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Che ne sarà dei Democratici di
sinistra?
Michele Salvati
Sul “Corriere della sera” del 18
agosto ho pubblicato un articolo -sintesi di un saggio che uscirà
sulla rivista “Il Mulino” in settembre - che sviluppa la tesi
seguente: una delle ragioni per cui, nel bipolarismo all’italiana,
il centro-sinistra è strutturalmente debole nei confronti del
centro-destra discende dal fatto che, mentre nel centro-destra il
partito più forte e con il leader più carismatico è un partito
percepito come partito di centro, nel centro-sinistra il partito più
forte è percepito come partito di sinistra e i partiti di centro sono
piccoli, disuniti, incostanti nelle loro lealtà, e del tutto incapaci
di contrastare l’appeal di Berlusconi sull’elettorato
moderato. Grazie a Prodi e all’Ulivo, ma soprattutto grazie alla
divisione degli avversari, questa debolezza strutturale non è stata
determinante nel 1996. Dopo di allora il centro-sinistra non ha fatto
nulla per rimediarvi, e anzi l’ha aggravata, mentre Berlusconi ha
appreso la lezione in modo perfetto e si presenta alle elezioni del
2001 con uno schieramento difficilmente contrastabile.
Nell’articolo del Corriere la tesi era presentata in modo molto tranchant,
proprio per sollecitare la discussione; nel saggio su “Il Mulino”
non soltanto essa viene qualificata e molte possibili obiezioni
vengono discusse (ivi inclusa quella che il bipolarismo non ce l’ha
ordinato il medico), ma il geometrico ragionamento sui contenitori,
sulla scacchiera politica, è integrato da un’analisi sui contenuti
delle politiche di centro-sinistra e centro-destra. La tesi ha
incontrato il consenso di Panebianco (due giorni dopo sullo stesso
Corriere) e il dissenso di Ruffolo, il 24 agosto su la Repubblica.
Vorrei partire di qui, perché le ragioni del suo dissenso mi
consentono di spostare l’analisi sulla casa comune a Ruffolo e a me,
sui democratici di sinistra. Sia che la coalizione di centro-sinistra
risulti vincitrice nelle prossime elezioni, sia che venga sconfitta
(ma soprattutto in quest’ultimo caso), se continueremo a competere
con norme elettorali bipolarizzanti è sui DS che incombe l’onere
maggiore nella costruzione di una coalizione solida, con un leader ben
identificato, non soggetta ai ricatti di forze marginali.
La critica di Ruffolo è semplice e credo sia condivisa da molti.
Parte da un dato difficilmente controvertibile, che il grosso
svantaggio del centro-sinistra è costituito dal pulviscolo e dalla
rissosità delle sue componenti, e soprattutto dalla mancanza di un
leader (“s’ode a destra uno squillo di tromba; a sinistra risponde
una cagnara”: ben detto!) E però Ruffolo è convinto che la “debolezza
strutturale dell’Ulivo non sia…di essere spostato a sinistra. Al
contrario: esso manca di quel fulcro che è costituito, in Europa, da
un grande partito socialista”. Dopo essersi lamentato del fatto che
i post-comunisti non scelsero per tempo l’unità con i socialisti (…quando?)
e per questo oggi si trovano ad essere più deboli dei loro partner
europei, i quali possono governare da soli o con alleati meno numerosi
e rissosi dei nostri, se la prende con la tesi che ho esposto prima:
“l’idea di spostare il fulcro della coalizione verso il centro
appartiene a quelle utopie dell’anomalia italiana (facciamo il
contrario di quello che si fa in Europa) che ieri si riconoscevano nel
cattocomunismo e oggi in una confusa forma di catto-liberalismo in
salsa americana, nella quale dovrebbero sciogliersi le tradizioni e i
nomi stessi della sinistra”.
A questo punto del suo articolo Ruffolo abbandona il piano dell’analisi
strutturale per quello, più contingente, del che cosa fare ora, in
una situazione in cui il centro-destra ha gli squilli di tromba e il
centro-sinistra la…cagnara. Non lo seguo su questo piano perché
dice cose che condivido: oltre alla cagnara il centro-sinistra ha il
governo e, per avere una chance nelle prossime elezioni, dobbiamo
stringerci intorno al governo e al suo premier. Ma il problema
strutturale di come costruire “l’unità e la leadeship dell’Ulivo”,
di che cosa si sarebbe dovuto fare e non si è fatto dopo la vittoria
del 1996 e di che cosa si dovrebbe fare dopo le elezioni del 2001,
rimane totalmente aperto. E poco vale sospirare che, se la zia avesse
le ruote, sarebbe una carriola: l’occasione di fondere insieme PCI e
PSI quando ancora erano forti è stata irrimediabilmente persa, e
ancora si discute su di chi sia la colpa. Oggi abbiamo un DS al 20%,
che ha bisogno almeno di un 5 % alla sua sinistra e di un 15% alla sua
destra per poter competere in un contesto bipolare (le percentuali
possono cambiare un po’, ma la situazione è sostanzialmente
questa). Certo che la situazione è anomala, ma l’anomalia non se la
sono inventata i catto-comunisti o i catto-liberali. Come vecchio
socialista, sono convinto anch’io che sarebbe meglio avere un bel
partito socialista forte, che includesse al suo interno componenti
liberali e d’ispirazione religiosa, come gli altri grandi partiti
europei che stanno insieme a noi nell’Internazionale. L’anomalia
viene da lontano, viene dal PCI e dal “duello a sinistra”, viene
dall’amalgama democristiano, insomma, viene dalla nostra storia, e
su questa situazione “anomala”, cioè unica come le vere storie
sono, bisogna ragionare.
Il ragionamento del Corriere (e, in esteso, quello del Mulino) è un
tentativo in questa direzione. Esso parte da un assunto cruciale, che
il sistema elettorale in cui si combatte rimanga un sistema
bipolarizzante, almeno quando lo è il Mattarellum: in questo sistema
vincono coalizioni coese (o che diano un’immagine di coesione) e
leader forti e credibili. Coalizioni che riescano a raccogliere tutto
quanto sta sul lato estremo del proprio schieramento senza perdere
credibilità verso il centro. Per ottenere questo risultato forse non
è necessario, ma è certo utile, che il leader sia a capo del partito
(o della federazione percepita come partito) più forte e più
spostata verso il centro, per le ragioni che ho chiarito nei due
articoli menzionali. Che poi sono le stesse ragioni che hanno spinto,
quando il sistema politico è vicino al bipartitismo, molti partiti
socialdemocratici a darsi un programma e un leader gradito agli
elettori di centro. Non è una regola matematica: se la destra è
disunita, se il clima dell’opinione pubblica si sposta a sinistra,
se il partito è da tempo legittimato e non ha precedenti
imbarazzanti, se il leader è particolarmente attraente e carsmatico,
si può vincere anche con una coalizione e un indirizzo politico più
spostato a sinistra (quanto poi ai simboli, all’ideologia e ai
programmi corrispondano di fatto policies di sinistra, è tutt’altra
questione). Ma la regola dell’elettore mediano, nei sistemi
bipolari, è abbastanza solida da poterla prendere a base di un
ragionamento non utopico.
E’ per questo che sono convinto che il centro-sinistra abbia perso
una grande occasione nel rifiutarsi di perseguire e rafforzare la
strategia dell’Ulivo, colla quale aveva vinto le elezioni del ‘96.
Oggi però il latte è stato versato e perseguire in extremis
quella strategia è impossibile (ciò nondimeno, “un po’ per
celia, un po’ per non morir”, nel saggio del Mulino esploro la
possibilità di uno scatto ulivista nell’imminenza delle elezioni):
oggi dobbiamo seguire la strategia che Ruffolo suggerisce,
accontentiamoci della coalizione che abbiamo, stringiamoci intorno al
governo e al suo presidente e che Dio ce la mandi buona. Ma assai
presto bisognerà affrontare i problemi di fondo. Ed è su questi
problemi che si misureranno le diverse posizioni politiche all’interno
del centro-sinistra, ed in particolare all’interno dei DS. Veniamo
allora al più forte partito della coalizione, ai Democratici di
Sinistra e ai loro problemi. Per come li vedo oggi, sono di due tipi:
problemi di persone (di leader); e problemi di strategia.
Si potrebbe dire: i problemi di strategia sono sempre anche problemi
di persone, perché una strategia sempre marcia colle gambe di un
leader e di un gruppo dirigente. Già, come se fosse facile capire la
strategia politica di cui sono portatrici le due personalità di
maggior spicco dei DS, D’Alema e Veltroni. Con una battuta facile,
potremmo dire che nei DS ci sono due strategie senza leader, leader
grossi, voglio dire: la sinistra e i liberal, due termini che uso in
modo convenzionale; e ci sono due leader senza strategie, D’Alema e
Veltroni, appunto. Che cosa sappiamo di loro? Anzitutto che non si
piacciono, e già questo è un bel guaio. Che D’Alema ha
definitivamente (?) scelto una strategia liberal, ma guarda con
gran dispetto allo strumento con cui farla avanzare, quello strumento
-il partito- di cui era stato l’assertore più convinto in un
recente passato. Che Veltroni ha fatto sì passare la sua mozione a
Torino coll’80% dei consensi, ma al prezzo di non scegliere fino in
fondo: un colpo al cerchio (intervista alla Stampa), un colpo alla
botte (alleanza con Cofferati). In un partito in cui il vecchio
cemento ideale-ideologico si è sfaldato e non è stato sostituito da
uno nuovo, che sta rapidamente diventando (per fortuna non lo è
ancora del tutto) un partito di cordate personali, questo latente
conflitto e soprattutto queste incertezze dei leader maggiori sta
generando guasti difficilmente sopravalutabili.
E’ in questo contesto che va apprezzata l’uscita di Salvi, finora
l’unico leader accoppiato ad una strategia. Saggiamente (e
ambiziosamente) non si è confuso con la pur forte sinistra interna,
di cui poteva facilmente diventare l’esponente di maggior spicco. Ha
invece fatta sua una posizione che può avere un grande successo in un
partito confuso, i cui leader maggiori non mandano messaggi chiari.
Una posizione che si basa su due messaggi forti: il primo è la
sollecitazione dell’orgoglio di partito, in un partito
orgogliosissimo e che soffre una politica di coalizione di cui non
vede i frutti (un messaggio non dissimile dal D’Alema prima
maniera). Il secondo è un messaggio d’identità, dell’unica
identità che può essere facilmente capita dal grosso dei quadri e
degli attivisti: una identità di sinistra socialdemocratica, vicina
al sindacato, vicina ai fratelli separati dei Comunisti italiani e di
Rifondazione. Strategicamente, poi, è un messaggio di coalizione
molto tradizionale: noi siamo e facciamo la sinistra; poi ci alleiamo
con la quella parte del centro che preferisce allearsi con noi
piuttosto che con i leghisti e gli ex-fascisti.
Dai problemi di persone, descrivendo la posizione di Salvi siamo
passati ai problemi di strategia. Quella di Salvi è una delle due
possibili strategie cui si trovano di fronte i DS. Ha il grande
vantaggio del lisciare il pelo del partito per il verso giusto, del
non dirgli verità sgradevoli che non vuol sentirsi dire. Il difetto,
naturalmente, è che presume un “centro” (disposto ad allearsi ad
una sinistra come quella di Salvi) che non c’è o che non è forte
abbastanza da avere una chance di vincere in un contesto bipolare. Il
centro del centro-sinistra è quella roba che ho descritto negli
articoli prima ricordati, e un pezzo crucialmente importante
preferisce di gran lunga allearsi con l’omologo “centro” di
Berlusconi piuttosto che con la sinistra di Salvi. Dal punto di vista
delle coalizioni, in un contesto bipolare e di fronte ad avversari
come Forza Italia, è una posizione perdente in partenza. Si
troverebbe un po’ meglio se tornassimo ad un sistema
proporzionalistico, da prima repubblica, sempre che la “sinistra”
fosse disposta a fare (saltuariamente, secondo la teoria dei due
forni) la spalla ad un centro che governa sempre. E’ questo che
vuole Salvi? Forse no. Forse pensa che volere a tutti i costi
governare, anche quando la situazione è sfavorevole, significa
perdere la propria identità e, alla lunga, la propria forza: non è
forse vero che il PCI si è rafforzato in una condizione di permanente
opposizione? Poi, chi vivrà, vedrà: il capitalismo è un animale
violento e ci possono essere crisi strutturali che rimettono in voga
idee socialiste. Quanto al nostro paese, poi, governare non dà
necessariamente un vantaggio permanente, come abbiamo appreso a nostre
spese: Berlusconi può crollare ignominiosamente di fronte alla prova
di governo, e allora il paese potrebbe anche accettare una sinistra
vera.
Questa che ho descritto in modo un po’ sommario è una posizione
chiara e di cui ho rispetto. L’altra, naturalmente, è la posizione liberal
(lo ripeto: “sinistra” e “liberal” sono termini
convenzionali: personalmente sono convinto che la seconda è “più
di sinistra” della prima, che a mio avviso è una posizione
conservatrice). Anche se alcuni suoi esponenti vi insistono troppo, l’elemento
caratterizzante non è la volontà di governo (ed è per questo che mi
piace poco l’antinomia Bertinottiana, sinistra di governo/sinistra
di opposizione). Ciò che la caratterizza -in via generale- è una
riflessione critica sulla sinistra tradizionale di impianto teorico
marxista e vicina al sindacato e al movimento operaio; e invece un
pieno apprezzamento di quanto la situazione economico-sociale sia
mutata e quanto siano inadeguati i vecchi strumenti. E questo, pur
facendo propri gli stessi valori della tradizione socialista, di
libertà, di uguaglanza, di solidarietà, di partecipazione
democratica. La disponibilità al cambiamento degli strumenti, il
riconoscimento convinto della crisi del socialismo tradizionale crea
nel nostro paese un terreno favorevole ad alleanze strette con chi
condivide gli stessi valori, ma proviene da diverse tradizioni
politiche e culturali: questo era il semplice segreto dell’Ulivo.
Vorrei essere chiaro. Questa predisposizione ad alleanze strette non
esclude l’orgoglio di provenire dalla tradizione del movimento
operaio e socialista. Non esclude un legittimo orgoglio di partito,
come invece allude in tono irrisorio Ruffolo quando parla di
cattocomunismo e di cattoliberalismo. Sono del tutto convinto che i
partiti siano destinati a restare (anche se non uguali al loro
passato) e che la prima battaglia, quella tra sinistra conservatrice e
sinistra innovatrice vada combattuta nel partito così com’è ora.
Ma sono anche convinto che: (a) se vogliamo restare in un sistema
bipolare e in un regime di alternanza bisogna risolvere quel problema
di costruzione di un soggetto di centro-sinistra (alleanza stretta,
federazione, partito o quel che sarà) che si ponga come efficace
analogo e “dirimpettaio” di Forza Italia, un soggetto che i DS da
soli non potranno essere in un futuro prevedibile, e men che meno se
scelgono la posizione di Salvi. Per questo sono anche convinto che,
(b), se i DS vogliono partecipare alla sua costruzione, è necessaria
al loro interno una battaglia politica che faccia prevalere la
sinistra innovatrice (o liberal, se si preferisce), come è
avvenuto in almeno due dei grandi partiti socialdemocratici europei
che hanno vinto le elezioni nello scorcio finale degli anni ’90 (su
Jospin, che Salvi tira in ballo in continuazione, faremo un discorso
serio un’altra volta).
Anche questa è una posizione politica chiara e rispettabile: meno
facile, più “contropelo” di quella che ho descritto prima, ma
assai più promettente, a mio avviso, sia per il partito, sia per il
paese. Anzi, sono convinto che si tratti delle due sole posizioni
degne di essere combattute e confrontarsi in uno scontro politico
aperto, da cui emerga un chiaro vincitore e si ponga fine all’incertezza
che oggi prevale. La prima, quella di “sinistra”, sembra aver
trovato il suo leader. Per la seconda ci sono due leader in panchina
che, a parole, più liberal non si può. Si diano una mossa, se
no bisogna cercarne rapidamente un altro.
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