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Irlanda, il prezzo del passato

 

Antonio Carioti

 

  Luglio in Irlanda del Nord è sempre un mese molto caldo. E non tanto per ragioni metereologiche, ma perché in questo periodo dell'anno la comunità unionista, favorevole alla permanenza della regione sotto la sovranità della Corona britannica, celebra le sue antiche vittorie. In particolare il 12 luglio ricorre l'anniversario della battaglia della Boyne, nella quale il re protestante  d'Inghilterra Guglielmo III d'Orange, nel lontano 1690, sconfisse il rivale cattolico Giacomo II Stuart in terra irlandese. Il 28 luglio, ma del 1689, è invece la data della fine dell'assedio di Londonderry, altro episodio cruciale della medesima guerra.

  Le marce organizzate per commemorare quegli eventi dall'Ordine d'Orange, una sorta di massoneria protestante, restano una costante fonte di tensione. E anche quest'anno due morti e decine di feriti hanno fatto da contorno alle sfilate degli unionisti con la bombetta in testa e la sciarpa arancione al collo. Il processo di pace promosso da Tony Blair ha compiuto notevoli progressi, a Belfast si è insediato un governo regionale interconfessionale, anche i guerriglieri irrendentisti cattolici dell'Ira sono coinvolti nel progetto di rinconciliazione. Ma ci sono barriere secolari d'odio da superare, inasprite da trent'anni di guerra civile strisciante.

  Difficile spiegare le origini del conflitto in modo sintetico. Tutto nasce dalla pervicace volontà dell'Inghilterra di sottomettere la vicina Irlanda, considerata da Londra troppo importante strategicamente perché si potesse perderne il controllo. All'imperialismo britannico si è contrapposta nel tempo la resistenza strenua della popolazione dell'isola. E un dissidio religioso si è in parte sovrapposto allo scontro politico, visto che gli irlandesi autoctoni sono sempre rimasti cattolici, mentre i coloni inglesi e scozzesi, insediati nel Nord a partire dal XVII secolo, erano anglicani o presbiteriani (calvinisti).  

I nodi vennero al pettine tra il 1916 e il 1921, quando la rivolta armata dei nazionalisti irlandesi costrinse la Gran Bretagna a concedere l'indipendenza all'isola. Non a tutta però. I discendenti dei coloni protestanti del Nord avevano chiarito da tempo di non essere disposti a vivere sotto il predominio della maggioranza cattolica. E così dalla regione settentrionale dell'Ulster vennero separate sei contee, popolate prevalentemente da unionisti, che rimasero a far parte del Regno Unito.

  Qui per decenni gli abitanti di religione cattolica sono stati discriminati ed emarginati sistematicamente da un regime di autentica apartheid. Finché nel 1969 la dura repressione delle loro lotte per i diritti civili non ha innescato una spaventosa reazione a catena di violenze e rappresaglie, che ha provocato l'intervento dell'esercito britannico e la revoca dell'autonomia dell'Ulster.

  Numerosi i seminatori di lutti con le armi in pugno. Da una parte l'Ira, organizzazione storica del nazionalismo repubblicano irlandese, che sogna l'unificazione dell'isola sotto Dublino. Dall'altra le formazioni paramilitari lealiste, irriducibilmente ostili a quel progetto. Poi una polizia locale, la Ruc, dominata completamente dai protestanti. Infine le forze di sicurezza britanniche, giunte originariamente per proteggere i cattolici dalle prepotenze unioniste, ma in realtà inclini a considerare il movimento repubblicano il loro principale, se non unico, nemico.  

Si fa molta fatica a orientarsi in un simile ginepraio, se non altro perché appartiene a un contesto culturale molto lontano dalla realtà italiana. E non di rado sui mezzi d'informazione capita di leggere o ascoltare inesattezze anche molto gravi. E' comune ad esempio la definizione di "separatisti" per i militanti dell'Ira, che in realtà non vogliono separare un bel nulla, ma semmai unificare l'Irlanda.

  Un utile strumento per comprendere i meccanismi del rompicapo è il libro di Calogero Carlo Lo Re "La questione nord-irlandese" (Antonio Pellicani Editore), che offre una vasta bibliografia e, in appendice, un saggio originale e stimolante di Tom Nairn, uscito 25 anni fa sulla rivista "Quaderni piacentini", ma tuttora attuale e istruttivo per liberarsi dagli stereotipi fuorvianti.

  Lo Re ha diversi meriti: sgombra il campo dall'equivoco che vede nel conflitto una guerra di religione, denuncia il ruolo ambiguo giocato dalla Chiesa cattolica, evidenzia la natura composita delle ideologie che si fronteggiano, analizza in modo acuto i meccanismi psicologici perversi che muovono gli estremisti di entrambe le parti. Meno convincente risulta la sua propensione a spiegare la tragedia nordirlandese adottando "quale unica bussola di una qualche utilità" l'ormai obsoleta "categoria marxiana di lotta di classe".

  Se infatti è innegabile che il conflitto ha anche una componente economica, è a dir poco illusorio pensare di risolverlo attraverso un utopistico appello all'unità del proletariato nordirlandese, al di là delle divisioni culturali e confessionali. Come ricorda lo stesso Lo Re, ci provò trent'anni fa l'ala marxista dell'Ira, cosiddetta "official", ma senza alcun esito, tanto che ben presto venne del tutto soppiantata dalla corrente nazionalista e militarista, denominata "provisional". La verità è che in Ulster per i cattolici la scelta nonviolenta comporta  inevitabilmente una strategia riformista, quella adottata dal socialdemocratico John Hume e dal suo partito Sdlp, mentre l'opzione rivoluzionaria non può prescindere dalla lotta armata anti-unionista.

  Un altro punto discutibile del saggio di Lo Re è la sua idea di ricondurre il terrorismo repubblicano e quello lealista a una comune concezione di matrice, in senso lato, "fascista". Non bastano infatti l'uso della strage indiscriminata o il culto dei morti per identificare una specifica ideologia. In guerra, cioè nella condizione in cui tanto l'Ira quanto i paramilitari protestanti ritengono di trovarsi, il massacro dei civili nemici non è monopolio del nazifascismo e neppure dei regimi totalitari, poiché anche le potenze democratiche, da Dresda a Hiroshima al Vietnam, vi hanno spesso fatto ricorso.

  Semmai va aggiunto che Lo Re si mostra un po' troppo severo verso il modo in cui Londra ha affrontato l'emergenza Ulster. E' vero che ci sono stati errori gravi, pesanti violazioni dei diritti civili, collusioni con il terrorismo lealista, autentici crimini come l'eccidio del "Bloody Sunday", immortalato dalla famosa canzone degli U2. Ma se la Gran Bretagna si fosse ritirata dall'Irlanda del Nord, avremmo assistito con ogni probabilità a una pulizia etnica di tipo bosniaco, con uno spargimento di sangue ben maggiore e nessuna possibilità di convivenza pacifica. Lo spiega molto bene Nairn nel saggio pubblicato in appendice al libro di Lo Re.

  Aveva ragione Bobby Sands, celebre martire dell'Ira, quando sosteneva che in Ulster l'imperialismo inglese ha raccolto i frutti che aveva seminato in secoli di feroce oppressione. Ma va riconosciuto che il Regno Unito ha saputo assumersi le sue responsabilità storiche, pagando un prezzo molto elevato in risorse economiche e vite umane. La presenza britannica in Irlanda del Nord non è soltanto il residuo di un bieco passato coloniale, ma anche il fattore che ha impedito al conflitto di degenerare  senza rimedio.

  Se Londra non avesse tenuto duro, gli unionisti non avrebbero mai accettato di governare insieme ai nazionalisti e l'Ira non avrebbe mai fornito garanzie sul controllo dei suoi arsenali. Ben difficilmente, oggi, si potrebbe sperare nella pace.

 

 

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