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          Da: biblioteca mazzini <bibliomz@rai.it>  
          A: <caffeeuropa@caffeeuropa.it>  
          Data: Martedì, 6 febbraio 2001 8:23 
          Oggetto: Federico Sciano' 
           
          E' morto sabato scorso in Brasile Federico Scianò, 63 anni,
          giornalista Rai, per anni commentatore ed inviato del Tg1, mentre era
          in una missione di frati italiani nel Mato Grosso. Era stato
          caporedattore della sede Rai di Torino, poi dal 1987 al Tg1 come
          commentatore ed inviato, in particolare nei paesi nell'Estremo
          Oriente. Nel 1996, direttore di Rai Educational. Segue quanto apparso
          sull'"Avvenire" di oggi 6 febbraio. 
           
          "Eravamo abituati a vederlo entrare nelle nostre case con l'aria
          di chi non vuole disturbare. Federico Scianò ci parlava da paesi
          lontanissimi senza la pedanteria di tanti finti professori del video.
          E proprio in uno di questi posti lontani, il suo cuore si è bloccato
          per sempre. Questo il ricordo di un suo amico e collega, Jader
          Jacobelli. Federico è morto in una missione di frati sul Mato Grosso.
          Si era recato là non come turista e neppure come giornalista, ma alla
          ricerca - mi confidò - di un diverso tipo di impegno. Ormai riteneva
          che quelli in cui si era misurato, pur con generale apprezzamento, non
          fossero appaganti perché sempre troppo superficiali e quindi poco
          giovevoli alla gente. Per questo avvicinò negli ultimi mesi alcuni
          sacerdoti di non so quale missione i quali, opportunatamente, gli
          suggerirono, prima di prendere una qualunque decisione, di conoscere
          la pesantezza dell'impegno missionario, specie per i suoi 63 anni. 
           
          Accettò così un incarico esplorativo facendo il relatore in un
          convegno internazionale sulla stampa missionaria che si teneva a San
          Paolo con l'opportunità di visitare alcune missioni site in luoghi
          particolarmente disagiati, come quella del Mato Grosso di cui era
          ospite. Qualche sera fa, dopo quel convegno, mi telefonò da San
          Paolo, e ai miei rallegramenti per il consenso con cui la sua
          relazione era stata accolta, rispose che la ragione più importante
          del suo viaggio non era quella, ma le visite che avrebbe cominciato il
          giorno dopo. Prima di partire per il Brasile - quasi avesse un
          presentimento di ciò che doveva accadere - mi disse che desiderava
          avere un chiarimento con un autorevole dirigente della Rai, di cui
          entrambi eravamo amici ed estimatori, ma con cui il suo rapporto si
          era turbato, per una qualche incomprensione che non mi rivelò. 
           
          Ebbe quel chiarimento e dopo il colloquio mi apparve sollevato, tanto
          da commentare: "Non possiamo portare a lungo certi pesi banali,
          se vogliamo avere la forza di portare quelli più seri". Discreto
          com'era non spiegò di più e, discreto anch'io, non gli domandai di
          più. Ora che se n'è andato mi sembra di comprendere meglio il suo
          turbamento degli ultimi mesi e quel bisogno di non avere conti aperti
          con la quotidianità. La sua religiosità era profonda, non intesa
          come un fatto strettamente privato, ma da mettere continuamente alla
          prova con le ragioni di chi non condivideva. Quello che ora auspico è
          che alla Rai non si dimentichi la lezione, teorica e pratica, che,
          come giornalista, diede costantemente, per una comunicazione che non
          si ponga mai al servizio di una parte, neppure della sua, per rendere
          tutti i cittadini più informati, più critici, più consapevoli, più
          responsabili. Il Servizio pubblico, quindi non era per lui
          "Servizio di Stato", e men che meno di Governo o di partito,
          ma un vero servizio alla comunità. Il modo migliore per onorare la
          sua memoria è perciò quello di trarre dal suo esempio, lo stimolo ad
          una vera autonomia professionale e a non arrendersi all'egemonia, sia
          pure allettante, dell'audience a qualunque prezzo, ma di usare i
          media, che non sono di nostra proprietà, ma al cui uso siamo stati
          soltanto delegati, secondo un disegno di elevazione civica, sociale,
          culturale, oggi ancora più necessario di ieri. Se lo ricorderemo
          così, la sua morte non sarà stata vana (J. Jacobelli)". 
           
          Cara Redazione, ho conosciuto Federico Sciano‚. Ho potuto di recente
          riguardarlo negli occhi acuti e malinconici, eleganti e sinceri, nel
          mio lavoro in biblioteca. Per me -posso permettermi?-, uno dei vostri
          migliori colleghi e un gran signore. La morte ha fatto fuori un uomo
          ben armato: di intelligenza indipendente, di riservatezza, di senso
          della ricerca - delle verita‚, della verita‚. Scrisse tra l‚altro
          sul rapporto tra bambino e tv. 
           
          Una persona onesta, aperta. Non amo i complimenti necrologici, le
          effigi, ma se fossi giornalista lo ricorderei, non solo perche'
          cattolico e non solo sull'"Avvenire". 
           
          Con stima. 
           
          Andrea Lilli 
           
           
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