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E ballando ...ballando



Josè Luis Sànchez-Martìn



La settimana scorsa, con la nostra solita vena polemica nei confronti dell'attuale teatro italiano, abbiamo espresso grande perplessità circa il presunto miracolo che avrebbe portato Roma al livello di "Capitale" europea del teatro, affianco a Parigi e Londra per esempio, soltanto perché in una settimana si sono registrati almeno quindici debutti e perché il numero dei locali in cui si propongono spettacoli teatrali è salito negli ultimi tempi ed è in continuo aumento. Ci è sembrato questo uno strano criterio di valutazione, che confonde grossolanamente la quantità con la qualità, perché nella realtà quest'ultima è spesso scadente o quantomeno mediocre. Per non fare di ogni erba un fascio, abbiamo cercato di individuare le proposte che, almeno sulla carta, sembrassero impegnate in progettualità diverse a quelle consuete, logore o facilmente commerciali e ricercassero un livello alto di qualità globale e di originalità, sia nelle tematiche trattate che nei modelli con cui si confrontavano per la messa in scena. Così ci siamo occupati di Ring,  storia ambientata nel mondo del pugilato, il cui modello, volontario o non, sia drammaturgico che recitativo, è quello americano.


Si colloca agli opposti invece un altro spettacolo interessante presentato a Roma in questi giorni al teatro Olimpico, nella stagione dell'Accademia Filarmonica Romana e che gira l'Italia con grande successo ormai da quattro anni: E ballando ...ballando di Giancarlo Sepe, liberamente ispirato allo spettacolo teatrale Le Bal del francese Théatre du Campagnol e al film che ne trasse felicemente Ettore Scola nel 1983.

Qui ci ritroviamo di fronte a un evidente e riconoscibile modello alla francese. Dal punto di vista dello stile espressivo perché è uno spettacolo senza parole che lascia lo spazio alla forza comunicativa delle azioni, dei gesti, dei suoni. E anche dal punto di vista di ciò che viene messo in scena, vale a dire la storia recente degli ultimi cinquant'anni, vista attraverso le canzoni della cosiddetta musica leggera e dei balli in voga in quel momento, eseguiti dalla gente comune nelle balere. Infatti è squisitamente francese quella scuola di storiografia che ci ha insegnato che la Storia non consiste soltanto nell'elenco delle battaglie e nella cronaca dei vincitori, ma in un intreccio di molteplici percorsi possibili che includono anche elementi che fino a qualche tempo fa erano considerati della sfera del privato e che invece, a ben vedere, dicono a volte molto di più su quello che dovrebbe essere il vero soggetto della Storia: l'essere umano. Nascono così infiniti punti di vista che sono modi di raccontare la Storia, come la storia dell'abbigliamento, del mangiare, degli odori, delle abitudini casalinghe, delle vacanze, dell'infanzia, del modo di esprimere le emozioni e, appunto perché no, delle canzonette e dei balli popolari.

Lo spettacolo originale del Théatre du Campagnol era nato nel 1981 da un'idea del suo fondatore e regista, Jean-Claude Penchenat, -formatosi come attore al glorioso Théatre du Soleil diretto da Arianne Mnouchkine- e, come poi anche il film di Scola, ripercorreva, attraverso la coralità di un gruppo di attori-ballerini straordinari, cinquant'anni di storia francese, scandita da eventi come la vittoria del Fronte Popolare, l'occupazione nazista e la Liberazione, il conflitto di Algeria, il sessantotto, ambientati "nel microcosmo significante di una sala di ballo" della periferia parigina, come ebbe a dire il critico Roberto Ellero.

Dal canto suo, Giancarlo Sepe nella propria versione trasferisce tutto in Italia, in una balera della periferia napoletana. Una specie di prologo in un tempo vagamente contemporaneo vede come protagonisti un buffo e patetico gruppo di timidi ma intraprendenti ballerini da dopolavoro, diciotto in totale tra uomini e donne, quasi tutti diventati di una certa età grazie a un campionario di voluto ciarpame costumistico e soprattutto a parrucche esagerate e posticce come da teatrino parrocchiale.

E' chiaro subito che siamo lontani dal naturalismo e dal teatro di prosa: i personaggi sono caratterizzati sopra le righe e molto disegnati, lo stile è quello grottesco. Non parlano le parole ma gli atteggiamenti, le azioni, gli sguardi, il ballo, la musica. Rimane in scena una sola coppia matura e a modo suo elegante, che emozionata dall'incontro e dalla nostalgia per il tempo che fu, compie l'insolito miracolo di tornare indietro di qualche decennio, togliendosi di dosso quei vestiti, quel trucco e quelle parrucche, scoprendo nel periodo dell'anteguerra attori e personaggi giovani. Comincia così per le nove coppie un viaggio nel tempo verso di noi, che, dopo l'ascesa del fascismo, la guerra e l'arrivo degli americani, si fermerà a cavallo tra gli anni '60 e '70 in cui si confondono influenze americane e impegno politico.


Tutto si svolge in quella stessa balera e viene raccontato sulle cadenze delle più popolari canzoni d'ogni epoca. Il campionario musicale accentua quella sensazione di cultura "camp", il gusto del travestitismo grottesco e kitch e della parafrasi ironica e dissacrante, snocciolando via via brani di culto come Besame mucho, O sole mio nella versione in inglese di Elvis (It's now or never), Quizas, quizas, O' sarracino e Torero di Carosone e Mambo italiano, affianco a brani storici come Passione, Pippo non lo sa, Eleanor Rigby dei Beatles, Jailhouse Rock di Elvis e La Bambola di Patty Pravo, oltre a canzoni della tradizione napoletana come 'Na sera 'e maggio e Dicitencello vuje. Un campionario della memoria e che per questo provoca continue emozioni.

Gli attori e le attrici oltre a essere molto preparati ed efficaci nelle non sempre facili e mai banali coreografie dei diversi balli, sono tutti egregiamente concentrati nella parte e dominano con fermezza e grazia comica -cosa molto rara nel teatro italiano. Il linguaggio del corpo è l'unico a parlare in questo spettacolo. Vanno però segnalati, per l'intensità emotiva e la forza della loro presenza nei vari personaggi che interpretano, gli attori Simone Desiato -il vecchio signore che tra le lacrime torna giovane e il "femminiello" tristemente innamorato- e Paolo Romano, nella parte del giovane, misurato ma spietato, ufficiale nazista e del bisessuale "maschiaccio" che prima "sciupa" il femminiello e poi l'abbandona per una donna. Forse un po' sprecata la capacità comica delle attrici Gloria Sapio e Paola Sambo, che abitualmente in duo hanno più volte dato vita a personaggi esilaranti nei loro spettacoli, e che per questo avrebbero meritato più spazio.

Va dato atto a Sepe di aver saputo dirigere con mano sicura ed efficace nonchè coerente uno stuolo così variegato di attori, in media abbastanza giovani, che grazie alla sua guida mettono in campo una professionalità che dovrebbe fare invidia ai cosiddetti grandi attori veterani della prosa. Va detto però anche che la "versione" messa in cantiere da Sepe nel suo sviluppo drammaturgico tende a un andamento più frammentato, superficiale e ruffianamente divertito rispetto allo spettacolo francese e al film di Scola, sorvolando un po' maldestramente su periodi difficili e dolorosamente intensi della storia italiana, come il fascismo e la guerra, o indugiando incomprensibilmente fino alla noia sulla meccanicità e rigidità sia della militanza politica che del divertimento obbligatorio degli anni '70.

Se dal punto di vista attoriale è uno degli spettacoli più godibili e riusciti degli ultimi anni, dal punto di vista dell'efficacia narrativa e da quello che poteva essere usato per approfondire la storia recente italiana in modo insolito, ci sembra un'opportunità mancata.



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