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Michael Walzer tra «spessore» e
«sottigliezza»
Marco Stangherlin
Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della
rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano
Maffettone. Per ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della
Luiss Edizioni o
scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
Due obiettivi strettamente collegati caratterizzano la prestazione
teorica di Michael Walzer in Geografia della morale: da un lato,
riscattare la necessaria attenzione per la realtà complessa e
diversificata del mondo morale dalla fastidiosa ipoteca di un
relativismo ingenuo e paralizzante che, nell’incommensurabilità
delle differenti realizzazioni umane, condanni il filosofo all’accettazione
acritica dell’esistente; dall’altro lato, riconoscere come la
medesima attenzione per l’effettività della struttura morale possa
promuovere un discorso di portata universalistica solo nella misura in
cui venga meno ogni pretesa generalizzante e onnicomprensiva e si
adotti invece un approccio flessibile e minimalista.
Parlare di prestazione teorica nel caso dell’autore ebreo-americano
non significa certo attribuirgli elaborate costruzioni filosofiche o
imponenti e sistematici apparati di pensiero: alla «Grande Teoria»,
cui è negato diritto di cittadinanza nell’intricato universo dell’esperienza
morale, Walzer ha sempre preferito l’analisi dettagliata, il lavoro
ermeneutico, l’interpretazione incisiva. All’attività distaccata
del filosofo che rimane teso ad individuare massime e valori fuori dal
tempo egli ha sempre anteposto il compito più modesto e paziente del
connected critic il quale, come il profeta Amos, rinnova al proprio
popolo la memoria di una cultura comune, impregnata di valori
massimalisti, e suscita la sua indignazione rivelandogli lo scarto
esistente tra quegli stessi valori e la loro misera attuazione.
Quanto Walzer sembra intenzionato a dimostrare in questo testo è che
il lavoro del critico, pur esplicando al meglio le proprie
potenzialità normative e innovatrici all’interno di una determinata
comunità, può nondimeno rivolgersi all’esterno in nome di un
codice morale minimo che tutti siamo in grado di riconoscere e
comprendere in virtù della nostra comune umanità. In ogni specifica
realtà morale è dato infatti rinvenire, a seconda del contesto
linguistico ovvero del pubblico a cui si parla, diversi gradi di
intensità e diversi livelli di discorso: c’è una moralità
«spessa» (thick), espressione dettagliata, idiomatica e
circostanziata delle tradizioni, delle abitudini e delle forme di vita
condivise in una cultura, ed una moralità «sottile» (thin),
costituita per lo più da ingiunzioni negative, che si libera dal
proprio radicamento in una comunità particolare e risulta
immediatamente comprensibile anche da parte di estranei.
Le sfumature, le allusioni, la densità linguistica che
contraddistinguono i discorsi morali «tra noi» lasciano il passo ad
un codice etico minimalista allorché ci si rivolge al di fuori dei
propri confini, in caso di incontri improvvisi con stranieri come pure
in occasione di crisi e conflitti politici. In tali circostanze
speciali, per scopi immediati e specifici, il nostro mondo morale si
«assottiglia», senza per questo impoverirsi ma, al contrario,
avvicinandosi alla sostanza dei valori in gioco.
Piuttosto che individuare un nucleo normativo di principi morali
universali per poi riconoscere come legittime le diverse modalità con
cui ciascuna cultura li modella, l’autore è interessato a
raccontare come e quando, a partire dalla specificità etica e
culturale nella quale ciascuno di noi è immerso, possano darsi
esperienze di moralità universale; come e quando si arrivi a provare
simpatia e solidarietà per le aspirazioni e gli sforzi di altri
diversi da noi; come e quando, isolando alcuni spezzoni dei nostri e
degli altrui discorsi, astraendoli dalle particolari occasioni in cui
erano collocati e da riferimenti troppo localistici, si formi un
linguaggio morale abbastanza generale da abbracciare gruppi e
«tribù» differenti e tuttavia rispettoso delle loro diverse
risposte ai medesimi problemi.
Walzer non muove dunque, secondo una linea discendente, dall’universale
al particolare ma, al contrario, adotta un procedimento argomentativo
che ha il proprio punto focale nei discorsi e nelle opinioni della
gente comune e che lo porta a riconoscere il particolarismo come dato
permanente, ineliminabile ed universale dell’uomo: «Le società
sono necessariamente particolari perché hanno membri e memorie,
membri con memorie non solo esclusivamente loro proprie ma anche della
loro vita in comune. Al contrario, l’umanità ha membri ma non ha
memorie, e quindi non ha né una storia né una cultura, non
consuetudini di vita, […] non infine concezioni condivise dei beni
sociali. […] È umano avere tutte queste cose, ma non c’è un modo
umano singolare di averle».
È in questo modo attribuita validità universale ed anche una certa
potenzialità normativa al fatto della reiterazione: «benché abbiamo
diverse storie, abbiamo comuni esperienze e, qualche volta, comuni
risposte e da questa comunanza noi immaginiamo e confezioniamo, quando
c’è bisogno, un minimum morale». Quest’ultimo si configura
perciò come l’insieme degli atti di riconoscimento e di
immedesimazione attraverso i quali membri di culture differenti
arrivano a comprendere le esperienze morali altrui, non tanto nelle
loro implicazioni specifiche e neppure nei loro spessi contenuti
quanto piuttosto come reiterate modalità di affrontare situazioni
simili e problemi analoghi.
Così lo stesso Walzer racconta di aver provato un’immediata
solidarietà per i dimostranti che nel 1989 marciavano per le strade
di Praga invocando «verità» e «giustizia» come pure per gli
studenti cinesi che nello stesso anno lottavano contro un regime
politico oppressivo ed asfissiante. Egli però si guardava bene dall’auspicare
l’attuazione dettagliata dei principi etico-politici a lui più cari
in nome di una loro presunta adattabilità ad ogni circostanza: si
limitava invece a marciare in modo vicario con questa gente, certo del
fatto che fossero i cittadini praghesi e quelli cinesi a dover
riempire dei propri contenuti l’universale diritto di ciascun popolo
all’autodeterminazione. Ciò che alimentava il suo trasporto
empatico era allora il ricordo e la conoscenza di situazioni simili
che il suo ed altri popoli avevano esperito nella loro storia,
trovando soluzioni di volta in volta diverse ed appropriate al caso
specifico.
La lotta contro ogni forma di tirannia, l’opposizione a palesi
episodi di ingiustizia e di violenza, la rivendicazione di elementari
diritti umani: si tratta di circostanze che tutti abbiamo vissuto
direttamente o di cui abbiamo quanto meno sentito raccontare delle
storie. È questa comunanza - parziale in quanto limitata all’occasione
e non alla risposta che essa suscita - che secondo Walzer fa da sfondo
e da supporto all’esperienza dell’universalità, all’incontro
tra estranei. Percepire l’esistenza di un’aria di famiglia tra
quelle esperienze che ogni uomo, in quanto membro di una cultura, non
può non vivere, equivale a muovere dal locale all’universale senza
però mettere da parte, anzi valorizzando, la dimensione dell’immanenza:
essa infatti incorpora l’universalità e ne costituisce la porta d’ingresso
oltre che la piattaforma interpretativa.
Lungi dall’avere un’essenza aprioristicamente data, il minimum è
infatti un pezzo del massimalismo, il cui spessore deve anzi
presupporre perché ci si possa intendere con altri diversi da noi:
«Se non avessimo le nostre manifestazioni non potremmo marciare per
conto dei praghesi. Non comprenderemmo nulla della “Verità” e
della “Giustizia”». Tanto più che il linguaggio morale che
facilita gli incontri con estranei - e che da questi incontri esce
rafforzato - non è certamente neutro, e in quanto tale universalmente
intelligibile, ma porta con sé il carico semantico proprio della
lingua in cui è formulato, per quanto venga poi parzialmente
alleggerito dal carattere esemplare delle esperienze morali in
questione.
Quanto fossero centrali le categorie della reiterazione e della
esemplarità nel discorso morale di Walzer risultava già
particolarmente evidente in uno scritto di qualche anno fa allorché l’autore
dichiarava di aver recuperato dalla tradizione giudaica una «varietà
atipica» di universalismo, in grado di «abbracciare l’istanza del
particolarismo morale». Si tratta dell’universalismo «reiterativo»
(reiterative universalism), vera dottrina alternativa della storia
ebraica, marginalizzata e repressa in seguito al trionfo del
cristianesimo; tale dottrina non postula, come fa invece l’universalismo
«della legge generale», onnicomprensiva (covering-law universalism),
l’esistenza di una sola giustizia, di una sola salvezza e di un solo
momento di liberazione per tutta l’umanità. Essa non richiede che l’esodo
dei filistei o quello dei siriani sia perfettamente identico all’esodo
di Israele, né che quest’ultimo venga pensato come evento chiave di
una storia universale nel quale tutta l’umanità possa vedersi
rappresentata.
Al contrario, l’esperienza della liberazione di Israele è
inquadrata in uno schema interpretativo avente tendenza pluralizzante:
è vista cioè «come fatto esemplare, cardinale in una storia
particolare, che altre genti possono ripetere - devono ripetere,
perché l’esperienza appartenga ad esse - a modo loro. L’esodo
dall’Egitto libera soltanto Israele; […] ma altre liberazioni sono
sempre possibili» se è vero che avvengono per mano di un unico Dio,
«un Dio che, si presume, trova l’oppressione universalmente
odiosa».
La versione secolarizzata di questa dottrina richiede il
riconoscimento della libertà, dell’indipendenza e dell’autodeterminazione
come valori universali aventi però implicazioni particolaristiche:
decretare dall’alto il contenuto dettagliato di tali valori equivale
a mortificarne il carattere reiterativo in nome di un improbabile
massimalismo missionario. Eppure proprio nell’autorizzazione a
reiterare si riscontra un’apertura all’universale: «come noi
siamo capaci di riconoscere una determinata storia come nostra, e un’altra
storia come storia di qualcun altro, ed entrambe come storie umane,
così siamo capaci di riconoscere una concezione particolare dell’autonomia
e dei legami affettivi come nostra, e un’altra concezione come
concezione altrui, ed entrambe come concezioni morali. Possiamo vedere
le somiglianze di famiglia e riconoscere al tempo stesso il carattere
particolare di ciascun membro della famiglia. […] Impariamo che noi
non abbiamo una situazione speciale; le rivendicazioni fatte da noi le
fanno anche altri». E le circostanze in cui ciò avviene sono
tendenzialmente le stesse: infatti «la reiterazione è universale
anche nelle sue occasioni», che hanno a che fare il più delle volte
con il dominio, la paura, la vulnerabilità, l’oppressione.
È evidente come l’idea di un dualismo inerente ad ogni struttura
morale, al contempo «spessa» e «sottile», fosse già presente,
seppure in forma ancora latente, in questa particolare varietà di
universalismo fatta propria da Walzer, l’universalismo «reiterativo».
Solo dando ampio spazio all’esemplarità e alla reiterazione possono
emergere le «comunanze differenziate» di un’umanità condivisa
così come solo a partire dal massimalismo morale in cui ciascuno si
trova implicato è possibile isolare quel codice etico minimale che
pure vi era incastonato e che consente la comprensione interculturale.
In entrambi i casi l’universalità morale è riconosciuta come
consustanziale all’insopprimibile esperienza del particolarismo.
Alla necessaria coimplicazione di «spessore» e «sottigliezza»
morale non si sottrae il variegato mondo della giustizia distributiva,
peraltro campo d’azione privilegiato del connected critic. Pur
restando fedele all’idea centrale di Sfere di giustizia - la
relatività dei criteri distributivi ai significati condivisi dei beni
sociali da allocare - Walzer intende ora riscattare la propria
posizione dall’accusa di conservatorismo e ribadire anzi l’intento
chiaramente critico di quell’opera. È vero che la giustizia
distributiva può essere considerata un classico esempio di moralità
«spessa» e «massimale», idiomatica nel linguaggio, particolarista
nei riferimenti culturali e storicamente circostanziata; è altresì
vero che le procedure allocative sono sempre il frutto di interazioni
complesse, di battaglie sociali, di compromessi e transazioni
politiche e che risultano incredibilmente fuorvianti quelle finzioni
teoriche che immaginano un simile processo come se fosse guidato sin
dall’inizio da un insieme di regole onnicomprensive. Ciò detto, non
bisogna però ritenere che i principi di giustizia siano il mero
riflesso delle pratiche distributive vigenti o delle concezioni dei
beni sociali che in un dato momento risultano dominanti: due
importanti precisazioni raddrizzano infatti in senso universalistico e
dotano di maggiore forza normativa la prospettiva walzeriana.
Innanzitutto, «la giustizia negli atti di distribuzione funge da
moralità massima e prende forma insieme a, ed è vincolata da, un
minimalismo reiterato: è la stessa idea di “giustizia” che genera
una prospettiva critica e una dottrina negativa. L’omicidio come
metodo per distribuire la vita e la morte, per esempio, è bandito
ovunque». A ciò va aggiunta quella che potremmo definire la clausola
del consenso: l’autore pensa ci debbano essere «alcuni criteri, non
sostanziali ma neppure meramente formali» con cui valutare le
modalità di formazione dei significati sociali dei beni da allocare.
Ciò non implica che tali significati debbano essere accettati in una
situazione di scelta ideale quale il paradigma comunicativo
habermasiano, ma almeno che «il consenso estorto agli schiavi dai
loro padroni, per usare un esempio facile, non conti nello stabilire
quali siano i basilari e comuni significati condivisi in una
società». È dunque necessario individuare condivisioni reali,
risultato di lunghi processi in cui contrasti ed episodi di
coercizione, pur sempre presenti, non abbiano avuto un ruolo
dominante.
Tali precisazioni hanno un’importante ricaduta proprio su quell’attività
del critico sociale, così importante nel complesso delle riflessioni
di Walzer, dalla quale peraltro quest’intervento ha preso le mosse.
Il connected critic non è infatti vincolato a legittimare lo status
quo a causa del suo radicamento in una determinata comunità. Al
contrario, non appena costui riscontri una mancata congruenza tra le
distribuzioni dei beni sociali e le concezioni diffuse degli stessi
beni - intese secondo i criteri appena citati ed inquadrate in un arco
temporale abbastanza ampio da far emergere la condivisione al di là e
al di sopra dei naturali dissensi del momento - allora la sua denuncia
assumerà la forma di un lamento comune e si farà portatrice di un
carico di normatività interna che nessuna critica proveniente da
fuori può sostenere. «Ogni criterio massimalista - scrive Walzer -
stabilisce un’intima relazione descrittiva/critica con la propria
società, perché ciò che viene espresso nel suo stile idiomatico,
particolarista e circostanziale è l’idealizzazione socialmente
costruita di questa società. Descrive le cose che questa società fa,
valuta e distribuisce al suo interno le qualità personali che coltiva
e intende rispettare, anche se molto spesso non riesce a rispettarle
nel corso delle distribuzioni».
Capita inoltre che in alcune società si verifichino palesi violazioni
di quel codice morale «sottile» che accompagna ogni forma di
moralità «spessa» e la vincola al rispetto di elementari norme di
giustizia (quali le regole contro l’assassinio, l’inganno, la
tortura…). Oppure può accadere che una moralità «spessa» non
consenta di parlare a nome delle sofferenze e delle oppressioni di
altri popoli e di marciare, anche solo virtualmente, al loro fianco.
In entrambi i casi si riscontra un deficit di umanità ed è proprio
in difesa di tale umanità violata, dei suoi diritti minimi
calpestati, che la critica sociale può lanciare le sue invettive e
può farlo anche dall’esterno: non è infatti necessario conoscere
nel dettaglio il «massimalismo» morale espresso da una cultura per
scagliarsi contro le atrocità in essa perpetrate o per schierarsi con
le vittime di quelle atrocità.
Tale è, per esempio, l’attività di organismi come Amnesty
International, il cui successo è attribuito da Walzer a quella
capacità di autocensura grazie alla quale essi si precludono ogni
impulso ad imporre ovunque la propria moralità sostantiva,
prescindendo dalle particolarità etiche e culturali delle diverse
comunità. La denuncia del particolare da un punto di vista universale
è dunque legittima solo se portata avanti in nome di un universale
che sia effettivamente condiviso in quanto moralmente minimalista e
che non costituisca la maschera dietro cui si nasconde un altro
massimalismo particolare.
Ancora più estremo è il caso in cui un governo si renda colpevole di
atti di asservimento, di deportazioni e di sistematiche violazioni di
diritti umani basilari ai danni della propria popolazione: si tratta
di quelle circostanze eccezionali in cui alla critica deve affiancarsi
l’intervento armato ed è moralmente giustificato passare sopra il
diritto, altrimenti sacro, di una nazione all’integrità
territoriale e all’indipendenza politica. «È vero che alcune cose
che noi consideriamo oppressive non sono ritenute tali dovunque. […]
Nonostante ciò, la vita non è un valore relativo e difenderlo è un
atto di solidarietà».
Attribuendo una, sia pur debole, valenza normativa ad un codice morale
sottilmente universale che non esautora ma affianca lo spessore
proprio di ogni cultura, Walzer mette al riparo la sua posizione da
minacciose derive relativistiche ed aggira il connesso problema delle
comunità malvagie. Si sottrae cioè a quell’atteggiamento
intellettuale che la Nussbaum chiama «scetticismo normativo» e che
si manifesta allorché, in nome del rispetto della differenza, viene
sospeso ogni giudizio di valore anche di fronte ad atti che colpiscono
intuitivamente come esempi paradigmatici del male. E tutto questo non
va a scapito del suo interesse per la dimensione reale ed immanente
della moralità, della quale sono peraltro indagati i dispositivi
critici interni, già di per sé portatori di normatività. Pur con i
limiti di cui si dirà più avanti, l’approccio walzeriano indica
quindi una terza via alternativa all’impasse teorico tanto dei
sostenitori di un universalismo acontestuale ed insensibile alle
differenze quanto agli alfieri di un comunitarismo miope e
pericolosamente refrattario al riconoscimento interculturale.
Come Ferrara ha più volte notato, è centrale, a questo proposito, l’implicito
ricorso del nostro al giudizio riflettente kantiano: diversamente da
quello determinante, che è sussuntivo e deve dunque sottoporre il
particolare ad una legge universale già data a priori, il giudizio
riflettente, e precisamente la sua variante estetica, deve trovare e
identificare l’universale a partire dal particolare che gli viene
attribuito. Sebbene il giudizio di chi prova piacere di fronte ad un
oggetto sia infatti empirico e singolare, esso nondimeno rivendica
cogenza transcontestuale e consenso universale: il consenso di chi
annette valore esemplare ad un’opera d’arte perfettamente riuscita
non solo in virtù della congruenza interna tra questa e la cifra
stilistica che le è propria ma anche in nome della sua capacità di
suscitare piacere, ovvero quel sentimento di «agevolazione e
intensificazione della vita» di cui tutti hanno un’idea intuitiva,
benché a partire da situazioni specifiche diverse.
Analogamente, Walzer ritiene doveroso giudicare un’identità,
individuale o collettiva che sia, sulla base del suo stesso metro,
considerando cioè la maggiore o minore rispondenza tra il suo modo di
vivere e ciò che essa è stata ed intende essere. Una simile
valutazione circa la normatività interna di una vita umana o di una
comunità, pur non potendo prescindere dalla particolare e situata
autocomprensione di queste, ha tuttavia portata universalistica nella
misura in cui esige il consenso di tutti coloro che sappiano calarsi
all’interno della «spessa» relazione di congruenza sopra citata ed
in essa riconoscano una reiterata ed esemplare modalità di
autorealizzazione. Laddove poi questa stessa autorealizzazione sia
minacciata e la vita lungi dall’essere «intensificata» sia invece
mortificata, il giudizio di validità esula da ogni considerazione
circa la congruenza interna di un’identità e si appella a quel filo
«sottile» che lega l’umanità ovvero a quella «voce universale»
che parla agli uomini ed esprime la loro intuizione su cosa significa
vivere e realizzarsi.
Dove tuttavia l’articolazione walzeriana del rapporto tra comunanza
e diversità morale convince meno è nelle sue conseguenze pratiche:
quando applica politicamente la sua proposta reiterativa l’autore
rivela infatti una visione delle relazioni intercomunitarie che, da un
lato, pare improntata ad un eccessivo ottimismo e, dall’altro lato,
risulta meno interessata al problema dell’integrazione e della
convivenza che all’obiettivo della separazione. Il che è tanto più
grave in un mondo sempre più interdipendente che ci costringe a
negoziare ogni giorno, e non solo in quelle particolari circostanze
cui fa esplicito riferimento Walzer, i termini dell’interazione con
persone e gruppi culturalmente e moralmente diversi da noi.
«Ogni tribù all’interno di propri modesti confini»: è questo il
principio moralmente minimalista con cui il nostro ritiene si debba
gestire, laddove possibile e con i necessari distinguo, l’odierna
temperie multiculturale e l’ondata di neotribalismo. A suo avviso,
prendere in considerazione il diritto all’autodeterminazione proprio
di ogni comunità storica, culturale e religiosa che dimostri di avere
una forte presa sui propri membri e viva in maniera stabile su un
determinato territorio significa muovere necessariamente verso la
moltiplicazione delle unità e delle giurisdizioni politiche, benché
secondo modalità sempre diverse. L’irruzione di nuovi soggetti
sulla scena internazionale ricorderà la proliferazione di sette e
confessioni verificatasi quando, all’indomani delle guerre di
religione, fu instaurato un regime di tolleranza: in entrambi i casi,
all’irrigidimento identitario tipico di minoranze etniche e
religiose represse ed impaurite si oppone l’alternativa,
problematica eppure necessaria, della frammentazione.
Pur consapevole di muoversi su un pericoloso piano inclinato, Walzer
sembra dimenticare gli esiti tragici dei recenti conflitti
interetnici, alimentati da slanci indipendentisti di dubbia
spontaneità e spesso miranti a perseguire valori tutt’altro che
autentici in nome di richiami mitici ad una presunta narrativa comune.
Oltretutto, una volta innescate, guerre civili di tale fatta risultano
potenzialmente interminabili: l’inestricabile groviglio di etnie,
religioni, culture ed appartenenze oggi presente quasi ovunque
produrrà sempre delle minoranze interne ovvero porrà continui
ostacoli all’affermazione «entro modesti confini» di comunità
culturalmente omogenee e politicamente autodeterminantesi. Riconoscere
il tribalismo come tratto insopprimibile dell’essere umano e,
soprattutto, rivendicarne la necessaria traduzione politica - con la
rilevante eccezione della situazione americana, dove i sentimenti
tribali sono deboli e gli immigrati sono dispersi sul territorio -
significa perciò offrire una sponda teorica ad ideologie
nazionalistiche e a movimenti secessionisti d’ogni sorta.
Sarebbe insomma necessario che Walzer affiancasse al pur promettente
discorso sulla potenzialità reiterativamente universale del
particolarismo morale un’analisi più precisa della formazione
politica delle identità etniche e nazionali, che invece egli assume
come date. Benché lontano da pericolose interpretazioni
naturalistiche della lealtà comunitaria, l’autore non mostra grande
simpatia per la «scoperta postmoderna» secondo cui le comunità
sarebbero «costruzioni sociali immaginate, inventate, messe insieme a
partire da una grande varietà di elementi culturali e politici». Per
Walzer «tutte le comunità esistenti sono costruite», ma questo non
le rende «meno reali o meno autentiche»: in questo modo sembra che
gli sfugga il principale intento di questo filone di ricerca che non
è certo quello di negare l’importanza del sentimento nazionale né
di liquidare semplicisticamente la dimensione etnica, ma piuttosto
quello di rivelare il carattere arbitrario ed artificiale di ciò che
spesso si considera irriflessivamente come un assoluto, di
desacralizzare quanto pretende di essere riverito e pensato come un
destino. Un simile intento decostruzionista non sembra peraltro
affatto incompatibile con l’attività disvelatrice del critico
organico walzeriano e neppure con l’enfasi del nostro sul carattere
esemplare e reiterativo di moralità spesse e coerenti: l’attribuzione
di congruenza interna ad un’identità collettiva sarà tanto più
autentica quanto più sarà presente in essa la distinzione tra
memoria effettiva e mitologie costruite a tavolino, tra la concretezza
di relazioni umane dinamiche e plurali e l’irreale proiezione di
quelle stesse relazioni in unità totalizzanti ed esclusive.
Non mi sembra inoltre che l’attenzione di Walzer per l’immanenza
morale, considerata punto di partenza per l’articolazione di un
discorso universalistico eppure pluralista, debba necessariamente
appiattirsi ed esaurirsi nel riferimento alla comunità o alla nazione
come orizzonte politico preferenziale di un’identità realizzata.
Pur senza rincorrere improbabili prospettive di governo mondiale e
riconoscendo anzi la legittimità degli sforzi di liberazione di molti
popoli oppressi, credo che l’obiettivo da perseguire, anche in sede
teorica, sia la porosità dei confini e non il loro sbarramento, la
possibilità di continui attraversamenti e non il riconoscimento, per
quanto reiterato, di differenze blindate. Lo stesso Walzer parrebbe
riconoscerlo - salvo poi dimenticarsene in sede di traduzione
pratico-politica - quando nell’ultimo capitolo di Geografia della
morale contrappone, e mostra di preferire, un «io diviso»,
attraversato da lealtà plurime che si intrecciano ed in questo modo
si bilanciano, ad un «io» dominato e sopraffatto da uno dei tanti
critici interni che lo abitano e perciò teso ad affermare un’identità
gerarchica e statica.
È al primo tipo di soggettività che oggi dobbiamo guardare: nel suo
tentativo di ricondurre ad unità la pluralità concreta ed immanente
delle proprie appartenenze, riconoscendo nell’altro il medesimo
sforzo di ricomposizione, va trovata la base di un’etica
universalistica ma non per questo astratta e monista. L’approccio di
Walzer può ben servire questo scopo, purché egli riveda la sua
opzione tendenzialmente separatista e al pur importante discorso su
come, in circostanze critiche eccezionali, ci si possa intendere e
mostrare solidali con l’altro affianchi, sviluppando intuizioni già
latenti nel suo pensiero, una riflessione sulle possibilità di avere,
in occasioni ordinarie e all’interno di una comune società, un’interazione
ravvicinata e una comunicazione reale tra individui e gruppi
culturalmente diversi.
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