Caro Salvati, secondo me la terza via
non basta
Gerardo Marletto
Caro Salvati,
approfittando della cortese ospitalità di Caffè Europa avevo
già manifestato il mio dissenso ideologico e politico rispetto alla
"terza via" di Giddens, Beck e soci. Torno alla carica
cogliendo la duplice occasione del suo interessante saggio Terze
vie a confronto
e della sua recensione del saggio di Aglietta Regolazione e crisi
del capitalismo, pubblicata sul supplemento domenicale del Sole24ore
del 25 febbraio.
Io non credo che la "terza via" sia la migliore per
perseguire i valori propri della sinistra, cioè la democrazia
repubblicana (vedi i recenti lavori di Petitt o Baumann) e lo sviluppo
umano (alla Sen o UNDP degli ultimi anni). E non credo, di
conseguenza, che chi critica da sinistra la "terza via"
debba essere necessariamente un nostalgico, sostenitore di una
socialdemocrazia che non regge più il passo con i tempi e, quindi,
per questo un potenziale conservatore. Penso invece che proprio i
sostenitori della "terza via" siano potenzialmente dei
conservatori, perché ammantano di progressismi fumosi una realtà che
ci piace sempre di meno (nelle cose che Colajanni ha scritto di
recente si può rintracciare - se ho capito quello che ho letto -
un'autorevole interpretazione di questa critica "da
sinistra" della terza via).

Provo a spiegarmi partendo dal "test" sulle proposte
politiche che lei propone nel suo saggio e che ritengo emblematico di
tutti i limiti ideologici e politici della "terza via". Lei
invita a valutare le politiche sulla base dei criteri di
compatibilità, di coerenza con i valori di sinistra, di appeal
elettorale. Concordo appieno con i criteri della coerenza e
dell'appeal; fatico invece a capire perché la compatibilità debba
essere un criterio di valutazione. Un criterio assimilabile a quello
che lei propone potrebbe essere il grado di realismo della proposta
politica (o, in altri termini, di reale percorribilità). Ma tra
realismo e compatibilità mi pare ci sia una sostanziale differenza.
La differenza che passa appunto tra la "terza via" e la
socialdemocrazia.
La compatibilità implica infatti l'accettazione del contesto,
lasciando cioè che siano altri (le imprese nell'economia e le destre
nei governi) a determinare il contesto, ovviamente disegnandolo
coerentemente con valori che non sono quelli della sinistra. Alla
sinistra resta invece il compito di "aggiustare" il contesto
(Prodi direbbe di "temperare"), rendendolo più giusto e
più solidale.
La percorribilità apre invece spazi più ampi: sono cioè possibili
politiche che puntino a determinare il contesto in un continuo gioco
di equilibrio tra le forze politiche ed economiche - mi perdoni la
banalizzazione - della destra e della sinistra.
Questo del resto è stato sino ad oggi il gioco del capitalismo. Un
gioco (o, meglio, un conflitto) tra l'impresa capitalistica, che nel
suo continuo sviluppo punta al dominio sulla società, e la politica
che tenta di regolare l'impresa capitalistica, per incanalare la sua
forza nella direzione della democrazia repubblicana e dello sviluppo
umano (e questo è, rozzamente espresso, proprio il pensiero di
Aglietta e, credo, anche del "nostro" Vacca). E questo
continua ad essere, anche oggi, il gioco che si sta giocando.
Certo, bisogna essere consapevoli che stanno cambiando le regole del
gioco: dal fordismo su base nazionale siamo entrati nella
flessibilità della globalizzazione. Ma dobbiamo anche essere
consapevoli che gli scopi del gioco sono sempre gli stessi: l'impresa
capitalistica ha rilanciato, sfugge alla regolazione
(socialdemocratica) nazionale e si colloca - dominandolo - nel
contesto globale non regolato (o, meglio, non regolato su base
democratica). Questo è il quadro. Con tutto quello che ciò comporta
in termini di disarticolazione dei precedenti equilibri nazionali tra
capitale e lavoro, tra stato e mercato. E con tutto quello che
comporta in termini di innovazione strutturale dell'organizzazione
della produzione e di flessibilità nell'uso della forza-lavoro (e, a
questo proposito, mi permetto di preferire le analisi di Gallino o di
Bologna a quelle di Rifkin o di Beck: i primi vanno al
"cuore" dei processi socio-economici, i secondi si fermano
alla loro superficie fenomenologica).
Rispetto a questo scenario perché la sinistra deve essere
compatibile? Guardando al passato: siamo così sicuri che i successi
che la sinistra ha "portato a casa" nel precedente
equilibrio fordista e socialdemocratico siano stati il frutto solo di
un approccio compatibile e non anche di un po' di sano e ambizioso
radicalismo? Guardando al futuro: perché la sinistra deve rinunciare
in partenza a ricercare un equilibrio in cui - in un nuovo contesto
globalizzato - trovino spazio anche i valori della sinistra oltre a
quelli di dominazione assoluta delle imprese capitalistiche?
Se si accetta anche in Italia il diritto di cittadinanza del
radicalismo ideologico ed economico, forse ne guadagnerebbe anche il
livello del dibattito sulle proposte politiche. Continuando a prendere
spunto dal suo saggio:
- dall'esigenza della stabilità finanziaria internazionale, forse si
potrebbe passare all'obiettivo della democratizzazione -e, in alcuni
casi, della creazione- di istituzioni globali, necessarie per
bilanciare e regolare il capitalismo globalizzato e finanziarizzato
(Sul fronte delle istituzioni economiche è troppo passatista citare
il "vecchio" Krugman? Allora facciamo riferimento a Soros!
Sul fronte delle istituzioni non economiche -e per una visione
realmente ambiziosa- il rimando d'obbligo è alle riflessioni di
Archibugi sulla democrazia cosmopolitica);
- dall'esigenza di adeguare l'istruzione, forse si potrebbe puntare
all'apertura di una nuova stagione della contrattazione, non più solo
del salario e dell'orario, ma anche della conoscenza. Una nuova
stagione per “riregolare” i rapporti tra lavoro e impresa, sempre
più sbilanciati a favore della seconda (anche qui spunti possono
venire dalle riflessioni di Cofferati, di Gallino, di Ranieri);
- dall'esigenza di estendere gli spazi della concorrenza (necessaria
per "mettere l'olio" nei mercati, ma non sufficiente a
"cambiare il motore" dello sviluppo), si potrebbe passare ad
una riflessione su una nuova politica industriale che, su scala almeno
europea, sia capace di promuovere la creazione e la diffusione delle
nuove tecnologie e di sostenere le reti di saperi, di imprese e di
territori che trasformano le innovazioni da fatto tecnologico a fatto
produttivo (e qui mi tocca citare alcuni economisti italiani, forse
meno noti: Amendola, Bruno, Dosi).
Certo in questo modo si esce dal tracciato della "terza via"
e si deve mettere in conto una buona dose di conflitto. Ma senza un
po' di radicalismo nelle proposte politiche e un po' di conflitto non
si rende un buon servizio a nessuno: né alla sinistra, che finisce
per essere indistinguibile da un tradizionale moderatismo di centro;
né - ed è questa la cosa più importante - allo stesso capitalismo,
perché senza conflitto che da sinistra imponga una mediazione
accettabile, il capitalismo non solo diventa meno equo, ma inaridisce
nella sua stessa spinta alla creazione di ricchezza.
Tutto ciò ha riflessi anche di posizionamento politico e,
soprattutto, di articolazione interna della sinistra. Ci vorrebbe
molto altro spazio, ma voglio concludere con due brevi notazioni:
- certamente c'è in Italia l'esigenza (su cui molti - lei per primo -
hanno tanto e giustamente insistito) che si coaguli e si rafforzi
l'anima liberaldemocratica della sinistra: questa ha infatti il
compito di richiamare tutta la sinistra all'aspro confronto con le
compatibilità;
- c'è però anche bisogno (e qui le voci mi sembrano poche, deboli e,
spesso, solo strumentalmente elettorali) che si coaguli e si rafforzi
l'anima squisitamente socialdemocratica della sinistra: questa infatti
ci serve per imprimere la necessaria spinta radicale alla proposte
politiche dell'intera sinistra.
Ora, a me pare che negli ultimi anni ci sia stata una vera e propria
"corsa" ad essere liberaldemocratici (da Prodi a D'Alema, da
Amato a Rutelli: chi di questi non è liberaldemocratico?). L'anima
socialdemocratica resta invece sguarnita e rischia di essere un
fortino con pochi soldati, comandato da quei nostalgici e passatisti
che lei tanto avversa.
Insomma, quando nell'agenda politica e ideologica della sinistra
italiana si porrà il problema della necessità di una componente di
riformismo radicale, socialdemocratica negli obiettivi e moderna nella
capacità di analisi e di progettazione? (O, in altri termini, quando
la smetteremo di parlare solo di "terze vie"?)
Caro Salvati, mi rendo conto di averla fatta lunga. Spero almeno che
abbia trovato rilevanti le mie riflessioni. La ringrazio per la sua
cortese pazienza e cordialmente la saluto
Gerardo Marletto, economista
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