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Tre più due, autonomia e decentramento

 

Ortensio Zecchino con Giancarlo Bosetti

“Prima di andare in vacanza emano il decreto definitivo”. Salvo una riserva, da fare opportunamente a titolo di scongiuro, la riforma universitaria sta per entrare a far parte del novero delle cose che il centrosinistra è riuscito a realizzare. Il ministro Ortenso Zecchino, irpino, classe ’43, storico del diritto penale, una carriera nella Dc e poi nel Pp, metterà la sua firma sul documento che introduce il nuovo ciclo delle lauree, detto del “tre più due”, e che riordina la vita accademica in base a principi di autonomia e decentramento. Il lavoro l’aveva iniziato Luigi Berlinguer, quando aveva la guida ministeriale sia della pubblica istruzione che dell’università; poi la riforma si è identificata con il nome di Guido Martinotti, il sociologo milanese che ha steso il documento di base che definiva la struttura della riforma. Ma sarà Zecchino a mettere la sua firma sulla gazzetta ufficiale.

  Sicuro, ministro, che non ci saranno scherzi da qualche parte?

  Il Cun, che è l’organo classico della corporazione accademica ha già dato il suo parere. L’organo studentesco anche; ha lavorato a tempo di record: in dieci giorni, quando potevano chiederne 45. Manca solo l’ultimo passaggio parlamentare. Le Camere hanno venti giorni a disposizione, elevabili a trenta. Ho incontrato in questi giorni i due presidenti e mi hanno assicurato che entro il 27 luglio, giorno della chiusura, avremo i pareri delle commissioni. Io non li terrò con me al caldo. Farò immediatamente il decreto.

  Nasce la laurea breve.

  No, la laurea e basta, niente “breve”.

  E come si distingue da quella lunga, di cinque anni?

  La seconda ha bisogno di aggettivi, è la laurea specialistica, la prima è la laurea e basta.

  Vedremo se passa la sua linea lessicale, ministro. Intanto ci sono modifiche in arrivo ai testi base della riforma?

  L’architettura del progetto nei vari passaggi è stata mantenuta. L’unica amputazione è quella di Alberoni: soppressa la classe di laurea in scienze turistiche, una disciplina che finirà nell’ambito di geografia.  

O magari di economia e gestione aziendale, se è vero che le facoltà potranno variamente combinare le loro discipline per definire i corsi di laurea. E’ così?

  Questo è il punto del nuovo ordinamento più complesso, perchè suppone una necessaria interconnessione tra le varie strutture didattiche e pone quindi il problema che gli atenei definiscano statuti e regolamenti per la competenza al rilascio del titolo. Ma certo uno degli aspetti positivi della riforma è questo: la cooperazione di strutture diverse nel definire la architettura degli studi.

  E’ una riforma, il “tre più due”, che ci allinea alla maggioranza dei paesi europei. 

  Ma noi realizziamo insieme il grande obiettivo dell’autonomia universitaria, portiamo a compimento in modo totale il principio dell’articolo 33 della Costituzione. Avremmo anche potuto riordinare i cicli lasciando in vigore la struttura centralistica.

  Questo magari le è un po’ pesato, per la sua formazione politica e giuridica.

  No, guardi, la mia visione del diritto e dello Stato è di tipo storico, aderisce alle condizioni del tempo. Io se mai sono stato duramente critico verso la riforma sanitaria Bindi per il suo centralismo e statalismo. Ma adesso per carità, non apriamo un altro capitolo polemico. Qui abbiamo una riforma tesa a valorizzare l’autonomia e le realtà di base. La Costituzione prevede ordinamenti universitari autonomi nei limiti delle leggi dello stato. Ed io mi sono preccupato di rendere questi limiti i più evanescenti possibili. Vede questo librone che descrive tutte le classi di laurea? E’ concepito a maglie larghissime: un terzo delle scelte curricolari appartiene alle università, per gli altri due terzi ci sono qui le indicazioni. Si partiva da una ripartizione un quarto contro tre quarti. Io ho voluto elevare il rapporto a vantaggio dell’autonomia.

  Che cosa cambia sostanzialmente per docenti e studenti?

  La riforma è incernierata sul concetto di credito, che è una valutazione del tempo dedicato a una disciplina. Funziona così in tutti i paesi europei. Per attivare una classe di laurea noi fissiamo dal centro semplicemente il principio che devono essere attribuiti un certo numero di crediti in attività formative di base, di cui definiamo la tipologia. Per esempio per una laurea in scienze matematiche sono indispensabili crediti in otto discipline: fisica applicata, geometria etc. Ma dentro quelle tipologie le università possono muoversi in assoluta libertà. Abbiamo soppresso 4.200 discipline canoniche, molte delle quali esistevano per ragioni diverse dall’interesse della scienza. Ora abbiamo 370 settori disciplinari, all’interno dei quali si possono liberamente creare le materie di laurea.  

Che ne è di un certo malcontento che abbiamo sentito in questi mesi: “state distruggendo l’università...”. E qualche filosofo, che ho sentito personalmente dire: “Martinotti, Berlinguer, Zecchino stanno distruggendo la filosofia”?

  Vede anch’io ho incontrato un vecchio amico, del mondo accademico, Paolo Grossi, non l’unico, che vive nella dimensione estatica di una università che non esiste più. E’ uno storico del diritto, un grande maestro, che stimo enormemente, ma il sistema dei crediti lo fa impazzire. Dovranno capire che questa riorganizzazione era indispensabile.

  E le critiche alla laurea breve, secondo le quali non è né carne né pesce: troppo poco per specializzare, troppo per un puro prolungamento gli studi medi superiori?

  Sbaglia chi si compiace di una specialità italiana: la laurea strutturata in modo astrattamente formativo. Sbaglia perchè dimentica che si tratta di una università che caccia fuori i due terzi dei nostri giovani che vi si sono iscritti. Inutile magnificare un esistente che non è per niente bello. Si dicono eresie. Se la nostra università fosse un’impresa l’avrebbero già chiusa perchè gira a vuoto. Realizzare la uguaglianza alla condizione europea, abbassando di un anno l’inizio del ciclo universitario, introducendo i crediti e i due livelli di laurea era indispensabile.  

Tuttavia c’è il problema dell’equilibrio tra attività formative e ricerca. Questo è un problema anche per gli altri paesi europei.

  E’ una disputa antica come l’università e riguarda la sua missione. Dahrendorf l’ha richiamata di recente ricordando come lo stato prussiano abbbia per primo puntato a un titolo di laurea che fosse socialmente utile ma rispondesse anche al fine del sapere per il sapere. Ma anche Federico Barbarossa nel 1155 esaltava già la università degli studi come occasione per esiliarsi dal mondo e ascendere alla virtù della contemplazione nel sapere. Mi lasci ricordare però, da meridionale, che nel 1224, suo nipote Federico II, fondando l’Università di Napoli ribaltava quel giudizio, sostenendo che essa serviva per formare uomini, dirigenti che riscattassero la loro terra da condizioni di miseria.

  E c’è il problema della qualità, dei livelli più alti della formazione, della cosiddetta “eccellenza”.  

Stiamo mettendo a punto un disegno più completo. Abbiamo in questo ambito tre realtà consolidate (Sant’Anna e Normale a Pisa, Sissa a Trieste) e tre in corso di sperimentazione (Pavia, Lecce e Catania). Vogliamo realizzare una rete di istituti di eccellenza attraverso meccanismi rigidamente selettivi. Per questo ho creato una commissione presieduta da Edoardo Vesentini – che è il presidente dell’Accademia dei Lincei – la quale selezionerà i centri di eccellenza. Io immagino queste realtà come forti concentrazioni di docenti di elevata qualità, selezionati ad hoc e per uno scopo prevalente di ricerca con poca attività formativa.

  Al livello della laurea dopo i primi tre anni, quella “breve”, perdoni ministro, il problema del rapporto tra orientamento pratico e scientifico del corso sarà molto acuto.  

Qui ci vorrà equilibrio tra la imprescindibile esigenza della formazione di base e quella di una immediata spendibilità degli studi sul mercato del lavoro. Ma dopo la laurea, ci sarà anche il master che avrà una funzione di preparazione pratica. Uno strumento a disposizione di tutti, anche di chi avrà conseguito la laurea specialistica o si trovi in una fase più avanzata del suo corso professionale. Tra il titolo dei tre anni e il biennio successivo ci sarà un filtro.

  Un filtro, un esame o qualcosa del genere, che è stato contestato.

  E’ indispensabile: il passaggio non può essere automatico. Ma saranno i singoli atenei a stabilire il modo della verifica.  

Il quadro delle intenzioni è ottimo, ma di fatto l’Italia nell’istruzione, anche ai livelli più alti ha una andatura pigra: per numero di laureati siamo in coda ai paesi sviluppati.

  La riforma non darà i risultati voluti se non si modifica lo stato giuridico dei docenti e se non rendiamo meno casuale l’accesso degli studenti all’università. La liberalizzazione è stata una scelta demagogica: su cento studenti che si iscrivono alle facoltà umanistiche provenendo dagli istituti tecnici, dopo sette anni se ne laureano solo sei. E difficilmente sono utilizzabili nel lavoro. In questo campo abbiamo imposto i servizi di orientamento. Abbiamo realizzato l’autonomia, si’, ma la cassa ce l’abbiamo al ministero. Possiamo premere incentivando i servizi di tutoraggio e penalizzando chi non li fa. Gli studenti devono essere aiutati a scegliere, ma va posta fine alla pratica di iscriversi comunque e dovunque. Per realizzare tutto questo il tempo della didattica “frontale” (quella cioè che mette il docente davanti agli studenti, lezioni, tutorato, assistenza tesi, colloqui) deve raddoppiare, da 60 deve arrivare a 120 ore e nell’arco di 10 mesi. Vedo una possibilità di scambio: prestazioni più impegnative nell’università e soggette a una valutazione della produttività scientifica e didattica in cambio della possibilità di esercitare la professione liberamente sul mercato.

  Come si realizza lo scambio e  come funziona l’incentivo?

  La valutazione dovrebbe avvenire ogni quattro anni. Se non si rispettano certi limiti nell’attività didattica e nella produzione scientifica si revoca l’autorizzazione all’esercizio privato della professione. Se consideriamo una giornata di lavoro di 8 ore abbbiamo un tempo lavorativo annuo di 1500 ore. Se l’università ne chiede 500 di cui 120 “frontali”, rimane molto spazio per la ricerca e per il resto.

 

L’opposizione non cercherà di disturbare il varo della riforma?

  Ho incontrato i responsabili di Forza Italia, An e Ccd. Non ho avuto reazioni negative.

  E anche Angelo Panebianco sul Corriere un giorno la approverà? E’ per caso lui il capo dell’opposizione alla riforma? 

  Panebianco non è il capo dell’opposizione, è il capo della corporazione. E’ un ruolo trasversale, che attraversa destra e sinistra. Si veste di liberalismo e innovazione, ma la sua è una tipica posizione conservatrice e corporativa.

 

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