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Forse sbagliano, ma non è follia



Michael Walzer con Giancarlo Bosetti



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Michael Walzer, filosofo della politica, vive e lavora a Princeton, nel New Jersey. Ha l’ufficio all’Institute for Advanced Study. Si sa della passione di “liberal” con cui segue le vicende politiche di Israele, dove passa una parte dell’anno. Si sa così bene, che dopo il trionfo di Sharon, molti non osano neanche telefonargli per evitare di appesantirgli l’umore. Superiamo allora l’imbarazzo e prendiamo la cosa sul piano professionale e un po’ astratto: che cosa si può pensare di queste elezioni in Israele? Che cosa rappresentano per l’evoluzione della politica del nostro tempo: il trionfo dei duri, dell’irrazionalità, del puro e semplice odio per il nemico?

Più che la sua reazione immediata, professor Walzer, quella di un ebreo-americano progressista che si preoccupa di quel che accade in Medio Oriente, ci interessa il commento professionale di uno scienziato della politica.

Se devo parlare in quella veste che dice lei, cosa che in verità non faccio spesso, devo dire che le ultime elezioni politiche in Israele sono un esempio abbastanza classico di affidabilità e responsabilità (accountability) della democrazia.

Come? Come? Il risultato non sembra così “affidabile”.

Invece sì. Guardi, Barak aveva promesso la pace e ha portato la guerra, e la gente lo ha sollevato dall’incarico. Se i palestinesi potessero fare altrettanto con Arafat, avremmo un Medio Oriente molto diverso. Da professionista, non mi piace parlare di trionfo dell’irrazionalità, dell’istinto, dell’odio eccetera. Immagino che cose di questo genere nelle elezioni democratiche si possano verificare, ma se il dialogo è aperto e libero, e gli elettori non subiscono coercizioni, non accadrà spesso. Nella maggior parte dei casi, la gente agisce in modo razionale, cioè nei propri interessi, secondo la percezione che di tali interessi ha. Quello che è accaduto in Israele è che gli elettori hanno deciso, in maggioranza, a favore di un arresto temporaneo del processo di pace, perché non sono più sicuri dell’esistenza di un partner di cui si possano fidare, e sono preoccupati della loro incolumità fisica.


Ma eleggendo un falco non potrebbero correre rischi anche maggiori di guerra?

Può darsi che abbiano torto, ma non è una scelta folle. In effetti, comunque, si tratta di una maggioranza incerta: ha votato soltanto il 59 per cento degli aventi diritto, una percentuale molto bassa secondo gli standard israeliani. Sharon quindi ha ottenuto il 65 per cento di quel 59 per cento: non tutto quel mandato che sembrerebbe. I cittadini arabi, che di norma votano all’incirca nella stessa proporzione degli ebrei, hanno efficacemente boicottato queste elezioni. Dal punto di vista statistico, esiste ancora un elettorato favorevole alla pace. Occorre solo mobilitarlo politicamente.

Dalle note biografiche su Sharon scritte da Avishai Margalit in “Volti di Isarele” vedo che quel suo collega di Gerusalemme scrive: “Sharon è un uomo che conosce soltanto due stati d’animo: combattere e prepararsi al combattimento”. Il suo obiettivo, in qualunque occasione, è stato quello di “provocare sempre una escalation di violenza”. Perché hanno scelto lui?


Sharon è stato scelto perché era lì. Qualsiasi leader politico del Likud avrebbe battuto Barak, qualcuno avrebbe forse ottenuto anche un margine più ampio. Ci sono certamente state, comunque, persone che hanno dato il voto specificamente a Sharon, perché convinte che egli sia capace di affrontare con efficacia l’Intifada numero 2. Di fatto, secondo me, le risposte israeliane all’Intifada sono arginate in modo piuttosto radicale dall’opinione pubblica internazionale, come ha sostenuto Barak nel corso della campagna elettorale. Le sparatorie nelle strade e le bombe dei terroristi possono essere fermate probabilmente soltanto dalla cooperazione con le autorità palestinesi, nel contesto di un processo di pace che prosegue. Il che equivale a dire … non con Sharon (ma anche, evidentemente, non con Barak).

Sharon ha iniziato la propria carriera da combattente, indossando la divisa militare quando aveva appena 14 anni. La politica di Israele è dominata da una logica militare? Si diventa leader solo se si è capaci di combattere?


La guerra forma i politici in generale, come Eisenhower negli Stati Uniti. Ma non dimentichiamo che i sondaggi avevano dato Peres testa a testa con Sharon, e Peres, sebbene abbia fatto il servizio militare come quasi tutti in Israele, non è mai stato un militare di professione. E non c’è nessun generale tra i candidati alla leadership del partito laburista.

Ma quale è stata secondo lei la causa principale della regressione nel processo di pace?

È possibile che nessuna delle due parti sia pronta a fare le concessioni richieste da una pace completa. Ma adesso parlo da intellettuale di sinistra ebreo-americano, e dico che mi sembra che sia stato Arafat a interrompere il processo e ad avviare la regressione. A un certo punto, durante i colloqui di Camp David, ha deciso che per i palestinesi sarebbe stato meglio scendere nelle strade per due, o cinque, o dieci anni. Non capisco questa decisione, anche se ragiono in base allo stesso postulato che ho descritto prima, cioè che abbia una base razionale, che non sia folle. Forse è convinto che nessun governo israeliano, esistente o prevedibile, gli possa dare quello che vuole lui su Gerusalemme. E quindi preferisce aspettare.


Per non dividere Gerusalemme.


Questa è la spiegazione ottimista, perché alla fine si riuscirà a trovare un qualche modo per dividere Gerusalemme. La spiegazione pessimista è che per lui sia veramente imprescindibile il ritorno dei profughi in Israele, il che significa che non ha accettato, nonostante tutte le sue assicurazioni in senso contrario, la soluzione dei due stati. Questo ritorno significherebbe due stati palestinesi, mentre ciò che la pace richiede, e ciò per cui combatte la sinistra ebraica, è uno stato ebraico e uno stato palestinese, uno accanto all’altro. Barak riteneva che, con la piena accettazione di questo requisito da parte palestinese, sarebbe riuscito a raccogliere una maggioranza di israeliani che avrebbe sostenuto le concessioni da lui offerte. Non sapremo mai se aveva ragione.

Queste elezioni parlano anche di un’altra regressione, quella del processo di secolarizzazione della politica? Perché sembra che se vada indietro anche in questo.

Sì, gli elementi provenienti dal Medio Oriente non confermano la nostra vecchia convinzione, che la secolarizzazione sia una caratteristica necessaria e permanente della vita moderna. Questa «regressione» renderà più difficile una composizione della questione di Gerusalemme, più difficile non da negoziare, ma da far accettare ai credenti ebrei e musulmani. Tuttavia, sono stati i nazionalisti laici, da entrambe le parti, i primi a insistere perché dovevano avere tutto.

“Io sono Arik De Gaulle, sono io l’unico che può fare la pace”. Parole dello stesso Sharon. Crede che in questo caso, come è accaduto altre volte, dal male possa nascere il bene?


Non mi aspetto che Sharon si comporti come De Gaulle in Algeria - o come Nixon con la Cina o Begin con l’Egitto. Immagino che governerà un paio d’anni di stallo. Ma raramente ho avuto ragione, con le mie previsioni politiche.

E allora lasciamo stare le previsioni. Parliamo del passato: questa situazione nasce da qualche errore particolare dei laburisti? Oppure si tratta semplicemente del segnale di un’epoca, in cui soltanto la destra, quella che suona le sirene dell’appartenenza e delle identità etniche, è capace di affrontare questo tipo di conflitti.

Di sicuro la destra prospera meglio in un mondo di conflitti nazionalistici e passioni religiose. Politici come Sharon sono capaci di stringere accordi, senza il minimo imbarazzo, con nazionalisti di estrema destra, e con fondamentalisti di estrema destra, mentre Barak, che ha stretto anch’egli accordi simili, si è alienato, così facendo, i suoi più decisi sostenitori. Malgrado ciò, esiste un nucleo razionale in questi conflitti «irrazionali», e tutto quel che possiamo fare è cercare di operare per una risoluzione equilibrata ed equa. Il risultato ottenuto da Barak è quello di aver tratteggiato i contorni di tale risoluzione. Chi riuscirà a conseguirla, se mai potrà essere conseguita, non possiamo saperlo per ora.

Alcuni osservatori puntano l’attenzione sulla crisi di identità della classe dirigente israeliana. Israele era stato uno straordinario melting pot nel passato. Ora persino la lingua, l’ebraico moderno, viene abbandonato in favore delle diverse lingue delle minoranze, del russo, o in favore dell’inglese. Il ruolo egemone delle sette religiose è la conseguenza di un inizio di disintegrazione?

A causa del numero di nuovi immigrati, della rinascita della religione ultra-ortodossa, e a causa del perdurare del conflitto nazionale, quella di Israele è oggi una delle società più divise del mondo. Tuttavia, ho trascorso di recente sei mesi a Gerusalemme, e non posso dire di aver percepito, vivendo lì, alcun senso di disintegrazione. Se prendiamo le divisioni una per una, sono tutte perfettamente «normali». È soltanto quando si combinano che diventano pericolose, ma dal punto di vista politico e sociale possono ancora essere disaggregate. Gli immigrati russi, per esempio, rimangono attaccati al russo esattamente come facevano i miei nonni con l’yiddish; i loro figli parlano russo ed ebraico, e l’ebraico sarà la prima lingua dei loro nipoti. Quanto alle altre divisioni, è interessante vedere come si schierano i russi: si oppongono decisamente agli ultra-ortodossi, e la maggioranza di loro assume una posizione di destra sulle questioni nazionali. Ma queste due posizioni li spingono verso direzioni diverse. La scienza americana della politica sostiene da tempo che questo genere di impegno trasversale è quello che garantisce la stabilità del governo democratico. Non bisogna quindi avere troppa fretta nel chiamare a raccolta tutte le «crisi». L’immediato futuro è già abbastanza difficile.

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