San Marino Stage Festival 2000
Josè Luis Sànchez-Martìn
Un festival internazionale di teatro, danza, musica, dovrebbe essere
per definizione un momento speciale, in cui nel giro di pochi giorni
si presentano le novità artistiche delle realtà emergenti e dei
capiscuola che hanno ancora qualcosa da dire, le tendenze in atto e
quelle in divenire, gli artisti e le loro opere che per originalità o
per il carattere di sperimentazione e ricerca che le caratterizza non
sono facili da vedere in altre sedi o in altri momenti e che arrivano
da culture e nazioni diverse, magari per la prima volta nel paese
promotore del festival.
Inoltre dovrebbe essere un luogo d'incontro e discussione, di scambio
e di approfondimento, dove confrontarsi, riflettere, arricchirsi.
Quindi, oltre a presentare una serie di spettacoli, dovrebbe esprimere
il "paesaggio" culturale in cui si formano i giovani
artisti, col quale si confrontano e da cui traggono nuovi stimoli
quelli affermati.
Da alcuni anni a questa parte la tendenza generale dei festival
italiani, in particolare quelli di teatro e salvo rare eccezioni, è
invece quella contraria. Sia per l'esaurimento dell'idea iniziale e la
sua conseguente decadenza, sia per i grossolani e arbitrari tagli che
si sono abbattuti sui fondi destinati alla cultura e in particolare al
teatro, sia per il consolidarsi o l'alternarsi di gruppi di potere,
spesso più legati al mondo della politica che a quello delle
discipline creative e che dettano legge sui rari spazi rimasti secondo
criteri che poco hanno a che vedere con le caratteristiche prima
elencate, molti festival sono diventati simili a rassegne di
provincia, raccogliendo o presentando quello che già le stagioni
invernali prevedono, o semplicemente mettendo in vetrina quello che si
cerca di imporre al "mercato alternativo" con l'intenzione
di arrivare trasversalmente al "mercato stabile".
Sono ormai rari quindi quei festival italiani che, come succede invece
in giro per l'Europa, valgano la pena di spostarsi anche a centinaia
di chilometri da casa e che offrano una quantità e una qualità di
proposte ed eventi nazionali e soprattutto internazionali tali da
invogliare a uno di quei soggiorni "full immersion" che
erano la ragione d'essere dei festival di un tempo.

Tuttavia, in linea con gli altri paesi d'Europa e in controtendenza
all'appiattimento o semplicemente alla scomparsa di quegli eventi che
meritano effettivamente il nome di festival, quest'anno è giunto alla
sua seconda edizione, accresciuto e più che mai confermato nella sua
vocazione poliedrica e internazionale, il "San Marino Stage
Festival" di teatro, musica e danza. Ci perdoneranno i
sanmarinesi, con tutto il rispetto per la loro identità nazionale di
Repubblica, se la continuità geografica, linguistica, gastronomica e
la mancanza di dogane alla frontiera, ci induce a considerarli parte
del panorama culturale della penisola italica, nella felice e rara
veste di esempio positivo.
Infatti, l'evento sanmarinese, svoltosi in numerose sedi sia al chiuso
che all'aperto dal 29 agosto al 2 settembre, si è snodato attraverso
quattro sezioni, proponendo in programma ben 18 spettacoli tra danza,
canto e teatro, di livello, provenienza, stili e tendenze molto
diverse, oltre a un seminario di Biomeccanica con l'insegnante russa
Tatiana Stepantchenko, una serie d'incontri con gli artisti ospiti e
due convegni internazionali, uno dedicato alla "Memoria e
codificazione dello spettacolo dal vivo" e l'altro a "Lo
spettacolo dal vivo e il denaro".
Caratteristica particolare di questo festival è quella di ospitare,
per l'intero periodo del calendario spettacoli, un gruppo molto
nutrito, intorno alla cinquantina, di direttori di festival e di
osservatori specializzati provenienti da tutta Europa, dall'America,
dall'Asia e dall'Australia, che oltre a partecipare ai convegni, o
"colloqui" come qui vengono chiamati, vivono in stretto e
continuo rapporto tra di loro, scambiandosi impressioni, informazioni,
progetti. Un vero e proprio luogo d'incontro internazionale, che fa la
differenza con altre manifestazioni della penisola e di cui vanno
molto fieri, giustamente, i direttori artistici Maria Perchiazzi e
Bruno Sacchini.
"Una manifestazione in grado di portare a San Marino non solo
spettacoli di livello qualitativo difficilmente reperibile altrove, ma
soprattutto una somma di professionalità legate al mondo del teatro
che certamente ha pochi confronti anche a livello
internazionale", conferma Emma Rossi, Segretario di Stato per la
Pubblica Istruzione e gli Istituti Culturali della Repubblica di San
Marino, che ci stupisce, positivamente si intende, quando dichiara con
grande chiarezza e senso del suo ruolo istituzionale, che
"crediamo che iniziative del genere siano importanti non solo
banalmente per attirare un turismo di qualità che, coincidendo col
pubblico itinerante dei grandi festival internazionali, può
contribuire al rilancio di un segmento importante della nostra
economia; ma soprattutto perché sempre più appare chiaro come la
cultura, con tutti i suoi risvolti di creatività e promozione dei
nuovi talenti, è realmente un comparto vitale nella realtà anche
economica di un Paese."

Abbiamo così assistito agli spettacoli della sezione
"Voci", una serie di concerti che ha presentato le musiche
occitane contaminate con i ritmi contemporanei di Lou Dalfin, le
canzoni etno-pop-fusion su poesie in dialetto santarcangelese di Nino
Pedretti cantate dalla potente Daniela Piccari e le musiche della
tradizione Yiddish rivisitate da Enrico Fink. I "Solos" di
danza di Francesca Lattuada, di Barbara Martinini e di Laurence
Levasseur, hanno dato corpo a una sezione un po’ debole e a tratti
inconsistente, con l'eccezione dei danzatori di Sosta Palmizi
Raffaella Giordano e Giorgio Rossi, che hanno proposto lavori molto
vecchi ma sempre gradevoli da rivedere. Il Theatre-Laboratory Sfumato
della Bulgaria, ha presentato in prima nazionale, come quasi tutti in
programma, uno spettacolo rarefatto, oscuro e a tratti molto
affascinante, grazie alla forza delle immagini mitiche create anche
con l'aiuto delle proiezioni e dei canti, ispirato ai gesti antichi e
alle storie e leggende di un popolo nomade dei Balcani praticamente in
via di estinzione: "Il Vello Nero".
La sezione "Dalla cattedra al Palcoscenico", priva della
presenza della famosa scuola di teatro GITIS di Mosca per ragioni che
nessuno ha saputo spiegarci, si è mossa tra la raffinata e
sorprendente qualità degli interpreti e della messa in scena degli
spettacoli su testi del poeta W. B. Yeats proposti dagli studenti del
corso superiore di teatro del Conservatorio Reale di Liegi (Belgio) e
il deprecabile, insopportabile, noioso e arrogantemente volgare
spettacolo presentato a nome dell'Accademia Nazionale d'Arte
Drammatica "Silvio D'Amico" di Roma, "Dondolerai"
da Rockaby di Samuel Becket, con la sconclusionata, presuntuosa e
banale regia di Giovanni Greco, perpetrata ai danni di due giovani e
volonterose attrici che hanno mimato il defecare di una nella mano
dell'altra e hanno ripetuto all'infinito "è tempo di andare
affanculo".
Due spettacoli di danza contemporanea venuti dall'estero, presenti
nella sezione "Anteprime mondiali", sono degni, per ragioni
diverse, di essere segnalati. La compagnia del coreografo Mark
Sieczkarek, allievo e per tre anni danzatore di Pina Bausch, ha
presentato la coproduzione britannico-tedesca "Home-Thoughs, from
abroad" ("Nostalgia di casa, da lontano"). Lo
spettacolo, realizzato dentro un quadrato delimitato da tazze di tè
con candele accese all'interno e su musiche di varia provenienza (tra
cui Michael Nyman e Hildegard von Bingen) ma soprattutto a carattere
tradizionalmente o modernamente irlandese, rasenta il capolavoro.
Raffinato, di una rara e sostenuta eleganza, sfrutta con intelligenza
creativa le possibilità geometriche dello spazio e le potenzialità
di movimenti semplici ma molto suggestivi, traendo spesso spunti dalle
variazioni anche minime da passi e gesti della tradizione irlandese.
Ma quello che colpisce profondamente è la calda atmosfera emotiva che
aleggia fin dal primo momento, cosa rarissima per uno spettacolo di
danza contemporanea, atmosfera creata anche grazie al sapiente lavoro
personalizzato portato avanti dal coreografo sulle specifiche
potenzialità, anche teatrali, dei bravissimi interpreti, che
aderiscono al disegno con profondità e partecipazione, in una
sintonia collettiva che trasporta anche lo spettatore.
Il secondo spettacolo si pone agli antipodi di questo. La coproduzione
della compagnia "Dansgroep" della coreografa olandese
Krisztina de Chatel con il gruppo di artisti visivi e telematici
giapponese "Nest", intitolato "Link Age", prova la
carta della tecnologia, della multimedialità, della contaminazione.
Risulta interessante il lavoro sullo spazio e la geometria: il
pubblico è sistemato ai due lati lungo una larga passerella, divisa a
metà longitudinalmente da uno schermo, che in realtà è composto da
tre schermi che molto spesso girano su se stessi, permettendo alla
coreografia, potente e costruita con perfezione matematica sulle
capacità eccelse di un gruppo di danzatori di un livello altissimo,
di snodarsi tra i due lati della passerella con continui passaggi,
scambi e incroci tra un lato e l'altro, in un gioco di fredda e
geometrica bellezza.

Purtroppo a questo livello della danza non corrisponde altrettanto
quello della multimedialità. Le proiezione computerizzate sullo
schermo completo o diviso in tre, fermi o in movimento, sono di una
banalità disarmante, degni dei primi esperimenti degli anni '80. Le
luci roteanti da discoteca sono inutili e non vengono esplorate le
loro reali potenzialità teatrali ma si rimane, come per la proiezione
video, al livello dell'effettaccio per se stesso. La musica tecno,
continuamente sparata sia nel ritmo martellante che nella potenza di
diffusione, non è altro che melma che tenta di rendere con scontata
violenza il tutto omogeneo, alzando il tiro in una operazione drogata.
Lo spettacolo dal vivo, teatro o danza che sia, ha la sua forza nella
propria fragilità, nella sfumatura, nel sottile. La tecnologia, che
è sempre potente e non può non esserlo, finisce ineluttabilmente per
schiacciare quella fragilità, che non reggerà mai il confronto. Se
poi è una tecnologia banale al primo stadio di fascinazione, porterà
anche all'appiattimento, all'omologazione dei mezzi. Se si fosse rotto
il computer, lo spettacolo di danza avrebbe retto egregiamente. E' la
prova che ognuno va per conto proprio, sovrapponendosi, ma non creando
insieme un terzo. Lo spettacolo di Mark Sieczkarek ha dimostrato che
il futuro della danza e/o del teatro non può che risiedere nel suo
calore, nella sua fragile umanità, nella sua presenza vulnerabile,
caratteristiche che perde quando si confronta con il potere
affascinante ma travolgente della tecnologia, soprattutto se banale e
drogata come in "Link Age".
Non potendo approfondire tutti gli eventi e gli spettacoli presentati
dal festival, ci soffermeremmo ancora soltanto su quello che ha
rappresentato il momento più alto per il livello di qualità e di
originalità proposto: il primo titolo della sezione "anteprime
internazionali", cioé lo spettacolo "Medea" della
compagnia greca "Edafos Dance Theatre". La compagnia,
fondata in Grecia nel 1986 da due danzatori attivi anche come artisti
figurativi nei campi della pittura, della scultura, dei fumetti e del
design, Dimitris Papaioannou e Angeliki Stellatou, ha subito ricevuto
successo e attenzione non soltanto in patria, ma anche all'estero,
partecipando nel 1987 alla Biennale Giovanni Europei di Barcellona e
nel 1988 a quella di Bologna, e tornando in Italia soltanto nel 1993
al Festival di Santarcangelo con lo spettacolo "Songs", che
aveva già partecipato all'Expo Mondiale '92 di Siviglia.
Proprio nel '93 producono quello che viene considerato a ragione il
loro capolavoro, la "Medea", che soltanto dopo sette anni di
tournée in tutta Europa e negli Stati Uniti approda in Italia, o per
essere corretti, a San Marino. Dimitris Papaioannou, come per tutti
gli altri spettacoli prodotti dalla compagnia, ne ha realizzato
l'affascinante regia e la superba coreografia, oltre a curare anche i
bellissimi costumi e le scene, e in questo caso ne è anche interprete
egregio nel ruolo di Giasone. Seguendo i momenti fondamentali della
nota e tragica storia di Medea, lo spettacolo è una sorta di
pantomima danzata secondo criteri mai descrittivi o scontati, con una
potenza visiva e coreografica che pochissimi spettacoli riescono ad
avere, mantenendo sempre un ritmo lentissimo ma inesorabile che non
perde mai, neanche per un momento, il livello altissimo di tensione
che raggiunge fin dal primo istante.
Con una voluta e controllata estetica gelida, praticamente tutto è
bianco, anche i corpi dei protagonisti, giocando su una glaciale
eleganza ma anche su elementi di gusto kitch e camp, l'incontro con le
magnifiche musiche di Vincenzo Bellini provoca, paradossalmente,
un'intensità emotiva mozzafiato. Cinque sono i personaggi coinvolti
nella tragica storia, ognuno assimilato dalla geniale regia di
Papaioannou a una figura che lui definisce "archetipica": il
suo Giasone è un Rodolfo Valentino che recita l'ammiraglio di marina,
narcisistico ed egocentrico; Medea, superbamente interpretata da
Angeliki Stellatou, con una presenza mediterranea che ci fanno
paragonarla a Cristina Hoyos (non a caso l'anno scorso ha vinto il
premio nazionale greco come migliore interprete) è un cigno
selvatico, ma anche un pipistrello bianco e un pavone immacolato;
Creusa, la giovane donna per la quale Giasone abbandona Medea, è
secondo Papaioannou come "la memoria di una innocente Betty Boop".
Poi ci sono le due figure divine, che rappresentano le due facce del
potere magico di Medea, la luce del Dio Sole, a cui è devota,
incarnato in una figura di apollinea bellezza, come "un quadro di
Caravaggio", e le tenebre rappresentate da un oscuro e spaventoso
servitore, che si comporta come un cane rabbioso e aiuta Medea a
consumare la sua crudele vendetta. Su di un palco coperto dall'acqua,
quattro grandi tavoli sui quali danzano e s'incontrano i quattro
personaggi principali, mentre il servo-cane si muove liberamente tra
di essi. Alla fine, tutto crolla nell'acqua, come "la lava della
morte, nella quale gli spettatori vedono dissolversi cose e personaggi
e sentono che lo spettacolo non potrà mai più ripetersi." Un
capolavoro di poco più di un ora in cui si svolge, lentissimamente,
una grande storia, che ci lascerà per sempre nella memoria la
raffinatissima e profondamente erotica notte d'amore tra Giasone e
Medea, che pur arrivando al nudo integrale rimane sempre al livello di
artistica dinamicità di alcune sculture del Bernini, oppure la pazzia
di Medea tradita che percorre il palco utilizzando delle sedie come
pontili mobili, alzando violenti flutti d'acqua che ben s'intonano con
la violenza del suo procedere e della vendetta che sta concependo come
unico possibile riscatto.
Oltre all'alto livello tecnico e interpretativo di tutti i danzatori
coinvolti, ci sono anche cinque "argonauti-marinaretti"
complici di Giasone, ed è d'obbligo segnalare il meraviglioso disegno
delle luci, funzionale e creatore di bellezza al tempo stesso, di
Vasso Lactaridou. Per certi riferimenti figurativi ed emotivi, per la
capacità magistrale di creare immagini danzate che raccontano più di
mille parole, per la potenza della sua presenza e per quella che sa
provocare negli altri, almeno per questo spettacolo il giovane
Dimitris Papaioannou può essere definito di diritto come il geniale
erede di Lindsay Kemp. Ricordatevi il nome, se ne sentirà parlare
ancora a lungo.
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