Ring
José Luis Sànchez-Marttìn
Settimana esplosiva per i cartelloni teatrali romani con almeno
quindici debutti concentrati in pochi giorni. Per i più euforici
sostenitori incondizionati del teatro nostrano, questa sarebbe la
dimostrazione definitiva di Roma come “capitale del teatro”,
paragonata addirittura a città come Parigi e Londra; seconda soltanto
a queste due per una differenza di qualche decina di spazi teatrali:
più o meno settantacinque a Roma, circa centoquindici a Parigi e
circa centocinque a Londra.
Certo questo paragone è possibile soltanto se si confonde la
quantità con la qualità, la pluralità di proposte di un paesaggio
culturale con il mercato del divertimento mondano e serale. In realtà
molti degli spettacoli in scena a Roma come d’altronde nel resto
della penisola, e ci riferiamo in generale alle stagioni degli ultimi
dieci anni, sono lavoretti tirati su alla buona in pochi giorni,
basati su modelli più che convenzionali e di facilissima fruizione,
molto spesso ammiccanti in modo evidente o sotterraneo al pubblico
televisivo o quantomeno cinematografico- natalizio.

Negli ultimi anni è sorprendente il proliferare di commediole che
propongono un po’ di facile divertimento sul sesso e spiccioli doppi
sensi o il brivido a basso costo del nudo integrale o delle
scabrosità innocue, con regie improvvisate e attori per lo più
impreparati. Sovente anche le cosiddette grandi produzioni, con grandi
nomi, di grande di impegno e di presunta grande ricerca o
sperimentazione risultano appariscenti o bizzarre confezioni che
nascondono anch’esse operazioni approssimative, raffazzonate,
superficiali oppure che in ogni caso confermano vecchi e collaudati
modelli di “prestigio” che a modo loro finiscono per essere
ammiccanti e rassicuranti nei confronti sia del vetusto pubblico
borghese sia di quello giovanil-universitario.
Per di più il paragone si assottiglia quando, abbandonando
definitivamente la quantità, si tiene conto del fatto che le vere
capitali del teatro europeo hanno dato e continuano a dare una reale
cittadinanza artistica continuativa a registi, attori e ricercatori di
ogni nazionalità che hanno fatto e continuano a fare da almeno un
secolo la storia del teatro contemporaneo.
Così come la difesa ad oltranza del sedicente nuovo cinema italiano,
soltanto perché nostrano, ha mantenuto per vent’anni generazioni di
registi ed attori mediocri, soprattutto nel confronto con le
straordinarie stagioni di quello che una volta poteva essere chiamato
con orgoglio il “cinema italiano”, anche nel teatro un silenzio
complice o una difesa campanilistica acritica nella sostanza lo ha
lasciato vagare, alla deriva tra la decadenza dell’Ottocento e un’accampata
originalità novecentesca in realtà molto proviciale e
autoreferenziale, senza un rapporto profondo ed elaborato con la
qualità e i modelli del vero teatro contemporaneo internazionale.

E’ nell’ambito di questo panorama desolante che si accoglie di
buon grado la venuta a Roma di uno spettacolo che almeno nelle
intenzioni risulta innovativo per l’intenzione di confrontarsi con
modelli diversi a quelli consueti di scrittura e produzione del nostro
solito teatro: Ring scritto da Vincenzo Cerami e diretto da
Franco Però, presentato al Teatro Valle nella stagione dell’ETI.
Lo spettacolo nasce dalla collaborazione e dal sodalizio di Cerami con
Però che, in seguito all’esperienza della lettura/spettacolo L’Ecclesiaste
che li vide nelle vesti di scrittore e regista per il Teatro Festival
di Parma 1998, maturarono assieme il proposito di un’ulteriore
impresa comune con l’intenzione di produrre materiali nuovi di
drammaturgia contemporanea.
La parola d’ordine è “work in progress”, per cui partendo da un
canovaccio scritto da Cerami, il regista e gli attori hanno realizzato
un lungo lavoro di improvvisazioni che ha portato alla stesura del
testo definitivo. “Un tale procedimento -scrive Cerami- di scrittura
e messa in scena dell’opera teatrale s’inquadra in quell’ambito
della ricerca teatrale tesa all’invenzione di nuovi testi e alla
sperimentazione di una recitazione mimetica e anti-accademica, così
raramente frequentata in Italia”.
Nella ricerca di una riflessione sulla violenza del mondo
contemporaneo, lo spettacolo racconta la storia di un vecchio
allenatore di pugilato e del suo rapporto con un giovane
extracomunitario al quale, date le sue doti naturali, decide di
insegnare l’arte della boxe e di inculcargli la cattiveria e l’odio
per l’avversario necessari a vincere, cose di cui l’ingenuo
ragazzo è privo.
Sia nelle tematiche, nei personaggi e nella dinamica del lavoro “in
progress” la produzione di Ring sembra ispirarsi soprattutto
a un modello già sperimentato con notevoli risultati in America. Data
la grande stima che nutriamo nei confronti del Cerami narratore e
sceneggiatore di cinema nonché autore e attore dei raffinati e
deliziosi Canti di scena con le musiche di Nicola Piovani, è
con rammarico che dobbiamo constatare che le intenzioni e le
caratteristiche progettuali non danno i frutti aspettati.
Lo spettacolo, suo malgrado, risulta sorprendentemente banale nel
susseguirsi di personaggi e situazioni che non vanno oltre il luogo
comune di una certa vecchia cinematografia e finisce per essere un
canto nostalgico del mondo tra anni ‘40 e ‘50 ormai inesistente,
nonostante l’intenzione fosse parlare in modo esplicito dell’abbrutimento
umano della società contemporanea
Stesso capovolgimento per esempio avviene nel cercare di denunciare il
sottile o manifesto razzismo nei confronti dell’extracomunitario che
viene involontariamente confermato nel far ridere il pubblico in
complicità proprio a quel razzismo. La regia un po’ sconclusionata
e frammentaria di Però asseconda in pieno questa banalità e conferma
tristemente i luoghi comuni, senza riuscire nemmeno a dare dei
riferimenti agli attori nel tentativo di una omogeneità di
recitazione, cedendo invece a un sentimentalismo patetico da
telenovela.
In tema di pugili come carne da macello e affarismi al di sopra della
dignità umana a danno dei più deboli, sperduti in una società
implacabile e incomprensibile, siamo ben lontani da quell’ultimo
episodio del crudele e sarcastico film di Ettore Scola, I Mostri,
piccolo capolavoro interpretato magistralmente dal pugile suonato
Vittorio Gasmann e dal piccolo e triste traffichino Ugo Tognazzi, che
nella sua melancolica e melodrammatica comicità sembra aver detto una
volta per tutte e nel migliore dei modi, tutto quello che poteva
essere detto.
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