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L'Estasi a buon mercato
Josè Luis Sànchez-Martìn
Tra i pochissimi spazi che a Roma si occupano di danza in particolare
contemporanea, primeggia sicuramente per impegno, costanza, coraggio e
continuità il Teatro Vascello gestito dall'omonima associazione sotto
la guida del regista Giancarlo Nanni.
In questo periodo sono ben due le manifestazioni dedicate alla danza
che s'intrecciano nel loro cartellone: il progetto triennale Danze
dai Cinque Continenti e il più vasto Festival di Primavera,
che presenta spettacoli di alcuni nomi noti della danza contemporanea
italiana, come Lucia Latour (vd. http://www.caffeeuropa.it/attualita02/
136teatro-sanchez.html ), la compagnia Corte Sconta e Giovanna
Summo, con un corollario internazionale che presenta la prima europea
di Medea, della compagnia giapponese Kuna'Uka Theatre Company
di Tokio. Lo spettacolo tratto da Euripide e diretto dal regista
Satoshi Miyagi sta incuriosendo pubblico e addetti ai lavori sia per
l'originalità dell’impostazione,-due interpreti per ogni ruolo, uno
per la voce e uno per il movimento-, sia comunque per la rarità della
presenza del teatro straniero e in particolare giapponese a Roma.
L'edizione 2001 del progetto Le Danze dai Cinque Continenti è
stata ideata e curata dalla danzatrice e coreografa Maria Grazia
Sarandrea sotto il titolo Estasi e possessione nella musica e nella
danza. Per l’occasione sono stati coinvolti sia nei filmati che
negli incontri nomi importanti legati all'antropologia e allo studio
di queste tematiche, come Francesco De Melis, Tito Rosemberg, Patrizia
Giancotti, Dario Evola e Vito Di Bernardi, e sono stati proposti
alcuni seminari gratuiti tenuti da I Wayan Puspayadi maestro di danze
balinesi, dalla stessa Sarandrea (Tribal Jazz) e dal suo
collaboratore, il percussionista Giovanni Imparato (Drum Circle).
In realtà il progetto è stato concepito come contenitore di
prestigio e contorno di esaltazione dell'unico spettacolo di danza in
programma (se si esclude una dimostrazione di danze balinesi), ovvero Vuelo
Azul della stessa Sarandrea, non a caso presentato come una
rielaborazione della danza sufi, la danza rituale giapponese, i ritmi
di Bali e altre danze legate al tema dell'estasi, nello stile Tribal
Jazz da lei inventato, e che "si ispira al volo sciamanico e
rappresenta un viaggio alla scoperta di mondi lontani e immaginari in
cui attraverso la musica e la danza si dissolvono i confini tra sé e
il mondo, dove tutto è interconnesso da una rete cosmica". Senza
pudore né senso della misura, la coreografa afferma che nel suo
spettacolo "coreografie, luci, immagini e musiche si fondono
creando un cerchio che avvolge gli spettatori e li coinvolge
totalmente."
Sorvolando l'approssimazione con cui si sono svolte le giornate del
progetto - ritardi, incontri annunciati che invece si sono limitati a
qualche parola prima delle proiezioni e seminari caotici e aperti a
tutto e tutti senza iscrizione né continuità-, quello che lascia
perplessi è che la Sarandrea abbia avuto i mezzi e la faccia tosta di
costruire un tale monumento a se stessa e alla sua Tribal Jazz, che è
un miscuglio senza criteri e a buon mercato di elementi di fascino
esotico di varie culture.
Lo spettacolo è il risultato di un’appropriazione superficiale e
arrogante, con superbo neocolonialismo predatorio, di alcuni elementi
sparsi di culture rituali e religiose che meriterebbero ben altro
rispetto, e che invece sono stati più o meno amalgamati con effetti
luminosi, proiezioni di video e suoni di percussioni
"etniche" eseguite dal vivo da Giovanni Imparato, con un
risultato che rasenta il ridicolo e il kitch.
Potrebbe essere paragonato al tipico spettacolo di circo ottocentesco,
in cui il grande domatore, di ritorno da viaggi in luoghi esotici e
pericolosi, dà lezione della sua superiorità assoluta nel mostrare
come abbia catturato e addomesticato fiere e selvaggi, di come
rispondano al suo comando, addobbati da vestitini luccicanti e
cappellini civettuoli, nella rassicurante arena di casa propria.
Chiunque abbia soltanto un’idea di che cosa significhino gli
elementi di una identità culturale religiosa, come le danze sufi,
giapponesi o balinesi, lo sciamanesimo, l'estasi e il coinvolgimento
nelle pratiche mistiche dei popoli del mondo, incluso il nostro,
dovrebbe sentirsi offeso dalla scialba, mediocre e patinata
strumentalizzazione che ne viene fatto in Vuelo Azul.
Purtroppo, il solito pubblico autoreferenziale della danza italiana,
composto per lo più da amici, parenti e colleghi condiscendenti,
sembra sorvolare anche sul basso livello coreografico e artistico di
questa operazione kitch, molto vicina a quella riduzione a
divertimento innocuo che dell'esotico fanno i club balneari sparsi per
il mondo.
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