Mosè e il Nome del Padre
Il Dictionnaire de la Psychanalyse di R. Chemama - B. Vandermersch
(Paris, Larousse 1998.) è in corso di pubblicazione presso l’editore
Gremese, dopo essere stato tradotto dall’Associazione Psicanalitica
“Cosa Freudiana”. "Caffè Europa" pubblica in anteprima
le voci che il dizionario dedica a Mosè e il Nome del Padre.
Mosè e il monoteismo. L’opera più controversa di Freud poiché
mette in causa in modo definitivo la questione dell’identità a se
stessi.
encicl. Discorso a tavola tenuto da un Nobel ebraizzante: «L’opera
di Freud è ammirevole, ad eccezione di una sola. Pretendere che Mosè
fosse egiziano è in primo luogo insopportabile, in secondo luogo
infondato».
I due primi capitoli di quest’opera - il cui titolo originale è L’uomo
Mosè, romanzo storico - usciti nel 1937 a Vienna mentre il terzo fu
pubblicato a Londra nel 1939, non hanno mai deluso l’accoglienza che
Freud aveva previsto. L’ostilità e l’incomprensione dei circoli
illuminati, la confutazione facile ma virulenta degli specialisti
(vedi, nel 1997, Christiane Desroches-Noblecourt, “Revue d’éthique
et de théologie morale, Le Cerf édit.), la prudenza degli allievi
timorosi davanti all’inopportunità, si presentarono regolarmente
all’appuntamento.
Freud aveva timore che, in reazione alle sue tesi, la gerarchia
cattolica interdicesse l’esercizio della psicanalisi a Vienna; ma fu
proprio dagli esegeti ebrei che vennero le critiche più oltranziste.
Così A.S. Yahuda (1946): «Mi sembra di ascoltare la voce di uno dei
più fanatici cristiani esprimente il proprio odio per Israele e non
quella di un Freud che odia e disprezza questo genere di fanatismo di
tutto cuore e con tutte le sue forze».
Apparirà prevedibile in effetti che una messa in causa dei fondamenti
della religione provochi delle risposte passionali, ciascuno potendosi
ritenere colpito nell’animo.
Si ammetterà tuttavia che il lavoro di Freud fa appello ad almeno tre
questioni. L’una concerne il metodo, la seconda la costrizione
provata dall’autore, l’ultima la finalità mirata.

metodologia; La tesi esposta non si riassume nello
spossessamento di Mosè del proprio ebraismo. Essa rinvia alla
paternità del monoteismo e dei suoi valori - ordine, giustizia,
verità - al faraone Akhnaton (1375 a. C.) della gloriosa XVIIIa
dinastia. Alla caduta di questi, un principe, egiziano come indica il
suo nome - Mose -, avrebbe scelto l’esilio portando con sé una
popolazione di semiti che egli costrinse a perpetuare, nonostante le
rivolte, la religione monoteistica. Dopo l’uccisione del principe da
parte di questo popolo, tale tradizione fu ripresa insieme al nome
Mosè da un prete madinita (ancora un non ebreo) che l’associò al
culto di Jahvè, dio locale dei vulcani, feroce, bellicoso e
sanguinario.
In conclusione: due dei, due monoteismi, due Mosè, due popoli ecc.
Freud regolarmente sottolinea che le sue costruzioni mancano di prove
e urtano contro gravi difficoltà cronologiche. A dire il vero, egli
trova sostegno solo in un’opera di E. Sellin (1922) che interpreta
un passo del profeta Osea (VIII secolo) per ipotizzare che Mosè
sarebbe stato ucciso dal suo popolo. Da allora, gli specialisti hanno
unanimamente respinto tale interpretazione.
In mancanza di verità storica, Freud invoca la verisimiglianza
psicologica. L’inconscio conserverebbe la traccia di un’uccisione
originale del padre in forma di colpevolezza mai smentita nei suoi
riguardi. Ma al viennese fanno difetto i progressi linguistici che,
con la struttura, avrebbero potuto dargli la chiave del problema che l’ossessiona.
Quest’ultima sottolinea in effetti che il soggetto può affermare la
propria esistenza solo alle spese di un padre morto del quale da
allora egli si attribuisce la colpa. Così l’ossessivo che torna
sempre sui propri passi senza stancarsi mai alla ricerca del cadavere
di colui che egli ha dovuto freddare senza tanti scrupoli e per il
solo fatto di progredire. E la religione sfrutta anche il taglio che
separa irrimediabilmente il figlio da un padre del quale emerge l’irriducibile
alterità, suggerendo la semplice messa a distanza che impongono il
timore e il rispetto.
costrizione; Il «romanzo storico» di Freud deve in tal modo
leggersi come il tentativo di render conto di un effetto di struttura;
quello che costringe il figlio a viversi come colpevole della morte
del padre e a restare separato da lui, in vita, per una invalicabile
alterità. Occorre un mistico per verificare e illustrare questa
impasse. Nulla vieta di leggere Mosè come la preoccupazione di Freud
di mettersi in ordine davanti al padre, nel momento in cui egli sapeva
che lo avrebbe presto raggiunto nella morte e precisando, non fosse
che per se stesso, che nella Sua casa non c’era niente se non l’Altro.
Non si può dimenticare che questo «romanzo» non era necessariamente
destinato alla pubblicazione, che era piuttosto un dialogo di Freud
con se stesso più che con un interlocutore da convincere.
obiettivo. L’obiettivo dell’opera è tuttavia notevole e
colma - in extremis- una grave lacuna. Se il complesso di Edipo, in
effetti, rivela la separazione di un oggetto ideale, niente fondava la
separazione del soggetto da un io ideale. La religione, la nazione, l’amore
del padre intrattengono la virtualità di una possibile riparazione
tramite il narcisismo di ciò che è stato perduto in campo
oggettuale. Il Mosè sferra un colpo a un’illusione molto pericolosa
che causa le guerre di religione, di tribù, di patrie, tutti i
fanatismi. Per rendergli omaggio, potremmo d’ora in poi chiamare
«complesso di Mosè» questo moto sacrificale del figlio per il
padre, quando solo la morte permetterebbe di verificare che la tomba
è vuota. Charles Melman (trad. Janja Jerkov).
Nome-del-Padre n.m. (franc. Nom-du-Père). Prodotto della
metafora paterna che, designando dapprima ciò che la religione ci ha
insegnato a invocare, attribuisce la funzione paterna all’effetto
simbolico di un puro significante. In un secondo tempo, designa ciò
che regge tutta la dinamica soggettiva inscrivendo il desiderio nel
registro del debito simbolico.
encicl. Il padre è una verità sacra, di cui tuttavia niente nella
realtà vissuta indica la funzione e la dominanza giacché resta in
primo luogo una verità inconscia. E’ dunque necessariamente
mediante una elaborazione mitica che la sua funzione è emersa nella
psicanalisi e che essa attraversa tutta l’opera di S. Freud fino al
suo ultimo lavoro Mosè e il monoteismo, in cui è sviluppata la sua
efficacia inconscia come quella del padre morto in quanto termine
rimosso. Molto per tempo, Freud aveva reperito nelle nozioni di
destino e di provvidenza le figure parentali. E d’altronde, se
consideriamo il gran numero di trattati dell’antichità su questo
tema, sappiamo quanto il destino fosse una delle preoccupazioni
maggiori dei filosofi e dei moralisti.
Ma se il Nome-del-Padre è un concetto fondamentale nella psicanalisi,
questo deriva dal fatto che ciò che il paziente viene a cercare nella
cura è il tropo del suo destino, vale a dire ciò che dell’ordine
della figura retorica viene a comandare il suo divenire. A questo
titolo, Edipo e Amleto restano esemplari. Sarebbe a dire che la
psicanalisi inviterebbe a padroneggiare questo destino? Tutto muove
contro questa idea nella misura in cui il Nome-del-Padre consiste
principalmente nella messa in regola del soggetto con il proprio
desiderio, nei confronti del gioco dei significanti che lo animano e
costituiscono la sua legge.

Per esplicitare questo fatto, conviene ritornare alla formalizzazione
di J. Lacan, quella della metafora paterna, formalizzazione di cui
osserviamo che consiste unicamente in un gioco di sostituzione nella
catena significante e che essa organizza due tempi distinti che
possono anche tracciare il percorso di un cura nel suo insieme.
formalizzazione in due tempi. Il primo realizza l’elisione
del desiderio della madre per sostituirvi la funzione del padre in
ciò che quest’ultima conduce, attraverso il richiamo del suo nome,
all’identificazione al padre (secondo la prima descrizione di Freud)
e al tirar fuori il soggetto fuori del campo del desiderio della
madre. Questo primo tempo, decisivo, regola, con tutte le difficoltà
relative a una storia particolare, l‘avvenire della dialettica
edipica. Esso condiziona ciò che si conviene chiamare «la normalità
fallica», cioè la struttura nevrotica che risulta dall’iscrizione
di un soggetto colpito dalla rimozione originaria. Nel secondo tempo,
il Nome-del-Padre in quanto significante viene a raddoppiare il posto
dell’Altro inconscio. Esso drammatizza al suo giusto posto il
rapporto con il significante fallico originariamente rimosso e
istituisce la parola sotto gli effetti della rimozione e della
castrazione simbolica, condizione senza la quale un soggetto non
saprebbe validamente assumere il proprio desiderio nell’ordine del
suo sesso.
correlazione fra il nome-del-padre e il desiderio. A partire da
questo fatto derivano numerose conseguenze: essendo la metafora
creazione di un nuovo senso, il Nome-del-Padre prende da quel momento
una significazione differente. Se il nome inscrive innanzi tutto il
soggetto come anello intermedio nella successione delle generazioni,
questo nome in quanto significante intraducibile supporta e trasmette
la rimozione e la castrazione simbolica. In effetti, poiché il
Nome-del-Padre viene a simbolizzare il fallo (originariamente rimosso)
nel luogo dell’Altro inconscio, esso di conseguenza raddoppia la
marca della mancanza nell’Altro (che è anche quella del soggetto:
il suo tratto* unario) e, mediante gli effetti metonimici legati al
linguaggio, istituisce un oggetto causa del desiderio.
Così fra Nome-del-Padre e oggetto, causa del desiderio, si stabilisce
una correlazione che si traduce nell’obbligo, per un soggetto, d’inscrivere
il suo desiderio secondo l’ordine del suo sesso, raccogliendo sotto
questo nome, il Nome-del-Padre, allo stesso tempo l’istanza del
desiderio e la Legge che l’ordina secondo il modo di un dovere da
compiere. Un tale dispositivo si distingue radicalmente dalla semplice
nominazione poiché il Nome-del-Padre significa qui che il soggetto
assume il proprio desiderio come regolato sulla legge del padre (la
castrazione simbolica) e sulle leggi del linguaggio (sotto i colpi
della rimozione originaria). L’eventuale difetto di quest’ultima
operazione si traduce clinicamente in una certa inibizione o in una
impossibilità di dar seguito al desiderio nelle sue conseguenze
affettive, intellettuali, professionali o sociali.
Quando J. Lacan ricorda che il desiderio dell’uomo è il desiderio
dell’Altro (genitivo oggettivo e soggettivo), bisogna intendere che
questo desiderio è prescritto dall’Altro, forma accertata del
debito simbolico e dell’alienazione e che, in un certo modo, questo
oggetto è ugualmente strappato all’Altro. Così il Nome-del-Padre
riassume l’obbligo di un oggetto del desiderio fin nell’automatismo
di ripetizione.
la nascita della religione come sintomo. Peraltro, Mosè e il
monoteismo dimostra che la rimozione dell’omicidio del padre genera
una doppia prescrizione simbolica: in primo luogo quella di venerare
il padre morto, in secondo luogo quella di dover suscitare un oggetto
del desiderio che permetta di riconoscersi fra gli eletti. Un siffatto
processo situa dunque il Nome-del-Padre nel registro del sintomo. Di
modo che il «necessario del Nome-del-Padre», in quanto è necessario
al fondamento della normalità fallica, ritorna sotto forma di
questione del «necessario del sintomo» nella struttura. Non si
tratta di semplice petizione di principio poiché, se la metafora crea
un senso nuovo, la traduzione di essa sarà un sintomo originale del
soggetto. Senza dubbio è la ragione per la quale Lacan ha potuto
affermare che ci sono «dei Nomi-del-Padre», fatto che la cura può
confermare.
Ciò nonostante sussiste un paradosso: se il Nome-del-Padre significa
che il soggetto deve tener conto del desiderio in tutte le sue
conseguenze, esso è anche ciò che essenzialmente fonda la religione
e ciò che umanizza il desiderio. La questione nella cura è allora la
possibilità di togliere in parte l’ipoteca del «necessario» alla
struttura. Giacché, nella parola del soggetto, l’interrogazione
verte sempre su «chi parla al di là dell’Altro?». La risposta
tradizionale ci mette il Nome-del-Padre; perciò Lacan aveva creduto
di dover suggerire che, se la cura permetteva la sistematizzazione del
Nome-del-Padre, la sua funzione era quella di condurre il soggetto a
poterne fare a meno. Il lettore può riferirsi a Lacan: Le strutture
freudiane delle psicosi (seminario 1955-56; pubblicato con il titolo
Le psicosi, 1981), La relazione d’oggetto (seminario 1956-57;
pubblicato), Le formazioni dell’inconscio (seminario 1957-58,
pubblicato 1998), Di una questione preliminare a ogni trattamento
possibile della psicosi (seminario 1955-56; pubblicato negli Scritti,
1966). Jean-Paul Hiltenbrand (trad. Janja Jerkov)
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