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L’is-ought question e il rapporto
fatti-valori
Maria Michela Marzano Parisoli
Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della
rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano
Maffettone. Per ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della
Luiss Edizioni o
scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
L’is-ought question: dalla metaetica all’etica normativa
Oggi sono sempre più numerosi i filosofi morali che, lasciandosi
alle spalle le problematiche analitico-concettuali, sono spinti a
confrontarsi con una serie di importanti questioni connesse alla
legittimità o meno di alcune azioni, decisioni e scelte cruciali e ad
impegnarsi quindi su un piano normativo e pratico-applicativo. Le
differenti aree della ricerca scientifica si limitano d’altronde,
come è noto, a porre in evidenza una serie di situazioni di fatto, ma
non riescono a proporre un vero e proprio dover essere e dover fare,
che è invece il tratto distintivo del giudizio morale: la sua
individuazione spetta infatti alle teorie etiche che, informate e
sensibili alle sottili differenze che caratterizzano l’etica
normativa rispetto alla metaetica, cercano oggi di impegnarsi a
livello normativo, senza tuttavia dimenticare il nocciolo duro delle
lezioni analitiche del dopoguerra.
Già da diversi decenni è d’altronde aumentata in modo
considerevole l’esigenza di approfondire gli aspetti normativi di
alcuni fondamentali problemi etici e di valutare la condotta dei
singoli individui o dei gruppi sociali attraverso ragioni e regole
etiche, principi e ideali.
In filosofia morale, il cambiamento più significativo, come è noto,
è costituito dalla decisa rinascita dell’etica normativa e dell’etica
applicata [...] i temi di metaetica sono poco considerati o
addirittura trascurati. [...] Nel 1969, un’importante collezione di
saggi presentava la is-ought question come «il problema centrale
della filosofia morale». Due anni dopo, nel 1971, né questo tema,
né quello ad esso correlato della fallacia naturalistica sono
menzionati nell’indice analitico di A Theory of Justice di J. Rawls,
libro unanimemente riconosciuto come uno dei più influenti contributi
nella filosofia pratica degli ultimi anni.
L’is-ought question aveva d’altronde coinvolto la quasi totalità
degli studiosi con indagini analitiche particolarmente tecniche. Il
dibattito si era poi isterilito e molti filosofi, invischiandosi in
asciutte note e contro-note sul rapporto tra proposizioni con l’is e
proposizioni con l’ought, avevano perso di vista la sostanza dei
problemi affrontati, trasformando l’is-ought question in una trivial
question.
Tuttavia, se è vero che «la is-ought question sembra aver perso
(gran parte del-) l’importanza pratica che aveva qualche decennio
fa», è anche vero che «va riconosciuto che la is-ought question
resta di fondamentale importanza e non può affatto esser trascurata.
La diversa posizione in materia ha pur sempre profonde conseguenze
nell’intera proposta morale».
È in questo contesto ambivalente che intende inserirsi il presente
lavoro, sotto l’ipotesi della possibilità di distinguere tra
is-ought questions differenti piuttosto che di considerarla una
questione univoca di natura prevalentemente logico-linguistica. Solo
così, infatti, mi sembra possibile giustificare la necessità che
esiste tutt’oggi di parlare di is-ought question nonostante il
parziale declino della filosofia analitica, almeno nei suoi aspetti
più rigidi. In questo senso, mi sembra che un’analisi delle
differenti argomentazioni che si sono susseguite a proposito della
is-ought question possa permettere di mettere in luce e di non
trascurare quello che, a mio avviso, è il messaggio sotteso a tanti
dibattiti, nonostante la differenza di piani e di livelli su cui la
discussione si è via via articolata nel corso degli anni. L’«errore»
più diffuso in filosofia morale, può essere d’altronde
sintetizzato come la tentazione perenne di voler parlare dell’etica
in termini non etici. È questo l’errore denunciato esplicitamente
da Moore all’inizio del Novecento. Così come è questo l’errore
che tutt’oggi i filosofi morali cercano di evitare quando si
appellano all’is-ought question, anche se poi resta ancora oggi
aperta la questione se sia ancora possibile dire qualche cosa in
etica, che non sia o banale o inintelligibile, una volta che si sia
rinunciato a parlare di etica in termini non-etici.
Le tre is-ought questions
Sebbene non esistano molti compendi esaustivi sull’is-ought question
e i contributi che si hanno siano per lo più rappresentati da
articoli spesso parziali o tecnici, l’idea di una continuità a
proposito della questione è tuttavia piuttosto radicata in
letteratura e attestata sia in molte opere di carattere generale sul
pensiero etico contemporaneo, sia in numerose raccolte di saggi.
Opinione comune, infatti, è che la questione, nata con Moore sotto
forma di fallacia naturalistica, si sia poi lentamente trasformata,
riprendendo le indagini di Hume, nell’is-ought question
logico-linguistica analizzata dai filosofi morali analitici negli anni
del dopoguerra, per esaurirsi infine in seguito all’affermarsi di
esigenze pratico-normative.
Sono d’altronde gli stessi filosofi analitici a considerarsi i
continuatori di una tradizione ben consolidata che vede nella
derivazione dell’ought dall’is un grave errore logico già
evidenziato e combattuto da Hume. Hare, ne Il linguaggio della morale,
dopo aver formulato i due principi-cardine della propria posizione,
insiste per esempio sulla connessione esistente tra il suo secondo
principio e quanto era stato da Hume sostenuto nel Trattato circa l’impossibilità
di dedurre proposizioni con l’ought da proposizioni con l’is: «in
questa regola logica è da ritrovarsi il fondamento della celebre
osservazione di Hume circa l’impossibilità di dedurre una
proposizione col verbo “dovere” da una serie di proposizioni col
verbo “essere”: un’osservazione che, come egli giustamente dice,
“sovvertirebbe tutti i sistemi di morale volgari”».
La mia ipotesi, a questo punto, è che in realtà l’is-ought
question non rappresenti affatto una questione unica. Non solo,
infatti, esistono delle versioni non strettamente «logiche» della
dicotomia fatti/valori (come ha recentemente sottolineato Ruwen Ogien,
d’altronde, bisognerebbe distinguere almeno tre interpretazioni di
questa tesi che, senza essere incompatibili, fanno tuttavia appello a
giustificazioni differenti : la prima potrebbe infatti essere definita
un’interpretazione logica, la seconda un’interpretazione semantica
e la terza, infine, un’interpretazione epistemologica), ma
soprattutto esistono dei contesti e delle motivazioni differenti che
hanno spinto autori molto diversi a prendere posizione di fronte al
problema della relazione tra fatti e valori. In questo senso, senza
voler intraprendere un’impresa titanica e cercare, come ha fatto
Ogien, di mostrare che dal fatto che il dover essere non può essere
logicamente derivato dall’essere non si può poi concludere che non
ci sia alcuna relazione tra i due livelli, vorrei limitarmi a mostrare
che la tesi di Moore (conosciuta come la tesi della fallacia
naturalistica) è sostanzialmente differente non solo rispetto alla
tesi di Hume, ma anche e soprattutto rispetto alla tesi più
prettamente analitica.
Un lavoro di distinzione, infatti, permetterebbe di analizzare la
is-ought question non più come una questione monolitica, ma piuttosto
come un problema complesso che ha via via avuto sviluppi differenti
secondo esigenze non sempre conciliabili. In particolare, mi
piacerebbe mostrare che, più che di un’unica questione, sarebbe
opportuno parlare di tre differenti is-ought questions, una mooreana
connessa al problema dell’autonomia dell’etica, una humeana
collegata al moralismo settecentesco, ed una analitica vicina a
problemi logico-linguistici. E nel parlare di tre differenti is-ought
questions non intendo semplicemente riferirmi a tre differenti
formulazioni di un’unica questione, ma piuttosto a tre problemi ben
distinti, connessi ad esigenze sempre nuove ed affrontati con tagli di
volta in volta originali.
Moore: fallacia naturalistica e is-ought question
Il punto di partenza per un’indagine sull’is-ought question
mooreana è senz’altro rappresentato dall’analisi del rapporto che
sussiste tra quest’ultima e la fallacia naturalistica. Scrive Moore
nel 1901:
Un appello alla fede e quindi all’intuizione è il solo terreno per
asserire la verità della religione. Infatti la verità, per essere
vera, è coordinata con i fatti della vita quotidiana e non può
essere inferita da essi, così come questi non possono essere inferiti
l’uno dall’altro. Messa così sembra che la credenza religiosa si
trovi nella stessa posizione delle credenze morali. Anche i giudizi
morali infatti sono indipendenti dalle credenze sul mondo ed anche la
loro verità non può mai essere inferita dai fatti quotidiani.
Moore mostra di essere certo dell’esistenza di una indipendenza
logica tra credenze morali/religiose e credenze
quotidiane/esistenziali. Tra giudizi morali e fatti quotidiani esiste
per Moore un tale gap che non sembra possibile arrivare ad inferire i
primi dai secondi, a meno di non commettere, come fa invece McTaggart,
una fallacia dovuta alla «diretta inferenza dell’is dall’ought»16.
«Il grande merito di questa visione sulle altre, eccetto su quella di
Sidgwick, è il suo riconoscimento che tutte le verità del tipo “questo
è buono in sé” sono logicamente indipendenti da qualunque verità
su ciò che esiste».
Moore sembra particolarmente interessato al tema del rapporto tra
fatti quotidiani (che è poi ciò che «esiste» e che Moore ritiene
che si debba esprimere in proposizioni in cui compare il verbo
«essere») e verità morali o giudizi morali (espressi invece in
proposizioni con l’ought). E si tratta, per il filosofo inglese, di
un rapporto di separazione tra due realtà diverse ed incommensurabili
che porta a commettere una fallacia ogni qualvolta si vogliano
inferire i giudizi morali dai fatti quotidiani. Una volta chiarita la
sostanza del problema, il fatto che poi nel primo brano riportato si
utilizzino le espressioni fatti quotidiani e giudizi morali, nel
secondo is ed ought e nel terzo, infine, bene in sé e ciò che
esiste, è secondario. Ma se proprio si vuole fare attenzione ai
vocaboli, è interessante notare come le due ultime espressioni (ossia
bene in sé e ciò che esiste) ricordino molto da vicino il
vocabolario utilizzato da Moore nei Principia. Pur non parlando
esplicitamente di fallacia naturalistica, nel ricordare la necessità
di un’indipendenza del buono in sé da ciò che esiste, Moore si
accosta molto ai brani dei Principia in cui si parla della necessità
di distinguere «buono», in quanto proprietà non naturale, da tutte
le proprietà naturali.
Si comprende allora come in Moore il problema del rapporto tra fatti e
principi morali sia chiaramente sotteso sia alla fallacia
naturalistica, sia all’is-ought question e come, proprio per questo,
la sua is-ought question sia un problema ontologico e sostanziale di
etica che coincide per lo più con la fallacia naturalistica.
Accanto infatti alle analisi logiche e linguistiche mooreane,
particolarmente significativo è il posto occupato nei suoi scritti
dalla ricerca di cosa fosse giusto fare o di quali cose fossero buone
in se stesse. E se «buono», almeno inizialmente, viene considerato
una «nozione semplice e indefinibile» (e in questo caso paragonato a
giallo), già a partire dal III capitolo dei Principia viene trattato
come una proprietà ontologicamente peculiare, come il mattone
primario dell’etica, come una proprietà non naturale. Ciò che
aveva interessato Moore nei Principia era stato non tanto l’analisi
del significato di «buono», ma «ciò che buono sta ad indicare»
ossia «quel solo oggetto semplice di pensiero» cui la parola rimanda
per scoprirne infine la vera natura, anche rispetto ad altre
proprietà.
E lo stesso vale anche per la fallacia naturalistica che, riesaminata
dopo aver considerato «buono» nella sua peculiarità ontologica,
viene ad essere quell’errore specifico che si commette ogni qual
volta buono (proprietà non naturale) viene confuso e schiacciato su
qualunque altra proprietà naturale (indipendentemente dal fatto poi
che tale proprietà appartenga alla realtà sensibile o
soprasensibile). Al di là pertanto delle pur sempre presenti esigenze
di chiarezza concettuale, particolarmente forti in Moore, sono sempre
state le esigenze di tipo etico-sostanziale che lo hanno portato ad
affrontare la questione della fallacia naturalistica a livello
ontologico-sostanziale oltre che logico-linguistico, al fine di
garantire all’etica una propria autonomia e al reame dei valori un’indipendenza
rispetto al regno dei fatti.
Una prova ulteriore della coincidenza in Moore tra fallacia
naturalistica ed is-ought question si può d’altronde avere cercando
direttamente nei Principia i luoghi in cui Moore fa riferimento alla
is-ought question. Se infatti un’espressione come questa non
compare, vi sono tuttavia dei brani in cui Moore, pur non utilizzando
i termini is ed ought, parla di contrapposizione tra proposizioni
etiche e leggi naturali, e perviene così ad una posizione analoga a
quella contenuta nei brani sopra riportati. Si legge in proposito nel
IV capitolo dei Principia:
Ho rilevato come l’assimilazione delle proposizioni etiche alle
leggi naturali o agli imperativi giuridici siano esempi di un equivoco
logico e ciò nonostante sia alquanto radicata la supposizione che le
proposizioni «questo è un bene» e «questo sarebbe un bene, se
esistesse», siano, per un certo aspetto, dello stesso tipo di altre.
Il fatto è che c’è un tipo di proposizioni che è così familiare
a tutti al punto che i filosofi hanno sempre ritenuto che tutti gli
altri tipi debbano potersi ridurre ad esso. Questo tipo è quello
degli oggetti dell’esperienza. [...] Il tipo di verità di gran
lunga più comune è quello che enuncia una relazione tra due cose
esistenti. Si capisce immediatamente che le verità etiche non sono
conformi a questo tipo e la fallacia naturalistica nasce dal tentativo
di far sì che, con qualche artificio, vi si conformino. È
immediatamente evidente che, quando riconosciamo una cosa come buona,
la sua bontà non è una proprietà che si possa toccare con le mani e
separare dalla cosa stessa. [...] Essa, a differenza della maggior
parte degli altri predicati che attribuiamo alle cose, non è una
parte della cosa a cui la attribuiamo.
Anche in questi brani, come già nell’articolo del 1901 e nelle
recensioni del 1903, si parla di «cose esistenti» e di «verità
etiche» come di «entità differenti» in proposizioni differenti.
Inoltre, si parla dell’errore che si commette nel conformare le
proposizioni del secondo tipo a quelle del primo tipo, definendolo una
fallacia naturalistica, implicando così la necessità di ribadire l’impossibilità
di ogni deduzione dell’ought dall’is, dei valori dai fatti.
Il problema, a questo punto, è che successivamente la fallacia
naturalistica di Moore venne collegata ad una is-ought question
differente da quella mooreana, questione in cui ciò che contava non
era più tanto l’impossibilità di derivare i valori e i principi
morali dai fatti, quanto piuttosto l’impossibilità logica di
dedurre proposizioni con l’ought da proposizioni con l’is. I suoi
interessi più sostanziali venivano accantonati col risultato di un
appiattimento delle sue posizioni a un livello puramente
logico-formale.
L’interpretazione analitica dell’is-ought question in Hume
Anche nel caso di Hume alcuni analisti del linguaggio morale hanno
talvolta operato una serie di forzature. Molti dei metaetici,
interessati essenzialmente ad un consolidamento delle proprie
posizioni, hanno voluto infatti vedere nel brano sull’è-deve un’anticipazione
sia dell’is-ought question mooreana, sia anche dell’is-ought
question analitica. Ma per comprendere la posizione di Hume vediamo
innanzitutto quanto scrive nel Trattato il filosofo scozzese:
In ogni sistema di morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre
trovato che l’autore va avanti per un po’ ragionando nel modo
consueto, e afferma l’esistenza di Dio, o fa delle osservazioni
sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al
posto delle abituali copule è [is] e non è [is not] incontro solo
proposizioni che sono collegate con un deve [ought] o un non-deve [ought
not]; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia,
la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve o non deve
esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario
che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una
ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa
nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da
essa completamente differenti. Ma poiché gli autori non seguono
abitualmente questa precauzione, mi permetto di raccomandarla ai
lettori, e sono convinto che un minimo di attenzione a questo riguardo
rovescerà tutti i comuni sistemi di morale e ci farà capire che la
distinzione tra vizio e virtù non si fonda semplicemente sulle
relazioni tra gli oggetti e non viene percepita mediante la ragione.
Secondo una interpretazione corrente Hume, con questo passo, sarebbe
il primo ad asserire l’impossibilità di una deduzione di
proposizioni con l’ought da proposizioni con l’is dal momento che
è del tutto inconcepibile che una nuova relazione (espressa appunto
con la copula ought) possa essere dedotta da relazioni precedenti
(espresse con la copula is). Come scrive chiaramente Lecaldano, questo
capoverso fu al centro di un vero e proprio dibattito, soprattutto nel
periodo che va dai primi anni Cinquanta alla fine del decennio
successivo:
Si è guardato al «capoverso sull’è-deve» come al passo del
Trattato nel quale più chiaramente emergerebbe la risposta di Hume al
quesito se nella sua teoria etica ritenesse o meno possibile una
riduzione del dovere all’essere, dei valori ai fatti, della morale
alle scienze naturali. [...] La linea interpretativa prevalente è
stata quella che ha trovato nel «capoverso sull’è-deve» del
Trattato una chiara formulazione della cosiddetta legge di Hume.
Ora, non si tratta qui certo di contestare completamente un’interpretazione
ormai canonica. Tuttavia, mi sembra che sarebbe fecondo leggere questo
brano sul rapporto tra l’is e l’ought alla luce della distinzione
operata da Hume tra analisi descrittiva, propria dei filosofi morali,
e normativismo, proprio invece dei moralisti. Nel I capitolo del
proprio libro su Hume, d’altronde, Lecaldano, esponendo una delle
linee argomentative sviluppate poi nel corso dell’opera, evidenzia
la necessità di prendere in considerazione il ruolo peculiare della
morale nell’indagine humeana sulla natura umana, al fine di
«comprendere più chiaramente il senso complessivo della sua
filosofia».
Hume, infatti, sembra molto sensibile ai conflitti morali con cui
viene di volta in volta a confrontarsi, anche perché insoddisfatto
della morale predicata nelle chiese e nelle scuole del clero
presbiteriano nella Scozia del 1700. L’urgente necessità di
superare una concezione inadeguata dell’uomo e dei suoi doveri
porterebbe quindi Hume, secondo Lecaldano, ad impostare una ricerca
empirica sulla natura umana da cui poter ricavare delle conclusioni
morali valide, così da arrivare a costruire un’etica sussidiaria ad
un’antropologia. Senza volere a questo punto entrare nel vivo del
dibattito storiografico, preferisco assumere lo stereotipo corrente,
non tanto perché esprime la complessità della riflessione humeana,
quanto perché rappresenta una modalità della sua ricezione. Mi
sembra infatti che sia possibile stabilire un parziale parallelismo
tra esigenze humeane ed esigenze mooreane.
Come in Moore era stata forte l’esigenza di affrontare e risolvere
positivamente la crisi di valori che caratterizzava l’età
post-vittoriana e la volontà di rispondere a domande del tipo «Cosa
si deve fare?» che lo aveva portato ad affrontare molte questioni
ontologiche connesse a bene, giusto, e dovere, così anche in Hume era
determinante per le ricerche sviluppate la sensibilità di fronte ai
conflitti morali e, soprattutto, di fronte all’inadeguatezza della
morale settecentesca. C’è tuttavia un punto su cui Moore assume una
posizione del tutto divergente rispetto a quella humeana. Se infatti
per lo Hume di Lecaldano l’etica non è autonoma, ma è anzi
sussidiaria ad una antropologia, per Moore, invece, è proprio la
necessità di salvaguardare tale autonomia che porta necessariamente
un filosofo morale a contrapporsi a qualunque forma di fallacia
naturalistica e ad assumere una posizione molto netta nei confronti
dell’is-ought question. Parlare di fallacia naturalistica o di
is-ought question significa d’altronde per Moore parlare di quell’errore
che porta inevitabilmente alla fine di qualunque autonomia per l’etica.
Il fatto che per Hume non sia possibile parlare di autonomia dell’etica,
allora, porta inevitabilmente a cercare un significato differente per
l’is-ought question humeana. Sia in Hume, sia in Hobbes, d’altronde,
non sembra ancora acquisito quel processo, pienamente realizzato in
questo secolo, di considerare la morale e l’etica non solo del tutto
autonome, ma anche autosufficienti. [...] Hobbes e Hume condividono la
tesi che l’etica sia strettamente dipendente da, e parte di, una
concezione della natura umana: in un certo senso sussidiaria ad una
antropologia. Hume evita tale derivazione [del dovere morale dalla
ricostruzione scientifica dell’uomo] e l’errore naturalistico solo
in quanto non presenta nessuna esplicita etica normativa nei suoi
scritti.
Ho voluto sottolineare il termine solo dal momento che mi sembra
fondamentale comprendere bene questo punto su cui anche Lecaldano
insiste. Il fatto che Hume non commetta la fallacia naturalistica
dipende solo dal fatto che nella sua opera è del tutto assente
qualunque velleità normativa e non dall’accettazione di un’etica
autonoma, caratterizzata da un reame di valori non assimilabile a
quello dei fatti: invece in Moore tra fatti e principi morali esiste
una vera e propria differenza ontologica da salvaguardare.
Innanzitutto si deve notare come questo passo sia uno dei due famosi
brani in cui Hume adopera il termine ought. In secondo luogo, non si
può non notare come il brano sia stato spesso studiato completamente
decontestualizzato, soprattutto dagli analisti del linguaggio morale.
Sono stati molti i metaetici che, interessati essenzialmente ad un
consolidamento delle proprie posizioni, hanno voluto vedere nel brano
sull’è-deve un’anticipazione sia dell’is-ought question
mooreana, sia dell’is-ought question analitica senza interessarsi al
contesto all’interno del quale il brano viene inserito e, in ultima
analisi, senza valutare il ruolo che per Hume assume la distinzione
tra analisi descrittiva, propria dei filosofi morali, e normativismo,
proprio invece dei moralisti. L’errore dei «volgari sistemi di
morale» sarebbe allora, in tale contesto, quello di aver proposto
precetti ingiustificati, niente affatto fondati su un’attenta
analisi della natura umana, ma piuttosto ricavati in base ad un
indebito passaggio da relazioni caratterizzate dalla copula is
(attraverso cui ci si riferisce normalmente agli affari umani o all’esistenza
di Dio) a nuove relazioni caratterizzate invece dalla copula ought.
Volendo dare dei precetti, è invece necessario comprendere
adeguatamente la natura umana, arrivare a costruire una convincente
antropologia e quindi passare a una riflessione etica fondata sull’antropologia.
Alla base del passaggio sull’è-deve si trovano pertanto intrecciati
i temi cardine della posizione filosofica humeana: da un lato, il
compito essenzialmente descrittivo del filosofo morale e, dall’altro,
il carattere sussidiario dell’etica.
Hume osserva come le relazioni espresse dalle proposizioni con la
copula ought rappresentano delle relazioni del tutto nuove rispetto a
quelle espresse dalle proposizioni con l’is, tanto da ritenere
inconcepibile una deduzione delle prime dalle seconde. Ma che tipo di
relazioni vengono espresse per mezzo della copula ought? Per Hume,
infatti, la ragione è e deve essere sempre schiava delle passioni. Il
tipo di relazione espresso dalla copula ought sembrerebbe allora
essere quello di una necessaria sudditanza della ragione alle
passioni. L’errore alla base dei volgari sistemi morali
consisterebbe quindi, da un lato, nel non riconoscere la natura
descrittiva della filosofia morale e, dall’altro, nel non cogliere l’essenza
passionale della natura umana che porta a parlare di una necessaria
sottomissione della ragione alle passioni.
In tale contesto, il brano sulla relazione tra è e deve finisce coll’essere
una diretta conseguenza dell’intero sistema filosofico humeano. E
quindi, non solo l’is-ought question humeana avrebbe poco a che fare
con la fallacia naturalistica mooreana, ma ha anche poco a che vedere
con l’is-ought question studiata dagli analisti del linguaggio
morale degli anni Cinquanta e Sessanta. L’is-ought question humeana,
infatti, non è legata alla preoccupazione mooreana di garantire una
piena autonomia all’etica e al suo reame dei valori, ontologicamente
differente da quello dei fatti, che era alla base della
contrapposizione di Moore alla fallacia naturalistica. Né sembra
avere molto in comune con gli studi dei filosofi analitici, volti ad
approfondire gli aspetti logico-linguistici del rapporto tra
proposizioni fattuali e proposizioni etiche. In Hume c’è una
preoccupazione differente: salvaguardare la purezza del compito del
filosofo morale, che consiste in una attenta ricognizione della natura
umana più che nella formulazione di precetti morali infondati, come
spesso accadeva nel XVIII secolo, anche se poi, ben al di là di
quello che Hume voleva effettivamente dire, ciò che colpì molto gli
analisti del linguaggio morale fu l’uso rigoroso che questi fece del
linguaggio.
L’is-ought question e la filosofia analitica
La problematica affrontata dagli analisti del linguaggio morale è una
questione prettamente logico-linguistica e la si comprende solamente
inserendola all’interno del loro particolare contesto culturale. Ci
fu un tempo in cui l’idea dominante nei paesi di lingua inglese era
d’altronde quella di considerare la filosofia come un’analisi
meramente concettuale o linguistica: era diffusa la convinzione che i
tradizionali problemi filosofici potessero essere risolti solo una
volta che si fosse fatta chiarezza a proposito dei concetti filosofici
rilevanti e quindi del significato e dell’uso dei termini più
importanti. In tale contesto, erano molti i filosofi morali che,
indipendentemente dalla scuola di appartenenza, intendevano spiegare
il significato di termini come «buono», «giusto», «dovere» e
mostrare in che modo si potessero giustificare le proposizioni che
contenevano espressioni di questo genere.
A partire dal secondo dopoguerra, inizia a diffondersi l’idea di una
neutralità morale della metaetica rispetto a qualunque possibile
risvolto normativo mentre, in connessione alla neutralità della
metaetica, si moltiplicano anche i dibattiti sui rapporti di
implicazione tra proposizioni con l’is e proposizioni con l’ought.
E i problemi analizzati finiscono con l’essere esclusivamente di
natura logico-linguistica; ciò che interessa agli analisti del
linguaggio morale è il comportamento logico delle differenti
proposizioni esaminate e il tipo di legame presente tra proposizioni
prescrittivo-valutative e proposizioni fattuali-descrittive. Il
compito principale degli analisti del linguaggio morale è d’altronde
quello di presentare un’analisi del significato delle parole o delle
espressioni morali che sia sistematica e non più semplicemente
rapsodica, come invece accadeva spesso in altri pensatori; solo dopo
aver compiuto un’analisi rigorosa del linguaggio morale si ritiene
infatti possibile arrivare ad individuare ed a distinguere le
argomentazioni morali valide. Ed è in un quadro di questo genere che
si inseriscono le prime analisi del linguaggio morale portate avanti
da intuizionisti ed emotivisti e, in seguito, le ricerche analitiche
di pensatori quali Toulmin, Nowell-Smith ed Hare. Così come è all’interno
di questo clima che si inserisce il dibattito sull’is-ought question
e che la questione assume delle connotazioni particolari.
A partire dagli anni Cinquanta, fino alla fine del decennio
successivo, l’is-ought question viene analizzata in modo
proposizionale; ciò che interessa è il tipo di legame esistente tra
proposizioni differenti e il punto di partenza è rappresentato dallo
studio delle differenze esistenti tra proposizioni con l’is (ossia
le proposizioni fattuali che sono, in quanto tali, verificabili o
falsificabili), e proposizioni con l’ought (ossia le proposizioni
normative, caratterizzate da termini come «buono», «giusto»,
«dovere»). Quindi, una volta individuati gli aspetti rilevanti dei
due tipi di proposizioni, ciò che interessa è capire se sia
effettivamente possibile avere a che fare con dei validi sillogismi
misti in cui da proposizioni descrittive sia possibile dedurre
proposizioni prescrittive. In proposito, la tendenza più diffusa è
in questi anni quella di negare la possibilità di una deduzione di
questo tipo in base al principio logico secondo cui nelle conclusioni
di ogni valido argomento deduttivo non può comparire nulla che non
sia già presente nelle premesse.
Sia Hare che Nowell-Smith sostengono ad esempio che le conclusioni
valutativo-prescrittive non possono essere dedotte da premesse
meramente fattuali-descrittive in base al principio logico che le
conclusioni non possono contenere termini che non siano già contenuti
nelle premesse. Tra le proposizioni descrittive e quelle prescrittive
esiste anzi una vera e propria distinzione di tipo logico. Non si
possono tuttavia dimenticare, sempre in questo contesto di analisi
logica del linguaggio, alcune voci discordi che iniziano ad insinuare
alcuni dubbi sulla legittimità delle argomentazioni più classiche.
Particolarmente efficaci, nei confronti del principio logico classico,
furono gli interventi di Rynin e di Prior. Sia nell’articolo di
Rynin, che in quello di Prior, infatti, vengono sollevati dei dubbi a
proposito del fatto se sia effettivamente un principio della logica
che nessuna conclusione di una valida argomentazione possa contenere
qualcosa che non sia presente nelle premesse e che, quindi, nessuna
proposizione normativa fosse derivabile da una proposizione fattuale.
La regola è valida sillogisticamente; ma, al di fuori della
sillogistica, sono molti i casi di proposizioni etiche deducibili da
proposizioni non etiche. Il famoso principio ritenuto valido dal
neopositivismo e da gran parte della filosofia analitica è per questi
autori assolutamente falso ed inutilizzabile, a meno di non
restringerlo alla logica ordinaria. È in tale contesto che Rynin,
ricorrendo al «principio dell’esportazione», dimostra ad esempio
di poter passare da:
(N Ÿ F) Æ Nı
a:
F Æ (N Æ Nı)
laddove F sta per una proposizione fattuale ed N ed Nı
stanno invece per delle proposizioni normative. Ed è sempre in tale
contesto che si inserisce anche l’argomentazione costruita da Prior
secondo cui le conclusioni etiche derivano da premesse non etiche:
Bere il tè è diffuso in Inghilterra; pertanto o ‘bere il tè è
diffuso in Inghilterra o tutti i neozelandesi devono essere eliminati’.
Non c’è niente di peculiare in questa deduzione come deduzione;
essa ha la forma ‘P; quindi P o Q’. La premessa è certamente non
etica, ma la conclusione lo è.
Articoli di questo genere, per quanto molto interessanti da un punto
di vista logico, sono tuttavia assai lontani dalla problematica morale
del rapporto tra fatti e valori che era stata al centro della is-ought
question mooreana e finiscono quindi coll’essere per certi aspetti
«futili», per usare un’espressione utilizzata da Shorter e poi
più volte ripresa dagli avversari più disparati e acerrimi della
filosofia analitica. Non è tuttavia mio compito, né mio interesse,
mettere il dito in una piaga ancora aperta: non è qui in discussione
l’utilità di indagini logico-analitiche che per altro, in molti
casi, sono tutt’altro che «futili». Il punto che mi sembra
interessante sottolineare, è che attraverso queste indagini tecniche
sui principi logici e sulla loro applicabilità in ambito sillogistico
la problematica morale del rapporto esistente tra fatti e valori
sembra passare in secondo piano, esattamente come passa in secondo
piano il problema mooreano dell’autonomia dell’etica rispetto alle
altre discipline. Tanto più che, col passare del tempo, gli sforzi
analitici si concentrano sull’analisi di «esempi e controesempi»,
la cui unica finalità è quella di mostrare la possibilità di
trovare nel linguaggio la prova di un possibile passaggio dal piano
descrittivo a quello prescrittivo.
Si moltiplicano gli sforzi degli studiosi per trovare esempi sempre
nuovi a favore o meno del passaggio dall’is all’ought, senza
alcuna attenzione ai diversi usi di ought. Solo quando ormai i
tecnicismi eccessivi dei filosofi analitici sembrano messi da parte,
usciranno i primi articoli interessati ad una classificazione dei
diversi usi di ought con lo scopo di arrivare ad isolare, tra gli
altri, il suo uso morale. Mi riferisco essenzialmente agli interventi
di Cameron e soprattutto di Robinson. Infatti, mentre Cameron si
limita a sottolineare l’esistenza di una distinzione tra obbligo
morale ed obbligo legale-istituzionale, per poi concentrarsi solamente
sull’obbligo istituzionale, Robinson si sofferma invece in modo più
ampio sull’uso morale di ought, in quanto è tale ought che, a
differenza degli altri, può essere utilizzato nei giudizi morali per
esprimere la prescrittività delle leggi etiche.
Slittamento metodologico e slittamento tematico
È in tale contesto che mi sembra giustificato proporre due nozioni
utili a comprendere le trasformazioni analitiche a proposito dell’is-ought
question, ossia la nozione di slittamento metodologico e quella di
slittamento tematico. Con la prima espressione mi sembra, infatti, che
si riesca per certi aspetti ad inquadrare quanto avvenuto nel corso
degli anni Cinquanta presso i metaetici quando, invece che di fatti e
principi morali (come accadeva in Moore), si giunge a parlare di
proposizioni normativo-valutative e proposizioni fattuali-descrittive.
Parlando di slittamento tematico, invece, intendo riferirmi a quanto
accade soprattutto a partire dai primi anni Sessanta. Col tempo,
infatti, i metaetici non si accontentarono più di avere a che fare
semplicemente con proposizioni, ma limitarono il proprio orizzonte
argomentativo alla formulazione di esempi e controesempi non
necessariamente appartenenti all’universo etico.
Molti simili articoli sono accomunati dall’uso di uno specifico
contesto, quello del perseguimento di un certo fine, che è poi anche
il contesto tipico degli imperativi ipotetici. Mi sembra infatti che
la forma logica di tutti questi esempi sia, in modo più o meno
esplicito, la seguente:
PM: se vuoi [... fare, ottenere, raggiungere eccetera] X
pm: se il modo di [...] X è [...] Y
C: allora devi [...] Y
Dalle premesse (PM e pm) descrittive-fattuali-con l’is si ottiene,
infatti, una conclusione (C) valutativa-prescrittiva-con l’ought. È
in tale ambito che si inserisce, per citare uno tra gli articoli più
noti, l’intervento di Black. In particolare, Black costruisce il
seguente controesempio a quella che definisce la ghigliottina di Hume
(ossia al principio in base al quale non è possibile dedurre l’ought
dall’is):
Fischer vuole fare scacco matto a Botwinnik.
L’unico modo per Fischer di fare scacco matto a Botwinnik è di
muovere la Donna.
Pertanto Fischer deve muovere la Donna.
In tale controesempio ci si trova di fronte a due premesse fattuali e
ad una conclusione non fattuale (cioè una proposizione con should ed
ought), proprio come nello schema logico presentato. Chiunque volesse
contestare questo controesempio alla ghigliottina di Hume dovrebbe,
per Black, arrivare a dimostrare che la corretta conclusione dell’esempio
non ha un carattere normativo:
Chiunque voglia negare che l’esempio discrediti la ghigliottina di
Hume dovrebbe dimostrare che la conclusione sia in realtà fattuale.
Questi potrebbe dire che la conclusione appropriata sarebbe ‘La
miglior mossa di Fischer è muovere la regina’ o forse ‘L’unico
modo in cui Fischer può vincere è muovendo la regina’. Entrambe le
proposizioni sono fattuali nel senso ampio in cui il termine è qui
utilizzato.
Per Black, però, la conclusione con should del proprio controesempio
non è semplicemente un altro modo per dire che la mossa migliore da
farsi «è così e così» o che «l’unico modo per vincere è di
fare quella mossa», ma è una conclusione dotata di un particolare
carattere normativo che la rende irriducibile a qualunque altra
proposizione fattuale, pur seguendo da premesse fattuali.
Ora, senza entrare nel merito di questo caso particolare affrontato da
Black, come anche di altri controesempi, e senza pertanto soffermarmi
sulle obiezioni che sono state in proposito sollevate, ciò su cui
vorrei attirare l’attenzione è il fatto che ci si trova qui di
fronte ad una serie di argomentazioni più vicine alla filosofia del
linguaggio che all’etica. Gli esempi portati, le giustificazioni ad
essi connesse e le molteplici obiezioni mosse hanno d’altronde tutte
un carattere molto tecnico e sono per lo più linguistiche e logiche.
In tale contesto, per esempio, Black è molto attento a dimostrare la
fattualità delle premesse del proprio esempio e la normatività della
conclusione, senza apparentemente interessarsi al problema dell’autonomia
dell’etica sollevato da Moore, o al problema ontologico (prima
ancora che logico-linguistico) del rapporto tra fatti e valori.
Per certi aspetti differente, nonostante ci si trovi ancora una volta
in un contesto del tipo esempio-controesempio, è il caso di Searle
che forse è il solo a rendersi conto del legame puramente nominale
esistente tra l’is-ought question analitica e l’is-ought question
metafisico-mooreana, nonostante che la questione, con i filosofi
analitici, fosse stata relegata in un ambito logico-linguistico.
Scrive infatti Searle:
Una delle più antiche distinzioni metafisiche è quella tra fatto e
valore; alla credenza in questa distinzione sottostà la percezione
che i valori derivano in qualche modo dalle persone e non possono
risiedere nel mondo, perlomeno non nel mondo delle pietre, degli
alberi, dei fiumi e dei fatti bruti. Se vi risiedessero, essi
cesserebbero di essere valori e diventerebbero semplicemente un’altra
parte di questo mondo. Una difficoltà che questa distinzione ha
sollevato nella storia della filosofia è che ci sono stati molti modi
di caratterizzarla, non tutti equivalenti. Si crede comunemente che
Hume vi alludesse in un famoso passo del Trattato, là dove si parla
delle vicissitudini del passaggio dall’è al dovrebbe. Moore (1903)
vide la distinzione come differenza tra le proprietà naturali come
giallo e quelle che chiamava le proprietà non naturali come la
bontà.
Per ironia, i continuatori di Moore hanno trasferito questa
distinzione metafisica al linguaggio, capovolgendo l’ordine usuale
di progressione metafisica e l’hanno interpretata come una tesi
sulle relazioni di implicazione nel linguaggio. Così formulata, la
tesi nega che alcun insieme di affermazioni descrittive possa mai
implicitare un’affermazione valutativa. Ho detto per «ironia»,
perché, se mai, il linguaggio pullula di esempi contrari alla tesi
che dalla descrizione non possa seguire alcuna valutazione. [...] La
tesi che dovrebbe non può essere fatto derivare da è è considerata
in genere come semplicemente un altro modo di esporre l’opinione o
un caso particolare dell’opinione che le affermazioni descrittive
non possono implicitare affermazioni valutative. [...] Quel che ci
interessa è il dovrebbe e basta, non il dovrebbe da un punto di vista
morale. Se si accetta una tale distinzione si potrebbe dire che quello
di cui mi occupo è una tesi di filosofia del linguaggio, non di
filosofia morale.
Searle coglie la valenza metafisica della distinzione esistente tra
fatti, da un lato, e valori e principi morali, dall’altro. Si rende
conto dello spessore metafisico ed etico delle analisi di Moore e,
quindi, di come questi fosse interessato a sottolineare la differenza
ontologica esistente tra buono (proprietà non naturale in quanto
valore) e giallo (proprietà naturale in quanto fatto). È del tutto
consapevole della problematicità della posizione di Hume e
soprattutto delle difficoltà legate alla connessione tra l’is-ought
question mooreana e l’is-ought question humeana (la frase di Searle
«si crede comunemente che Hume vi alludesse» sembra quasi
sottolineare le incertezze inevitabilmente legate ad ogni supposizione
a proposito del brano sull’«è-deve» del Trattato). Apre infine la
strada, seppure involontariamente, ad una serie di indagini e
riflessioni che possano ripercorrere la storia dell’is-ought
question alla ricerca delle sue radici metafisiche ed etiche.
Una ricapitolazione a mo’ di conclusione
Se è vero che a proposito della is-ought question è necessario
operare una distinzione e separare l’is ought question humeana,
quella mooreana e quella analitica, è anche vero che il valore e lo
spessore dell’impostazione analitica restano comunque innegabili.
Peraltro, la radicale trasformazione di impostazione che ha seguito la
ricerca nell’ultimo ventennio ha spesso portato alla comparsa di
molti nuovi lavori in cui non si trovano nemmeno degli accenni alle
ricerche analitiche precedenti: le teorie etiche normative vengono
spesso portate avanti senza alcuna preliminare attenzione al
significato delle nozioni in questione; e sono in molti a pretendere
di risolvere i problemi affrontati attraverso una combinazione di
pregiudizi e retorica.
Se è vero allora che la is-ought question analitica ha finito spesso
con l’inaridirsi e l’esaurirsi in seguito agli interventi a volte
sterili dei metaetici (perdendo così quell’afflato etico che aveva
avuto in Moore e che oggi sembra tornare nuovamente all’attenzione),
è anche vero che sarebbe un errore volere a questo punto
generalizzare il discorso e rifiutare i dibattiti logico-linguistici.
Si rischierebbe, infatti, in questo modo, di commettere l’errore
opposto. Si tratta allora di tendere ad una sorta di conciliazione tra
la metaetica e l’etica sostanziale in modo da non limitarsi né ad
una metaetica vuota, né, tantomeno, ad una etica sostanziale cieca,
così da poter riaprire un dibattito filosoficamente pregnante sul
rapporto tra fatti e principi, tra essere e dover essere .
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