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Impasse in Italia e in Europa


Intervista di Giancarlo Bosetti e Silvio Trevisani a Massimo Luciani




La revisione della Costituzione in Italia è fallita. La Commissione bicamerale presieduta a Massimo D’Alema, prima che questi andasse a guidare il governo, non ha dato risultati. Ma neppure una nuova legge elettorale è in vista. Se ne continua a parlare ma i rapporti tra maggioranza e opposizione sono pessimi e non lasciano sperare molto. Veti contro veti. Eppure di novità costituzionali c’è bisogno, sia in Italia che in Europa, se è ecita una analogia. Infatti si sente il bisogno di far fare un passo avanti alla costruzione europea (con o senza allargamento ai paesi dell’est) attraverso novità istituzionali. Per lo meno una Carta dei diritti. Anche il cammino europeo delle speranze “costituenti” non sarà però facile. Chiediamo chiarirci le idee a uno dei maggiori esperti della materia costituzionale europea, cui ha dedicato un bel saggio, di cui presto “Reset” pubblicherà almeno una parte, quella dedicata ai diritti sociali” dei cittadini europei. Si tratta del prof. Massimo Luciani, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza”.

Le costituzioni si fanno o si revisionano quando esistono determinate condizioni (l’esito di guerre e rivoluzioni, la schiacciante egemonia di un potere sugli altri, il comune interesse di parti politiche anche avverse ma convergenti nell’idea di rimettere ordine nelle istituzioni dopo gravi sconvolgimenti). Tali condizioni sembrano non esserci né per la revisione della Costituzione italiana né per la nascita di quella europea. Sono problemi diversi, ma il risultato negativo potrebbe essere simile. Parliamo innanzi tutto del fatto che non si è riformata la Costituzione italiana, come molti speravano.

Per revisionare totalmente una costituzione devono realizzarsi condizioni storiche particolari - definiamole trasformazioni epocali - che in ogni caso incidono direttamente sul patto costituente originario. Ma qualche volta non basta nemmeno questo. Penso al caso tedesco: abbiamo avuto soltanto l’estensione della Grundgesetz (la legge fondamentale) ai Länder orientali, cioè all’ex RDT. Questo la dice lunga sulla durezza, sulla resistenza delle Costituzioni. Basti pensare a quella degli Stati Uniti che ha saputo adattarsi ai cambiamenti, dopo la guerra civile e il New Deal, che furono grandi spartiacque della storia americana. Però l’impianto originario è rimasto largamente intatto. Perché sono mancate le condizioni sostanzialmente rivoluzionarie che furono decisive nel tardo Settecento e nel primo e secondo dopoguerra.

Quindi la situazione italiana, determinatasi nei primi anni novanta, non era condizione sufficiente a realizzare una radicale riforma costituzionale?

No. Però era un’ottima situazione, quasi ideale, per un tentativo di corposa revisione. Qui le responsabilità della classe politica sono state duplici. Per un verso hanno sparato troppo alto, facendo credere all’opinione pubblica e a se stessi che fosse in atto una “fase costituente”, mentre si trattava solo di una “fase di revisione”, legittimamente aperta. E a obiettivo irrealistico corrisposero risultati modesti. Non avevano capito qual era il terreno della contesa e del confronto. Aggiungo che hanno lavorato in modo molto modesto. La Bicamerale, da questo punto di vista è stata sconcertante, non all’altezza del compito.

Al di là della qualità del prodotto giuridico, il fallimento non è dovuto all’eccesso di ostilità fra le parti politiche?

Non c’è dubbio. La modesta qualità non ha mai impedito a una riforma legislativa o costituzionale di andare in porto. La ragione del fallimento è stata la rottura della apparente unità di intenti iniziale, che aveva mosso la maggioranza.

Tuttora il conflitto è tale da non fare intravedere un terreno d’intesa per una revisione costituzionale e neppure per un accordo sulla legge elettorale.

Sembra anche a me. E qui si pone un problema molto delicato perché la revisione della Costituzione, come recita l’articolo 138, può seguire due strade. La prima è quella della comunanza di intenti ampia e diffusa tra maggioranza e opposizione; essa richiede che le modifiche siano approvate con la maggioranza dei due terzi delle Camere. La seconda è quella dell’approvazione, in seconda deliberazione, a maggioranza assoluta, di una revisione costituzionale, ma con la possibilità che possa essere richiesto un referendum abrogativo (da parte di un quinto dei componenti di  ciascuna Camera, 500mila elettori e cinque consigli regionali). Sinora si è tentato di raggiungere un accordo preventivo per evitare lo scontro referendario. Mi chiedo: questo indirizzo, che è stato seguito dalle maggioranze sino adesso, lo sarà  anche da quella di centro destra che potrebbe vincere le prossime elezioni legislative?  Siamo sicuri che il Polo, non raggiungendo la soglia dei due terzi, esiterebbe ad approvare una revisione della Costituzione con un voto a maggioranza assoluta? Scegliendo quindi la strada dello scontro referendario? Sinceramente non lo so, ma non darei per assolutamente implausibile l’ipotesi, che rappresentarebbe non una violazione delle norme (perché è sempre comunque una procedura prevista dall’articolo 138), ma certo una fuoriuscita da una tradizione politica. Inoltre l’idea di un referendum inteso come uno scontro forte e radicale non è rifiutata dalla cultura di questo centro destra che non avrebbe difficoltà a utilizzarlo in dimensioni plebiscitarie.

Lasciamo questo enigma aperto perché il conflitto rimane elevato e le condizioni di un accordo improbabili. E passiamo alla scena europea, facendo una domestic analogy un po’ disinvolta.  Anche qui mancano le condizioni di un grande rivolgimento e non c’è un egemonia schiacciante di qualche potere. A meno che non si pensi alla leadership franco-tedesca, da una parte, e all’instaurazione di regimi democratici nell’est europeo, come condizioni sufficienti. Alla prova dei fatti, le condizioni di un interesse comune alla creazione di una Costituzione europea sono abbastanza problematiche.

Condivido. Anche se non spingerei fino in fondo la domestic analogy. Ritengo occorra una premessa. Come mai si parla oggi così frequentemente, e così intensamente anche a livello politico, della costruzione di una Costituzione europea o quantomeno della redazione di una “Carta dei diritti fondamentali” intesa come embrione di una futura Costituzione? Credo che le ragioni siano sostanzialmente due. La prima è l’esigenza di un atto simbolico che dia più “sangue e carne” al processo di integrazione, dopo le delusioni dovute alle difficoltà dell’Euro. Si tratta della consapevolezza che l’unione non può essere solo economico- monetaria. La seconda deriva dalla grande sfida che l’Unione Europea dovrà presto affrontare: l’allargamento. È evidente che non si può arrivare a questo appuntamento epocale senza chiarezza sulle istituzioni comunitarie e sui valori unificanti. Il che rende urgente un ripensamento complessivo dell’ordinamento. Fatta la premessa, ecco le difficoltà che sono solo parzialmente analoghe a quelle interne italiane. Certo, coesistono esigenze, visioni e interessi contrastanti. Abbiamo “treni” diversi: Spagna, Inghilterra, Francia, Germania, paesi dell’area mediterranea. E non dimentichiamo  che la stessa posizione italiana è a sua volta articolata in due sottoposizioni, non incompatibili, ma comunque diverse l’una dall’altra: mi riferisco a quella di Amatop e aquella di Ciampi. Però io ho l’impressione che la difficoltà vera stia altrove: la storia del concetto di Costituzione è legata allo Stato. La Costituzione è sempre stata Staatverfassung, (Costituzione dello Stato), ovvero una legge che stabilisce le regole fondamentali della convivenza civile all’interno di una formazione statuale. Visto che non sono maturi i tempi per la costruzione di uno Stato europeo, si comprendono tutte le difficoltà di fare una Costituzione europea.

Una Costituzione si potrebbe dare solo se l’Unione Europea diventasse uno stato federale?

Una Costituzione in senso tradizionale sì. Soltanto a queste condizioni. C’è però un'altra possibilità: potremmo costruire qualche cosa di diverso, ma dovremmo prima risolvere un altro problema ancora più grave rispetto all’ipotesi di una statualità europea, ed è quello del soggetto portatore di questa Costituzione e del destinatario delle sue prescrizioni: il popolo europeo. Se non esiste questo soggetto non si può scrivere nessuna Costituzione. E da questo punto di vista non siamo in condizioni di avere in tempi ragionevolmente prevedibili una Costituzione europea in senso tradizionale. Credo che l’obbiettivo da perseguire sia quello di un rafforzamento dell’Unione con un chiarimento della sua situazione istituzionale: la redazione di una “Carta dei diritti” che definisca i valori fondamentali nei quali ci si riconosce, ma senza la pretesa di replicare il processo di costituzionalizzazione che ha caratterizzato la statualità. Davvero non ci sono le condizioni.

Quindi l’ipotesi di un’Europa federale, avanzata dal vice cancelliere Fischer è avveniristica e senza fondamenti realistici?

E' evidente. Si tratta di un’ipotesi avveniristica che serve però allo scopo di porre il problema. Qualcuno ha parlato di una Confederazione degli Stati europei: mi sembra sicuramente più realistico, ma anche questa meta è molto lontana nel futuro. A breve termine tutto mi sembra difficile, se non impossibile.

Avremo in ogni caso un’Europa a due livelli di approfondimento del legame comunitario?
 Con un nucleo duro ed una “corona” più molle?

Molto probabile. Un nocciolo duro composto da chi può e vuole starci e vagoni agganciati. Non immaginerei però un treno tradizionale, con una locomotiva sulla quale stanno alcuni paesi (Francia, Germania, l’Italia se saprà e vorrà esserci) ed altri che sono trascinati. Penso a un legame elastico, che si accorcia e si allunga a seconda delle volontà politiche, delle condizioni economiche e sociali. Non sarà dunque un processo rettilineo, ma lento, complesso e dagli esiti incerti. Mi auguro che l’integrazione giunga ai livelli di approfondimento massimi consentiti dall’assenza di statualità dell’Unione.

Andiamo per tappe. Adesso c’è da conquistare il principio di maggioranza negli organi esecutivi dell’Unione, e da superare il livello cosiddetto intergovernativo (ove unanimità significa che ciascun memrbo ha diritto di veto, cioè di paralisi). Un appuntamento importante che potrebbe dare alla Commissione di Bruxelles una dimensione da governo europeo. Questo è un passaggio che ha una rilevanza politica non costituzionale, o solo politica?

Anche qui dobbiamo intenderci: non ha rilevanza costituzionale nel senso tradizionale del termine, ma da un punto di vista istituzionale è centrale, capitale; perché il passaggio da un sistema incentrato sul principio di unanimità a uno che funziona secondo quello di maggioranza sconvolgerebbe il funzionamento dell’Unione, la logica e il modo in cui gli Stati interpretano la loro appartenenza. Quindi, pur non essendo qualificabile come elemento costituzionale,  è fondamentale, si tratta di un’enorme trasformazione istituzionale. Io non sprecherei il termine Costituzione, ma non per questo sottovaluterei la portata storica del passaggio.

Che mette in discussione un pilastro centrale del Trattato di Roma…

Certamente, quel trattato non immaginava questi sviluppi: aveva ambizioni molto più limitate. Soltanto nei sogni di alcuni europeisti era concepito in questa proiezione. Il principio di unanimità consentiva a ciascuno Stato di salvaguardare il proprio spazio sovrano. Quello di maggioranza rompe questa salvaguardia, è quasi un rovesciamento del Trattato di Roma nella sua ispirazione di fondo

Quanto al merito della “Carta dei diritti” in un suo recente saggio lei spiega che i “diritti sociali” (lavoro, istruzione, salute etc.) si presentano in una condizione di minorità che sembra destinata a durare.  Anche se la “Carta dei diritti” potrebbe enunciare, come tratto forte dell’identità europea, proprio  questa caratteristica, tipica del modello sociale europeo.

Non c’è dubbio, lo potrebbe fare. Il progetto della “Carta dei diritti”, nella sua seconda parte, prevede una serie consistente di diritti sociali. Però vorrei precisare che il mio saggio era anteriore alla presentazione del primo progetto. Devo dire la verità: si poteva fare di meglio. La Carta non definisce compiti nuovi e non modifica le gerarchie definite nei trattati. Questo significa che si riconoscono diritti sociali senza aggiungere nessuna competenza alle istituzioni dell’Unione. Ma noi sappiamo che i diritti sociali almeno quelli che si devono tradurre in prestazioni, richiedono istituzionalente che, a fianco del puro riconoscimento, si preveda l’imposizione di un compito a una entità pubblica che li deve concretamente tutelare e garantire. Se io riconosco il diritto, ma contemporaneamente non prevedo un aggravamento dei compiti e delle competenze, ho messo in campo una interessante dichiarazione di intenti la cui efficacia politica e normativa è nulla. Questo è il vero problema. 


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