Terze vie a confronto
Michele Salvati
La terza via e i suoi critici
Il modo in cui Giddens risponde ai critici della Terza Via (The
Third Way and its Critics, Polity Press, tradotto come Cogliere
l’occasione, Carocci) è ancora più soddisfacente del modo in
cui l’aveva originariamente esposta (The Third Way, sempre
Polity Press). Per facilitare il dialogo con i socialdemocratici
tradizionali (con liberali, democratici, repubblicani “buoni”, e
altre forze del centro-sinistra il dialogo è immediato), vorrei
iniziare esprimendo una preoccupazione che articolo nei quattro punti
seguenti.
a. Nel discutere di terza via credo sia necessario dare un peso
maggiore di quanto attribuito dai suoi principali esponenti
anglosassoni ad un’analisi critica della fase che il
capitalismo sta attraversando, per intenderci quella iniziata con il
mutamento di regime di Volcker-Reagan nel 1980. Non che manchino
spunti critici, ma spesso l’entusiasmo per le occasioni che
questa fase presenta fa premio su una sobria analisi delle difficoltà:
esempio tipico di questo entusiasmo acritico è il libro di Charles
Leadbeater, Living on Thin Air, Viking, con prefazione di Tony
Blair.

Bisogna dire con chiarezza che, per un liberal-socialista, le
occasioni ci sono, ma che la globalizzazione finanziaria, la
rivoluzione tecnico-scientifica, i processi di terziarizzazione e
frammentazione del mercato del lavoro distruggono il precedente
equilibrio sociale keynesiano-fordista e imprimono spinte,
destabilizzanti a livello mondiale e “disegualizzanti” al livello
dei singoli paesi, che è difficile contrastare. E’ questione di
accenti, e sicuramente in pubblicazioni di natura propagandistica
(rivolte al pubblico in generale) è giusto che l’accento sia posto
più sulle occasioni che sulle difficoltà. Ma in un dibattito interno
alle forze di centro-sinistra questo può creare equivoci e alimentare
il sospetto che i sostenitori della Terza Via siano dei laudatores panglossiani
di questa fase del capitalismo.
b. Non lo sono, e la risposta di Giddens lo chiarisce benissimo. Se
tutti noi (socialdemocratici tradizionali inclusi) rifiutiamo le
tragiche soluzioni del passato e il nostro orizzonte è quello di una
economia di mercato e di una politica democratica (nel significato
formale del termine); se tutti noi siamo dei riformisti, cioè
vogliamo far politica e possibilmente vincere le elezioni e governare
in società nazionali plasmate da questa fase del capitalismo, per
quanto sia critica e preoccupata l’analisi della fase in cui viviamo
inevitabilmente dobbiamo abbracciare una politica di Terza Via.
Non possiamo abbracciare una politica di destra…perché siamo di
sinistra. E non possiamo abbracciare una politica di sinistra
tradizionale (i levellers, nella vecchia propaganda blairiana)
perché è inefficace, perché non riconosce le straordinarie
trasformazioni che questa fase di sviluppo ha indotto nelle strutture
economico-sociali della nostra società e dunque la necessità di
cambiare la vecchia strategia Keynes-Beveridge (…due liberali!).
A queste trasformazioni dobbiamo dunque adattarci (anche se molto si
può fare a livello internazionale per attenuarne le ripercussioni
più dannose per la coesione sociale), e non c’è bisogno di
dipingere il quadro con colori rosei per accettare questa conclusione:
se siamo dei riformisti, se vogliamo vincere le elezioni e governare,
dobbiamo accettare il mondo per quello che è e trovare il modo di
declinare i nostri valori in modo compatibile con la situazione e
attraente per gli elettori.
c. I nostri valori sono poi quelli di sempre, quelli della sinistra
moderna, nel suo primo secolo liberale e repubblicana, nel suo secondo
socialista e ora una miscela nuova delle due. Capisco che nella sua
risposta ai critici Giddens rifiuti una visione della terza via come
“miscela” o come ritorno al New Liberalism d’inizio secolo nel
Regno Unito: nella storia non si danno mai soluzioni chimiche o
meccaniche, miscele o ritorni. Ma, se si accetta una economia di
mercato e si respingono le trasformazioni radicali suggerite dal
pensiero socialista e attuate dal comunismo, il problema è sempre
quello di riuscire a creare una società decente, un accettabile
compromesso tra le esigenze di distruzione creatrice dei mercati, del
progresso tecnico, della valorizzazione dei capitali - da un lato - e
- dall’altro - le esigenze di stabilità, sicurezza, diffusa
percezione di uguali opportunità e di fairness distributiva,
senza le quali la società non sta insieme o comunque ci piace poco.
Ho usato l’espressione di Margalit, ma avrei potuto usare le capabilities
di Sen o la società giusta di Rawls: personalmente non ho alcuna
preoccupazione a far riferimento al grande filone di sinistra del
pensiero liberale. Il problema vero è come derivare da questi
principi conseguenze di policies sistemicamente compatibili
colla fase di sviluppo in cui viviamo, congruenti con i nostri valori
di “libertà eguale”, attraenti e dunque realistiche da un punto
di vista elettorale. La discussione su queste tre condizioni dev’essere
la più dura e franca possibile: ho in mente dozzine di misure
proposte o persino attuate da partiti o coalizioni di centro-sinistra
che non rispettano una o due (tutte e tre è perfettamente possibile,
ma rasenta la follia) delle condizioni indicate.

d. Per chiarire fino in fondo la mia preoccupazione. Ogni tanto ho un
incubo, l’incubo che Greenspan non ce la faccia, che la fiducia dei
consumatori americani crolli, che l’Europa non riesca a sostituire
gli Usa nel ruolo di locomotiva, che il Giappone si avviluppi sempre
di più nella sua crisi, che emergano tensioni in altri punti dello
scacchiere globale e non si riesca a controllare gli impulsi recessivi
che ne derivano, come (a fatica) è avvenuto nel recente passato. Il
ciclo economico non è morto, meno male che lo si riconosce. Non credo
sia del tutto scomparsa neppure la minaccia di recessione. Il mondo ha
già attraversato fasi alterne di espansione e contrazione nei livelli
di attività economica e integrazione internazionale, anche se oggi
una recessione dell’intensità di quelle che il capitalismo ha
conosciuto in passato sembra assai meno probabile, data l’incontestabile
egemonia degli Usa e i livelli di coordinamento dei principali paesi.
Ma crisi serie non sono da escludere, e con esse tensioni
socio-politiche forti nei paesi periferici e forse in qualcuno dei
centrali. E’ robusta la Terza Via rispetto a questi (improbabili)
sviluppi? O non rispunteranno i vetero-marxisti (o più probabilmente
i populisti di destra) a rimproverarci di avere dimenticato l’ABC
del capitalismo, di essere semplici corifei di una delle sue fasi
ascendenti? Pace, per i rimproveri: ma non rischieranno queste
accuse di trovare facile ascolto in una situazione di tensione e
difficoltà? Questa è la ragione di fondo per cui vorrei che le
analisi dei liberal-socialisti (o di terza via) fossero sobrie e
approfondite, preparate ai rischi del futuro. A parole riconosciamo la
giustezza delle analisi sulla “società del rischio” e rendiamo
omaggio a Ulrich Beck. Riconoscerle nei fatti, prenderle sul serio,
può però comportare un peso del settore pubblico e un livello della
pressione fiscale maggiori di quanto sosteniamo nei nostri momenti
propagandistici, per inseguire la facile popolarità dei nostri
avversari politici. E soprattutto ciò comporta una determinazione dei
nostri stati nel sostenere un riordino radicale del sistema monetario
e finanziario internazionale assai più forte di quanto essi
manifestino ora, limitandosi a sostenere una blanda “nuova
architettura” forse per l’influenza degli ambienti finanziari
internazionali e dei propri paesi.
Le Terze vie nazionali: elementi comuni
Sappiamo tutti che la terza via è stata (e dovrà essere) declinata
in modi assai diversi nei diversi paesi, per ragioni che vedremo
meglio più oltre. Vorrei prima sottolineare gli elementi comuni ai
paesi europei, che derivano: (i) dalla somiglianza delle strutture
socio-economiche e dei livelli di sviluppo; (ii) dalla comune sfida
della fase di sviluppo in cui viviamo (gobalizzazione, rivoluzione
tecnico-scientifica, terziarizzazione, flessibilità…); (iii) dalla
identità degli obiettivi politici, derivanti da una comune tradizione
liberal-socialista. Elenco solo i principali:
(a) Una comune attenzione - in quanto paesi sviluppati e con un forte
peso nella comunità internazionale e nelle sue istituzioni - per i
problemi di un più robusto e sicuro ordine monetario e finanziario
internazionale. Come per le questioni riguardanti lo sviluppo dell’Unione
Europea, questo per ora è più un auspicio che una realtà, poiché
di fatto anche governi di centro-sinistra perseguono “costanti” di
politica estera che spesso non li distinguono da governi di
centro-destra (o per ragioni di vischiosità istituzionale, o di
interesse nazionale più o meno ben inteso, o di popolarità
elettorale- si pensi all’impopolarità dell’UE in Gran Bretagna):
il ruolo del rischio dell’attuale ordine internazionale per le
stesse, dichiarate, finalità di politica interna non è percepito
nella sua importanza. Qui c’è un grande spazio di dibattito e mutua
persuasione.

(b) Un ruolo chiave attribuito alla scienza, alla ricerca, all’istruzione,
alla formazione professionale, che deriva da un’analisi condivisa
sui fattori propulsivi di questa fase di sviluppo. Forze politiche di
centro-sinistra dovrebbero configurare (e di fatto configurano) questo
ruolo in modo diverso da forze di centro-destra: in particolare
dovrebbero assegnare all’istruzione e alla formazione un compito di
promozione sociale, di empowerment e capacitazione nel senso di
Sen (attraverso l’emploiability, ma non solo attraverso di
essa) che le destre sentono assai meno (per lo sviluppo economico in
senso stretto, in fondo serve solo un’offerta adeguata di competenze
di alto livello, e ci possono anche essere problemi di “eccesso di
formazione”). In presenza di risorse limitate c’è ovviamente un trade-off,
che si articola in delicati problemi di scelta in molti campi: una
scuola superiore di reale eccellenza …per tutti è un controsenso,
perché l’eccellenza è un concetto relativo. Ma questo apre
delicati problemi etico-sociali: chi merita istruzione?
(c) La comune accettazione che questa fase di sviluppo esige
mobilità, capacità di adattamento, flessibilità per tutti i fattori
e concorrenza intensa in tutti i mercati, anche in quelli che
continuano a rimanere protetti. L’estrema mobilità dei capitali e
delle imprese tipica di questa fase mette in concorrenza la natura dei
servizi, le culture amministrative, i sistemi legali, la qualità
della vita di intere aree regionali omogenee o del paese nel suo
complesso: la “protezione” e il costo e l’inefficienza che ne
conseguono sono un handicap per la regione o per il paese, anche se
non è immediato accorgersene. Destra e sinistra, per comprensibili
motivi elettorali, sostengono spesso sistemi di protezione
inefficienti, seppur rivolti a diversi ceti; la terza via dovrebbe
sostenere la concorrenza, sia per motivi di efficienza e
competitività, sia e soprattutto per motivi di giustizia.
(d) L’ampia offerta di istruzione, il rafforzamento della gran parte
dei lavoratori sul mercato, non bastano a creare situazioni di
occupazione e di reddito percepite come decenti e fair, capaci
di assicurare una esistenza dignitosa, una sufficiente sicurezza per
il futuro, una capacità di assicurare condizioni di pari opportunità
per le più giovani generazioni. E’ sempre stato così, ma la
situazione è peggiorata come effetto di questa fase di sviluppo che,
a differenza della grande industrializzazione fordista, allarga lo
spettro delle opportunità e genera mobilità, incertezza e corrosion
of character (Richard Sennet: il fordismo generava lavoro
ripetitivo e alienante, ma anche relativa uniformità e sicurezza). Le
reti di protezione e di incentivo create dalla sinistra nel passato
non reggono più e la terza via, il centrosinistra, è chiamato
ovunque a scelte difficili. La natura concreta di queste scelte
dipende dalla storia e dalle istituzioni di ciascun paese: poche
istituzioni sono così path dependent come quelle del welfare.
Ma i principi generali meritano di essere discussi a livello generale:
il dibattito tra una scelta di basic income e invece una di
sussidio ai salari più bassi può svolgersi in buona parte a questo
livello, e se mi rimane tempo discuterò di una recente proposta di basic
income (dividendo sociale) del ministero del tesoro.
Le terze vie nazionali: differenze
Nonostante le molte somiglianze (tra cui quelle che ho appena
sottolineato, e non sono le sole), l’impressione che si riceve da un’analisi
dell’effettivo dibattito politico nei singoli paesi è una di
differenza. Ed è comprensibile che sia così. In tutti questi paesi
il compromesso sociale in cui lo sviluppo capitalistico è stato
incapsulato (embedded) è storicamente peculiare, e quindi la
nuova fase di sviluppo impatta su istituzioni molto diverse. Per un’analisi
dettagliata occorre valutare separatamente ogni singolo caso, anche se
è possibile (a) definire alcuni tipi-ideali e (b) identificare, oggi,
tendenze comuni nell’adattamento alle pressioni di questa fase di
sviluppo. I tipi-ideali sono diversi a seconda degli aspetti dei
sistemi nazionali di regolazione che si considerano: welfare, mercato
del lavoro, rapporti stato-imprese (per quest’ultimo aspetto
ricordiamo le tipologie di Michel Albert, David Soskice o Ronald Dore).
La tipologia più efficace è quella che si basa su welfare e mercato
del lavoro e consiglio vivamente la lettura dell’ultimo libro di
Goesta Esping-Andersen (Social Foundations of Postindustrial
Economies, OUP 1999, appena pubblicato dal Mulino col titolo I
fondamenti sociali delle economie postindustriali).
Insomma, le proposte di riforma (di Terza Via o altre) e la
discussione politica che le sostiene sono molto diverse a seconda che
ci si trovi in un paese “liberale” (di fatto: anglosassone), in un
paese “conservatore” (ma meglio sarebbe dire “continentale”, o
germanico-corporativo), o in uno “socialdemocratico” (di fatto: i
paesi nordici). Credo si possa aggiungere utilmente la categoria dei
paesi mediterranei, ma, più in generale, ogni gruppo così
identificato lascia ai margini casi dubbi o intermedi: la Francia e il
Giappone sono categorie a parte, l’Italia è per alcuni aspetti
continentale e per altri mediterranea, l’Olanda è nell’insieme
germanico-corporativa ma presenta alcuni tratti nordici, La Danimarca
è sicuramente nordica, ma il suo mercato del lavoro è tra i meno
regolati e così via. Insomma, se si ambisce alla precisione assoluta,
i tipi generali scompaiono e ci si ritrova con i casi singoli. Eppure
i tipi generali sono estremamente utili, perché aiutano a formulare
le categorie di analisi (e a valutare prima facie le proposte
di riforma): la foresta nel suo insieme è indecifrabile, i singoli
alberi sono tutti diversi, ma tra gruppi o boschetti di alberi possono
vedersi significative somiglianze.
Le tendenze comuni. L’ultimo libro di Ronald Dore (Stock Market
Capitalism, Welfare Capitalism: Japan and Germany versus the
Anglo-Saxons, OUP, 2000, di prossima traduzione presso il Mulino)
è un’appassionata esaltazione della varietà di “capitalismi”
che allignava nella Golden Age del fordismo e che è minacciata
di estinzione dallo Stock Market capitalism anglosassone, dal
capitalismo dello Shareholder value, assai più aggressivo e
adatto alla sopravvivenza nella nuova fase di sviluppo globale.
Ricchissimo di osservazioni molto acute, è lettura obbligata per quei
riformisti di Terza Via che intendono proporre misure che si scontrano
colle tendenze in atto: ricordate il caso di William Hutton e del suo Stakeholder
capitalism, rapidamente spazzato sotto il tappeto (dopo un’iniziale
infatuazione) da Tony Blair e dal suo entourage?
Questo è uno dei crinali su cui ci sarà sempre conflitto, anche
interno alla Terza via (e non soltanto tra i suoi sostenitori e i
tradizionalisti, i levellers): se l’attuale sviluppo comporta
tendenze che minacciano lo “stare insieme” della società, e
queste tendenza traggono origine in fenomeni profondi dell’organizzazione
capitalistica, bisogna fermarsi nell’attività riformatrice non
appena i finanzieri si mettono a strillare? Ovviamente No. Oppure gli
strilli denunciano che le riforme proposte non sono realistiche, che
minacciano la gallina che depone le uova d’oro dello sviluppo, che
veramente non sono compatibili con tratti fondamentali di questa fase
di crescita? Forse le proposte di Hutton ricadevano in questo secondo
caso, ma distinguere i due casi non sempre facile
E l’Italia?
Per un riformista inglese della Terza Via non dev’essere facile
intendersi con i suoi omologhi italiani e capire i problemi che essi
affrontano. Alcuni proprio non ci sono o non sono così gravi nel
Regno Unito, mentre sono tra i più spinosi per noi: si pensi ai
problemi di dualismo economico-sociale e a quelli di modernizzazione
amministrativa e istituzionale (insomma: Mezzogiorno e Pubblica
Amministrazione, le due grandi differenze non solo con il Regno Unito,
ma con quasi tutti i paesi europei). Altri problemi si presentano con
modalità assai diverse: si pensi all’intensità corporativa della
nostra società, e non solo nel campo delle relazioni industriali, ma
anche in quello delle imprese e delle professioni. Gli stessi problemi
di riforma dello stato sono agli antipodi nei due paesi, nonostante
superficiali assonanze, dalla devolution a Ken Livingston: la
frammentazione territoriale del potere amministrativo e politico è
incomparabilmente più forte nel nostro paese. E infine si pensi all’organizzazione
del sistema dei partiti e allo stato del centro-sinistra, che è
quanto di più diverso possa esserci dalla condizione di monarca
repubblicano che consente il sistema Westminster e che Tony Blair ha
sfruttato appieno. Insomma, “vendere” un pacchetto composto da
concorrenza, modernizzazione e solidarietà -che è quanto la Terza
Via deve fare e cerchiamo di fare anche noi- si presenta in termini
assai diversi nei nostri due paesi. E più difficili da noi, aggiungo,
ma forse è solo l’invidia per il successo laburista che me lo fa
dire.
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