungo cammino spirituale costellato di maghi, demoni,
santi, superando prove difficilissime, fintantoché non otterrà i
poteri necessari a compiere l'impresa aiutato dal capo dell'esercito
delle scimmie, il potente Hanuman.
Queste due storie sono raccontate da attori truccati e adornati in
modo sontuoso e suggestivo secondo precisi dettami estetici e
simbolici, capaci di esercitare un controllo assoluto di ogni
muscolo del viso che si muove secondo un codice rigidissimo e da una
gesticolazione delle mani i cui le dita vengono a comporre figure e
intrecci molto sofisticati, detti Mudras, anch'essi pregni di
significato, un vero e proprio linguaggio parallelo che scorre
contemporaneamente alla danza e al canto. La compagnia indiana che
mette in scena questi due capolavori è il Kalamandalam Group venuto
a Roma già nella precedente stagione del Teatro di Roma diretta da
Martone.
Il Kathakali è un'esperienza imperdibile, e lascia un segno molto
profondo nello spettatore perché lo trasporta in una dimensione
percettiva totalmente diversa da quella alla quale siamo abituati e
che affonda le radici nel senso del mitico, dell'arcaico, del
sovrannaturale. La rappresentazione delle due saghe ha colpito il
pubblico del teatro India, che pur di fronte a una differente
concezione del tempo e della rappresentazione delle emozioni ha
potuto vivere l'esperienza di entrare in un differente flusso
percettivo, e, come in un sogno, risvegliarsi solo alla fine dello
spettacolo. Bellissimo.
Unica nota negativa dell’autunno teatrale romano è quella che
tante volte abbiamo ripetuto, e cioè l’accavallamento di
spettacoli e date tra il Festival d’Autunno, altra realtà che si
occupa del teatro internazionale (che menzioneremo prossimamente) e
RomaEuropa, che tra l’altro aveva accavallamenti già al proprio
interno, costringendo il pubblico e la stampa a operare scelte
drastiche a dispetto di spettacoli di sicuro pregio; e infine i
prezzi ancora inaccessibili per il pubblico dei giovani, malgrado
alcune esigue forme di riduzione: non ci si lamenti poi che i
giovani abbandonino la cultura e preferiscano il Grande Fratello.
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