L’origine
del linguaggio
Tullio De Mauro con Sara Fortuna
Questa intervista fa parte
dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera
realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto
italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco,
del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del
Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Professor
De Mauro, la questione dell'origine del linguaggio ha occupato nella
storia del pensiero filosofico uno spazio significativo. Qual è il
significato teorico di questa riflessione?
Il
linguaggio, dal momento in cui ogni essere umano nasce, accompagna non
solo ogni istante della nostra vita di relazione con gli altri, ma
anche la dimensione della nostra interiorità. Esso accompagna i moti
della coscienza, degli affetti, del nostro pensiero e, come oggi
sappiamo bene, gli stessi nostri sogni notturni. Da questo punto di
vista il linguaggio sembra qualcosa di ovvio, di banale, di congenito,
come il respirare. Basta però volgere lo sguardo intorno, cosa
avvenuta assai per tempo nella storia della nostra tradizione
culturale e dell'umanità, per accorgersi che nel linguaggio c'è
qualche cosa di profondamente diverso dal respirare, dal camminare,
dal nutrirsi e che questa diversità è data dall’esistenza di un
grandissimo numero di lingue profondamente differenti tra di loro. E'
come dire che respiriamo tutti allo stesso modo, ma che poi il respiro
si realizza con nasi diversi.
Oggi sappiamo bene che le lingue sono profondamente diverse perché,
anche se con qualche problema, con strumenti di indagine accurati,
possiamo censirle una per una: attualmente, nel mondo, contiamo oltre
seimila lingue viventi. Ma questa proliferazione era evidente anche
nel passato e d’altro canto, si tratta di una diversità singolare,
perché non ha nulla a che fare con l'ambiente naturale in cui ci
troviamo. Possiamo, per esempio, parlare ai nostri connazionali
italiani che parlano qualche dialetto italiano in qualsiasi zona del
globo, dal Polo all'Equatore, ed è così anche per gli Eschimesi che,
anche se trasferiti altrove, continuano a parlare la loro lingua. Il
processo di diffusione delle lingue fuori dal luogo di origine
geografico, infatti, è un fenomeno noto e d'altra parte, in uno
stesso ambiente noi troviamo, coesistenti, lingue profondamente
diverse e così, per moltissima parte delle popolazioni umane, è una
pratica consueta avere a disposizione due, o talora tre lingue,
profondamente differenti tra di loro, usate nello stesso ambiente non
solo geografico, ma anche culturale e sociale.
In Italia, ancora oggi, è vero che l'80 e più per cento della
popolazione parla italiano, ma è anche vero che il 60 per cento della
popolazione continua a parlare uno dei nostri dialetti. Possiamo,
quindi, dire che metà della popolazione italiana è bilingue, perché
i dialetti spesso sono lontanissimi dall'italiano. Basta varcare il
confine italiano per trovare situazioni analoghe, per esempio, nella
Confederazione Elvetica, in Canada, o negli stessi Stati Uniti, dove
troviamo fenomeni di coesistenza linguistica. Insisto su questi fatti
ovvi perché per altre attività naturali come, per esempio, il
respirare, la diversità si riduce tutta a cause ambientali: si
respira in modo diverso in alta montagna che su un batiscafo in fondo
al mare. Nel caso delle lingue, invece, questa riduzione a cause
ambientali non c'è. Ed è questo che, da epoche remote, ha colpito
l'attenzione e la riflessione di chi ha osservato la pluralità di
lingue.
Perché per un linguaggio, per
una sola capacità umana di usare le parole, di intendersi e per farsi
intendere, ci sono tante lingue diverse?
Oggi conosciamo abbastanza bene la storia remota della scrittura e
dei rapporti tra popolazioni diverse nel vicino Oriente antico. E già
allora, nel terzo, nel secondo millennio avanti Cristo, in civiltà
che coltivavano con molta tolleranza i rapporti tra le popolazioni
della Mezza Luna fertile, dall'Egitto alla attuale Turchia, alla Valle
del Tigri e dell'Eufrate, alle sponde del Mediterraneo, era evidente
l'esistenza di una grande quantità di lingue diverse. A quell'epoca
una categoria sociale e professionale, gli scribi, avevano il compito
di tradurre sulle loro tavolette d'argilla le lettere commerciali o
diplomatiche, i trattati che si stringevano tra popoli di lingua
profondamente diversa. Le traduzioni erano, per esempio, tra lingue
come l'antico sumerico, che aveva una funzione simile a quella che il
latino ha avuto in età medievale, l'accadico, che era una lingua
semitica, l'ittito, che apparteneva invece alla famiglia indoeuropea,
molto diversa dalle prime due, e l'egiziano, che era ancora
differente.
Gli scribi che redigevano le lettere di un sovrano egiziano mandate a
sovrani ittiti, per esempio, in egiziano e in ittita, oppure in
egiziano o in sumerico, e che avevano il problema di costruire la
corrispondenza tra queste lingue diverse hanno certamente riflettuto
sulla diversità dei vocabolari e sulla diversità strutturale delle
lingue. Essi avvertivano quel che oggi avvertiamo anche noi, in modo
più sofisticato, dal punto di vista intellettuale, e cioè la
difficoltà di stabilire una corrispondenza precisa tra le lingue,
perché la loro diversità non sta solo nei differenti suoni delle
parole o dei silenzi grammaticali, ma è molto più profonda. Ci sono
categorie grammaticali che variano fortemente da una lingua all'altra,
che esistono in alcune lingue e non esistono in altre: noi indoeuropei
che parliamo italiano e che abbiamo studiato un po’ di latino, greco
e qualche lingua europea, per esempio, siamo portati a credere che la
distinzione tra nome e verbo sia una distinzione universale. Ci è
difficile, mediamente, riuscire a immaginare una lingua che non
organizzi in sostantivi e verbi le cose di cui vogliamo parlare.
Ebbene, molte lingue del mondo, le lingue amerindiane, cioè
dell'America pre-colombiana, del Nord e del Sud, le lingue africane,
in parte, ma anche il cinese nelle sue varietà, ignorano questa
distinzione. In queste lingue si parla per sostantivi o per verbi, se
si vuole, con una categoria indifferenziata. Questo dice quanto può
essere profonda la diversità tra le lingue. Differenze clamorose si
hanno, inoltre, nell'organizzazione del vocabolario. Gli scribi del
vicino Oriente antico avvertivano la problematicità del mettere in
corrispondenza due testi redatti in due lingue diverse, al punto che
avevano un dio semitico che si chiamava Nabu, ma che secondo gli
studiosi del Vicino Oriente antico, aveva un appellativo, «Sanikmitkursi»,
che voleva dire «controllore della corrispondenza». Era il dio della
correlazione tra le parole di lingue diverse, poiché agli occhi degli
scribi, soltanto un dio riusciva a risolvere felicemente il problema
di questa corrispondenza. E' da allora che noi sappiamo che la
diversità delle lingue è un fatto profondo e il perché le lingue
siano diverse, è stato sempre motivo di curiosità intellettuale.
Quale è la forma della lingua
più antica?
In un antico testo, nelle sue Storie Erodoto, che era un grande
osservatore della diversità dei costumi tra i popoli ed era convinto
della grande importanza della diversità delle lingue nel costituirsi
delle differenze tra i popoli e le nazioni e le culture, racconta di
esperimenti un po' ingenui, come quello condotto da un faraone, che
avrebbe preso due poveri bambini e li avrebbe nutriti, nei primi
giorni e nelle prime settimane di vita, al di fuori di ogni contatto
con esseri umani. L'obiettivo del faraone era vedere se questi bambini
sarebbero riusciti a parlare e quale lingua avrebbero parlato. Sempre
nel racconto di Erodoto, i bambini, a un certo punto, avrebbero
cominciato a dire la parola «becos», che in frigio, una lingua
dell'Oriente antico, una delle tante dell'attuale Turchia, vuole dire
«pane», cioè «cibo», «alimento». Questo, quindi, avrebbe
consentito al faraone di stabilire in modo incontrovertibile che il
frigio era la lingua primigenia dell'umanità. Come si vede, dunque,
cercare di capire perché le lingue sono diverse e quale sia la loro
origine è un problema antico, più antico della stessa cultura greca
da cui noi traiamo tanta parte dell’ossatura, dello scheletro
profondo delle nostre costruzioni intellettuali e filosofiche. Questo
problema è stato avvertito nella storia della cultura classica, ma
non ha avuto sempre soluzioni felici.
Professor De Mauro, quali
pensatori, nella storia della cultura classica occidentale, hanno
cercato di dare una risposta alla questione dell’origine e della
diversità dei linguaggi umani?
Un momento alto della conoscenza dell’origine e della diversità
delle lingue è rappresentato dall'epicureismo. Il fatto che le lingue
siano profondamente diverse le une dalle altre è una prova per gli
Epicurei del fatto che l'impalcatura della nostra vita intellettuale,
ma anche culturale, non dipende da una legge unica universale, ma si
costruisce nel tempo su vie e con modalità diverse, a seconda delle
necessità, delle contingenze di tipo storico che le diverse
popolazioni, nelle diverse epoche, hanno sperimentato nei diversi
ambienti del mondo. La diversità delle lingue è la prova più
convincente del fatto che ciò che chiamiamo scienza, che chiamiamo
ragione, si costruisce in modo diverso a seconda delle diverse epoche.
Dal riconoscimento di questa pluralità, Epicuro, Lucrezio e tutta la
tradizione epicurea sono spinti a porsi il problema di quali siano
stati i primi passi degli esseri umani nella costruzione di una
lingua.
Molti di noi, oggi, sono abbastanza d'accordo nell'affermare che una
lingua non nasce dall'esterno, ma che siamo noi a costruirla come
parte profonda della nostra vita biologica e culturale. Un poeta
latino epicureo, il grande Lucrezio, nel suo De rerum natura, a
proposito dell'origine del linguaggio, parla di «inòpia», cioè di
«stato di necessità». Per Lucrezio, infatti, sono i bisogni, e la
povertà di mezzi, di cui disponiamo per controllare l'ambiente e per
interagire tra di noi, che ci spinge a foggiare parole e frasi. Nelle
diverse epoche e nei diversi luoghi questo lavoro di costruzione del
linguaggio avviene ricominciando ogni volta da capo e la stessa
creazione delle parole e delle frasi ci aiuta a stabilire i rapporti
con le cose del mondo e tra di noi e con la nostra stessa vita
psicologica e mentale. Questa dottrina rimane depositata nei libri
degli epicurei per molto tempo.
Non è, infatti, una dottrina gradita all’establishment
intellettuale e politico del mondo antico e del mondo medioevale. Se
le lingue, nella loro diversità e nel loro nascere da una povertà di
mezzi, profondamente radicata nella vita spontanea degli esseri umani,
sono la prova migliore della inesistenza di una legge morale unica, di
una ragione unica, anche la vita civile, intendo dire la vita degli
Stati, delle «res publicae», va regolata liberamente, in modo, di
volta in volta, diverso. Giudici di questa diversità sono gli insiemi
di esseri umani, nella loro totalità. Questo, quindi, aveva come
conseguenza estrema, per esempio, negare che maschi e femmine fossero
di rango diverso. Essi inoltre negavano che schiavi, liberti e liberi,
fossero diversi e quindi, affermavano la parità degli esseri umani,
creando così un ulteriore scandalo, denso di conseguenze politiche,
nelle relazioni interne degli stati e nelle relazioni internazionali.
In definitiva, affermare la diversità delle lingue significava negare
che potesse esserci una qualche autorità unica tale da imporsi a
esseri umani gerarchizzati in categorie differenti. Le conseguenze
della questione, apparentemente innocente, dell'origine delle lingue,
riservava delle conseguenze molto
rilevanti per l'etica e per la stessa politica. Si capisce, quindi, il
lungo accanimento,
protrattosi fino al Settecento, contro gli epicurei accusati di essere
immorali,
di essere dei sovversivi, tanto che i loro testi erano censurati, non
potevano essere citati e non se ne poteva nemmeno parlare.
Un giovane studioso, Stefano Gensini, ha mostrato come Leibniz abbia
fatto propri i testi epicurei, riportandone puntualmente le parole e
le tesi, senza che il nome di Epicuro e di Lucrezio comparisse mai.
Siamo nell'Europa colta, alle soglie del secolo dei Lumi, in un'Europa
libera, in cui coesistono ormai religioni diverse, in cui Keplero,
Galilei, Newton hanno avviato ormai lo sviluppo delle scienze moderne,
ma il tabù antiepicureo ancora resiste. E' chiaro, già nell'Europa
del Settecento, che le lingue hanno tutte le ragioni di essere
profondamente diverse le une dalle altre. Sono frutto di «inòpia»,
di un'attività che gli esseri umani hanno compiuto in modi
ineluttabilmente diversi, a seconda delle diverse epoche e dei diversi
luoghi. La riflessione sulla natura del linguaggio, condotta senza
mettere da parte la diversità delle lingue, diventa un motivo
conduttore delle grandi filosofie europee dal tardo Seicento fino alle
soglie del secolo XIX.
Professor De Mauro,
nell'Ottocento, con il costituirsi della linguistica scientifica, il
tema dell'origine del linguaggio diventa ricerca empirica di
un'ipotetica lingua madre che si cerca di ricostruire sulla base di
determinate ipotesi genealogiche. Che valore è possibile attribuire a
questo genere di ricerche?
Sulla spinta delle grandi filosofie europee del tardo Seicento e del
Settecento, ci si attrezza nei gruppi intellettuali europei, dalla
Gran Bretagna all'Italia, alla Germania, per studiare scientificamente
le diverse lingue. Naturalmente ci sono spinte, socialmente molto
profonde, che vanno anche in questa direzione e sostengono questi
studi: in termini moderni diremmo che li «sponsorizzano». Queste
spinte sono dovute all'allargarsi dei commerci, ai processi di
colonizzazione che portano al bisogno di studiare lingue tra di loro
lontane, per consentire lo stabilirsi di relazioni, sia commerciali
sia coloniali. Una spinta prepotente e molto importante è il
missionarismo cattolico e protestante che porta i sacerdoti delle
varie confessioni cristiane a spingersi in tutto il mondo e a cercare
quindi di capire le lingue dei diversi popoli.
Si ha conferma dell'esistenza di profonde diversità tra le lingue, ma
nello stesso tempo affiora, per la prima volta, il motivo
dell’esistenza di un'affinità tra le lingue. Si scopre e si
comincia a documentare che lingue molto lontane tra di loro, come
quelle parlate in Europa da latini, greci, germani e l'antico gotico,
hanno tra di loro alcune affinità. Per esempio: i nomi di numero sono
espressi da parole e da suoni relativamente simili, come nel caso del
verbo «essere» o parole come «padre» o «madre». E ci si accorge
che questi nuclei di concordanza si estendono a una lingua molto
lontana dall'Europa, il sanscrito, la lingua religiosa dell'India
antica medievale e moderna. Si aprono allora nuovi orizzonti, si
comincia cioè a capire quello che Dante Alighieri aveva già
intravisto e in parte detto nel De vulgari eloquentia: che il modello
latino-lingue romanze doveva avere funzionato più largamente nella
storia dell'umanità. Dante vede e mostra come da un'unica tradizione
latina, quindi da una tradizione linguistica fortemente unitaria,
attraverso i secoli siano derivate lingue molto diverse dal latino e
molto diverse tra di loro, come l'italiano e i dialetti italiani, i
dialetti francesi, i dialetti provenzali, quelli iberici della Spagna.
Può parlarci dello sviluppo
della linguistica nel Settecento?
Nel Settecento si fa l'ipotesi che ciò che è avvenuto nella storia
del latino e delle lingue romanze possa essere avvenuto anche in altre
epoche e in altri luoghi e cioè che la immensa diversità delle
lingue, si possa in parte ridurre, contenere, postulando che ci siano
lingue madri, come il latino per le lingue romanze, capostipiti delle
diverse lingue esistenti nel mondo. Ciò, dunque, non cancella la
diversità. Leibniz è uno dei primi a offrirci dei cataloghi
sistematici, abbastanza ben fatti per l'epoca, di questi
raggruppamenti di lingue a seconda dei gradi di omogeneità che le
legano e, quindi, a seconda delle ipotetiche lingue madri diverse. E',
soprattutto, la grande famiglia linguistica indoeuropea a essere
esplorata sistematicamente tra fine Settecento e inizi dell'Ottocento.
E' chiaro che per lingue pur lontanissime tra di loro nel tempo e
nello spazio, nelle culture, è ragionevole postulare la discendenza
da un unico ceppo originario, da un'unica lingua, quella che verrà
chiamata prima indogermanico e poi indoeuropeo o, in una parte della
tradizione italiana, arioeuropeo. Sono le lingue celtiche, le
germaniche, il latino, il greco a cui oggi si sono aggiunti l'ittito,
l'iranico, cioè il persiano, il sanscrito e le altre lingue
dell'India, le lingue slave e le lingue parlate sul Baltico, come il
lituano.
Anche qui c'è una piccola carica eversiva, rispetto all'assetto
tradizionale degli studi, che peserà sulle fortune o sulle sfortune
della linguistica. Per esempio, non è un caso che gli studi di
linguistica comparata indoeuropea fioriscano anzitutto in Germania e
in Gran Bretagna e con più difficoltà nei paesi latini e soprattutto
in Italia. L'Italia arriva in ritardo perché, sotterraneamente, il
grande greco, il nobile latino, non sono altro che rami di un tronco a
cui appartengono idiomi di popolazioni barbare: i Teutoni, i Cimbri,
gli Slavi. Questo significa evidentemente dare una prospettiva di
enorme interesse scientifico agli studi tradizionali di impianto
classicistico, gettare luce sulle origini del latino, del greco, sulla
loro struttura, ma nello stesso tempo anche scalzare gli studi
classicistici latini e greci da una posizione di predominio assoluto e
incontrastato.
Giungevano i linguisti tedeschi ad avvertire che se si voleva capire
come si era formato il latino si doveva studiare lo slavo, il lituano,
il germanico antico, il gotico, considerato, quest'ultimo, sinonimo di
barbarie. Sostenevano che bisognava andare in India, a studiare urdu,
indi, armeno, lingue di poveracci e tutto questo rappresentava un
attentato all'ordine costituito. Tuttavia la linguistica si diffonde,
fa il suo lavoro, si individuano le grandi famiglie di lingue, quella
indoeuropea, la semitica. Anche da qui possiamo capire gli attriti che
ne derivano: ebraico e arabo rivelano la loro radice comune, e anche
questo è un attentato all'ordine costituito. Ciò significava
spiegare a tutta la tradizione talmudica, ebraica, convinta di un
primato assoluto dell'ebraico, cosa che sulla carta era sottoscritta
anche «pro bono pacis» nella tradizione cristiana, che l'ebraico era
geneticamente affine alla lingua dei maomettani, degli arabi e delle
popolazioni nomadi del deserto.
D'altra parte ciò significava anche, naturalmente, spiegare al mondo
arabo che le sue radici erano linguisticamente e culturalmente le
stesse di quelle del mondo ebraico. Si costruiscono comunque queste
famiglie di lingue in un modo che ormai noi accettiamo, che è, come
dire, passato «in giudicato». Conosciamo decine e decine di famiglie
linguistiche che in qualche modo riducono la grande diversità delle
seimila e più lingue nel mondo ma, nello stesso tempo, per quanto ci
consentono di risalire indietro nella storia, ricostruendo
ipoteticamente la fisionomia delle lingue madri, ci riconfermano che
esistono lingue madri profondamente diverse tra loro e quindi, ci
confermano la diversità delle lingue.
Di che cosa si occupa la
linguistica dell’Ottocento?
Nell’Ottocento ci si rende conto che si può ricostruire in modo
ipotetico e attendibile spezzoni della fisionomia delle lingue madri
parlate in epoca remota dagli esseri umani; ma «al di là di questo»
non si può andare, per mancanza di documenti. Al li là di questo, ai
tempi di Vico e di Leibniz, significava alcune migliaia di anni, perché
non si deve dimenticare che la nostra attuale prospettiva cronologica
è profondamente mutata rispetto a quella del Settecento. Naturalmente
Vico e Leibniz sospettano che la storia del genere umano sia una
storia non riducibile alle poche migliaia di anni della cronologia
biblica e diluviana, ma non hanno ancora buone prove. C'è
un'intuizione: Vico parla di «sterminate antichità» che precedono
l'affiorare dei primi e più antichi documenti scritti, ma quanto
fossero «sterminate» queste «antichità» non si sapeva.
L'esplorazione nel tempo, all'indietro, per ricostruire la storia
degli esseri umani e l'esplorazione dei tempi geologici di formazione
delle prime culture umane comincia in modo serio soltanto dalla fine
del Settecento e dell'Ottocento e continua tuttora.
L'esplorazione all'indietro del tempo ha riportato al milione di anni,
ancora più indietro, sembrerebbe ormai, a due milioni di anni, la
apparizione dei primi resti di esseri che non sono più scimpanzé, ma
sono già «homines erecti», «homines habiles», capaci di usare le
mani. Gli «erecti» erano scesi dagli alberi, gli «habiles» avevano
imparato a usare le mani per costruire altri strumenti, per risolvere
i loro problemi, e poi, fino agli «homines sapientes», che sono gli
ultimi nati, ma che contano almeno duecentomila anni. Questo
allungarsi, diciamo, della prospettiva cronologica all'indietro, ha
reso sempre più patetico l'ideale che qualcuno ha continuato a
coltivare di partire dalle diverse lingue madri, dall'indoeuropeo, dal
semitico, dall'amerindiano, dal luvraloaltaico, dalla lingua madre
dell'immensa quantità di lingue che si parlano in Asia, per andare
ancora più indietro, a ricostruire le madri delle lingue madri, fino
a arrivare alla lingua primigenia.
Si tratta di una questione patetica perché veramente non abbiamo
possibilità di sapere che cosa è successo tra il duecentomila avanti
Cristo e il due-tremila avanti Cristo. Non abbiamo documenti scritti,
poiché le scritture cominciano ad affacciarsi nel mondo mediterraneo,
in Cina, pochi millenni prima di Cristo, e prima non c'è nulla. Dalla
storia documentata delle lingue sappiamo che esse nascono e muoiono e
non abbiamo ragioni di sospettare quali lingue possono essere state
parlate negli almeno duecentomila anni che separano le origini più
sicure dell'«homo sapiens» dalla prima documentazione scritta.
Quindi questi tentativi di ricostruire, un po' come il faraone antico,
la forma delle lingue primigenie, vengono considerati, dagli studiosi
seri, a partire dalla prima metà dell'Ottocento, dei tentativi
ridicoli, come quelli che il delirio scientifico e la curiosità
spinge a fare quando cerchiamo di risolvere il moto perpetuo o la
quadratura del cerchio. Nonostante, comunque, questi tentativi
continuino ad esserci ricorrentemente, il tema «origine del
linguaggio» sembra a questo punto destinato a morte scientifica
sicura, resta in mano a dilettanti, di cui qualcuno geniale. I
linguisti seri, però, studiano la storia delle lingue morte e la loro
comparazione, il grado di affinità tra i gruppi linguistici, si
occupano di ricostruire con cura sempre maggiore la forma delle lingue
madri e non più delle origini del linguaggio nel senso di origini
della ricostruzione della forma delle proto-lingue.
Certamente il tema delle origini del linguaggio, inteso come
ricostruzione della forma della ipotetica, o delle ipotetiche, lingue
primigenie del genere umano cade sotto i colpi dei linguisti
professionisti, dei glottologi, che spiegano che non si può risalire
in modo attendibile così indietro nel tempo e constatano quindi, la
ineluttabilità della registrazione della profonda diversità tra i
gruppi linguistici. Nello stesso tempo una parte delle filosofie
dominanti svalutano il tema stesso delle origini, da Humboldt a
Benedetto Croce si sente ripetere che è inutile occuparsi del
problema delle origini del linguaggio, perché questo problema si
risolve studiando come funziona nell’attualità. La cosa
interessante è capire che ruolo ha il linguaggio nella vita dello
spirito umano. Quindi all'ostracismo professionale dei linguisti si
aggiunge anche una messa in mora filosofica.
Professor De Mauro, il
linguaggio è considerato da sempre un privilegio riservato all'uomo.
Come cambia quest'idea nell'evoluzione degli studi contemporanei?
Dagli anni Trenta, studiosi diversi hanno cominciato a scoprire che il
mondo della comunicazione è più vasto di quello degli esseri umani;
forme di comunicazione, molto sofisticate, esistono tra i mammiferi
acquatici. Dai primi lavori classici di Von Frisch, condotti sulle
api, un po' alla volta è nata una disciplina nuova, la «zoosemiotica»,
cioè lo studio sistematico dei modi di comunicazione per simboli e
per segni propri di specie animali diverse dal genere umano. Questi
studi si sono ormai allargati a tutte le specie, e gli sviluppi della
biologia molecolare ci hanno portato, negli ultimi quindici anni, fino
alle estreme frontiere della genetica. Sappiamo che forme rudimentali
di interazione comunicativa si trovano anche in piccoli organismi
unicellulari, in quelli archeozoi e protozoi da cui è cominciata la
storia della vita sulla terra. Sembrerebbe oggi sempre di più che non
solo, come diceva Wittgenstein, un linguaggio è una forma di vita, ma
che il linguaggio sia la forma della vita: là dove c'è qualcosa che
vive, c'è qualcosa che comunica. E questo va detto non «en
philosophe» soltanto, ma anche da freddo naturalista, se così si può
dire.
Questo è uno scossone che porta a chiedersi se le forme di linguaggio
degli esseri umani abbiano qualcosa a che fare con le forme di
linguaggio degli altri animali, quali siano le loro affinità e le
loro diversità. Aristotele, Leibniz, Hegel, ma anche, recentemente,
linguisti come Emile Benveniste e filosofi come Wittgenstein ci dicono
cose fondamentali sul linguaggio, ma manca alla loro riflessione
sistematica un blocco di fatti immane costituito da tutto ciò che
oggi sappiamo sul vivere e sul comunicare in tutto l'orizzonte del
vivente. Quello che noi chiamiamo, per eccellenza, linguaggio, non è
che una variante delle forme di comunicazione, il che non significa
che sia riducibile alle altre, ma ci pone un problema di comprensione
di ciò che è continuo e discontinuo nell'emergere del linguaggio non
solo come categoria, ma anche nel tempo, nella storia delle specie.
L'altro scossone è venuto dall'allargarsi del nostro orizzonte
conoscitivo per quanto riguarda le forme di comunicazione che l'essere
umano gestisce e che sono diverse dal linguaggio verbale,
grammaticalizzato. L'importanza di questo aspetto era stata compresa
bene da Wittgenstein che aveva capito che c'era un problema di
specificità tra il linguaggio fatto di parole parlate e scritte e le
altre forme di interazione comunicativa. In tanti casi il gesto, la
postura del corpo o l’abbigliamento sostituiscono completamente la
formulazione verbale. A sostituire il linguaggio verbale ci sono anche
forme più alte di comunicazione come i linguaggi matematici e i
linguaggi simbolici che noi abbiamo creato a partire dalle lingue. Ci
si è chiesto che rapporto c'è tra il mondo linguistico umano che
ormai ci appare non più fatto solo di parole e di lingue, ma di
codici di comunicazione diversi, e il mondo della comunicazione delle
altre specie animali.
Se le nostre unghie, i nostri capelli, il nostro sangue, il nostro
scheletro, il nostro DNA, il nostro patrimonio genetico, si riportano
a momenti diversi della scala evolutiva, abbiamo a che fare, diciamo,
nella loro genesi, in modo ipotetico, ma ben documentato, con tappe
successive della scala evolutiva. Ci si è chiesti se solo il
linguaggio fosse un «unicum», un'Afrodite che sorge all'improvviso
dalle spume del mare o, piuttosto, una Minerva, che esce tutta armata,
grande e grossa, dal cervello di Giove, o se non avesse anch'esso una
sua preistoria evolutiva, ricostruibile, documentabile, interessante
tanto da aiutarci a comprendere la sua struttura.
Così la discussione sull'origine del linguaggio è ripresa negli anni
Cinquanta-Sessanta, un po' in sordina, fino a diventare di nuovo un
tema di grande interesse scientifico. A questo punto, però, si
trattava di capire e di ricostruire, se possibile, attraverso la
comparazione con le forme di comunicazione delle altre specie viventi,
quali fossero state le tappe attraverso cui il linguaggio si era
formato. Quindi in questa prospettiva anche la questione del momento
in cui gli «homines habiles» abbiano cominciato a parlare diventa
una questione interessante da discutere. La domanda era dunque mutata:
si trattava di stabilire quando nella storia del genere umano si
fossero accumulate le condizioni, i prerequisiti necessari al parlare.
Professor De Mauro, è
possibile, a Suo avviso, dare una spiegazione genetica, teoreticamente
convincente, della costituzione del linguaggio verbale sulla base
delle componenti che ne regolano, comunque, il funzionamento?
Credo che la domanda che oggi ci poniamo, e cioè quella del come gli
«homines» abbiano cominciato a parlare, si risolva nella domanda
dell'accumulo di prerequisiti necessari al parlare. Questo è molto
interessante e importante per capire, per connettersi alla discussione
teorica su ciò che è struttura necessaria e ciò che, invece, è
struttura contingente, oggi, nell'uso di una lingua. Il dibattito, da
questo punto di vista, è molto acceso. Alcuni studiosi, soprattutto
Liebermann, insistono molto sui prerequisiti di tipo anatomico e
neurologico. Secondo Liebermann bisogna avere una struttura pienamente
eretta perché si abbassi la laringe e questo ci permetta di avere il
controllo di suoni così diversificati come quelli che sono presenti
effettivamente e non accidentalmente nelle lingue. Abbiamo bisogno
anche di una sottile possibilità di differenziare i suoni per potere
costruire decine e decine di migliaia di parole, sottilmente diverse
tra di loro, ma fatte degli stessi elementi.
Contemporaneamente c'è un correlato neurologico, quello del controllo
della produzione di questi suoni, sottilmente diversi tra di loro.
Infatti, è molto piccola la differenza tra una «a», una «e», una
«i», una «u», ed è perciò necessario avere un apparato nervoso
che consenta la produzione e la discriminazione acustica di questi
suoni. Quindi la forma della calotta cranica, ricostruibile
paleontologicamente, è molto importante per capire quando queste
condizioni si sono create. Liebermann ipotizza una datazione molto
bassa dell'origine della capacità linguistica che lo porta a
concludere che, forse, neanche gli uomini di Neanderthal, così simili
a noi e già con una vita sociale molto sviluppata, parlavano una
lingua analoga alla nostra, alle nostre: siamo a cinquantamila anni,
l'«homo sapiens» avrebbe imparato solo a tre quarti della sua storia
a parlare.
Altri studiosi, come Leroi-Gourhan, ragionano in termini diversi,
sostenendo che nel vedere i reperti di un milione e mezzo di anni fa
ci si accorge che questi ominidi sono capaci di andare a cercare
materie prime in terre lontane per formare degli strumenti che servono
loro per costruire altri strumenti con i quali costruire ancora altri
strumenti per ottenere cibo e per difendersi. Quando ci si accorge che
c'è una struttura sociale, fondata sul lavoro e quindi, sull'uso
razionale delle mani, ci si trova di fronte a dei quadri culturali che
ci fanno pensare che questi esseri già in qualche modo dovessero
disporre di quella forma di vita comunicativa così complessa che è
l'uso di una lingua storico-naturale. Essi retrodatano, quindi,
fortemente l'origine del linguaggio, da cinquantamila a un milione e
mezzo di anni fa.
Dove sta la verità delle ipotesi? E' molto difficile da dire. Alcuni
di noi fanno un ragionamento semplice e dicono che le parole delle
lingue hanno e non hanno altri codici, hanno cioè la possibilità di
trasferire il significato delle parole, di allargarne i confini a
seconda delle necessità, riferendosi alla indeterminatezza semantica
che, accanto alla ricchezza del patrimonio lessicale e sintattico è
la proprietà chiave delle lingue. Questa proprietà non poteva non
essere sfruttata nel momento in cui il lavoro di trasformazione
dell'ambiente passava, per esempio, attraverso le tecniche di cottura
del cibo, che è il momento in cui si usa il fuoco razionalmente, in
modo programmato. Siamo così a trecentomila anni fa, nell'Asia
Orientale, in Cina, siamo all'«homo pechinensis», nel momento in cui
si comincia a cuocere il cibo.
In quel momento l'essere umano deve avere cominciato a fare
quell'operazione che noi facciamo quando per comprare della carne di
vitello diciamo: «Comprami del vitello», oppure diciamo: «Oggi ho
mangiato maiale», intendendo dire: «Ho mangiato della carne di
maiale cotta». Ma «maiale» vuole anche dire «carne cruda di maiale»,
o anche il povero simpatico suino che grufola per nutrirsi e per
vivere. La stessa parola, ha dovuto imparare a dilatare i suoi
significati; gli essere umani hanno dovuto imparare a possedere un
sistema simbolico, ricco di indeterminatezza semantica e di possibili
determinazioni su vie diverse. E, quindi, altri ancora pensano che
trecentomila anni sia una buona datazione intermedia ma, al di là di
questo, il grande interesse è l'esplorazione in termini
genetico-evolutivi delle precondizioni che reggono e regolano la vita
del linguaggio verbale in rapporto alle altre forme di comunicazione
dell'intero mondo vivente.
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