Stretto di Fuga
Josè Luis Sànchez-Martìn
Nel 1829 il ventenne compositore Felix Mendelssonhn-Bartholdy
presentava a Berlino, in una edizione rimaneggiata e a distanza di
cento anni dalla sua prima esecuzione, una delle opere fondamentali di
un compositore tedesco ormai dimenticato, o per meglio dire rimasto
praticamente sconosciuto fino a quel momento pur nella sua
incommensurabile grandezza: si trattava della "Passione secondo
Matteo" di Johann Sebastian Bach, morto 79 anni prima a Lipsia,
esattamente 250 anni fa.
Paradossalmente, quello che per molti è il più grande compositore di
tutti i tempi, non fu apprezzato in quanto tale in vita e riscosse un
certo successo soltanto come raffinato organista. E' soltanto da
quella esecuzione della Passione che il mondo della musica scopre
Bach. "Immediatamente si produsse una reazione a catena; nel 1850
si diede vita ad una 'Società Bach' (e fra i fondatori vi fu Schumann),
che l'anno seguente iniziò la pubblicazione degli opera omnia del
maestro", racconta Alberto Basso nel suo "L'età di Bach e
Haendel". Nel corso del XVIII secolo, Bach era nato nel 1685 a
Eisenach, la sua musica fu considerata, in genere, troppo elaborata e
antiquata rispetto ai nuovi modelli formali ed espressivi proposti,
fra gli altri, dal più noto dei suoi figli, Carl Philipp Emanuel. A
questo bisogna sommare il fatto che gran parte della sua musica fu
scritta per uso locale o personale.
La riscoperta dell'immenso corpus dell'opera di Bach, che copre
praticamente ogni genere a eccezione del melodramma, riportò in luce
una forma musicale in cui esso eccelse e che da lui fu portata ai
massimi livelli di complessità e bellezza: la fuga. In particolare ci
ha lasciato due raccolte in cui la fuga raggiunge vette di cristallina
architettura mistica mai più avvicinabili da altri compositori: i due
libri di "Il Clavicembalo ben temperato" e l'opera postuma
rimasta incompiuta "L'Arte della Fuga", come dice Raffaele
Mellace, "un'opera avvolta dalla legenda come poche altre nella
storia della musica".
Tra le forme musicali contrappuntistiche, cioè basate sull'arte di
sovrapporre due o più linee melodiche, la fuga è una delle più
importanti e complesse della storia della polifonia occidentale. Usato
per indicare composizioni basate sull'imitazione e specificamente sul
canone, il termine fuga, dalla metà del '600 in poi, indica una forma
musicale che era caratterizzata innanzitutto dalla destinazione
strumentale (successivamente anche alle voci cantate) e da un rigoroso
monotematismo (adozione di un unico tema chiamato soggetto), oltre che
da norme tecniche particolari che emanciparono la fuga dalla modalità
e la vincolarono inscindibilmente alla tonalità.
Benchè dal punto di vista strutturale sia di una grande complessità,
semplificando si può dire che si articola in tre momenti principali:
quello dell'esposizione tematica, quello dello svolgimento e quello
riassuntivo chiamato stretto. Nell'esposizione, le singoli voci (cioè
le parti strumentali o vocali, che sono due o più, normalmente tre o
quattro) intervengono una dopo l'altra subentrando con il tema appena
la precedente ha finito di intonarlo. Lo svolgimento è costituito da
parti chiamate divertimenti, costruiti liberamente secondo i
molteplici procedimenti propri dell'imitazione, alternate a parti
chiamate riesposizioni, in cui si ripresenta in diverse tonalità il
gioco imitativo tra soggetto e risposta dell'esposizione iniziale.
Infine, il termine stretto designa globalmente la parte finale della
fuga, in cui le voci subentrano una a ridosso dell'altra a distanza
ogni volta più ravvicinata, senza attendere che la precedente abbia
concluso l'intero tema.
Negli ultimi anni della sua vita, i dissidi di Bach con le istituzioni
per cui lavorava, La Chiesa e la Scuola di San Tommaso, l'Università
e la Municipalità di Lipsia, sono ben noti. Non potendo trovare un
impiego adeguato altrove, dopo l'imponente ciclo delle opere
liturgiche, tra cui le 250 Cantate Sacre e le Passioni, egli rivolse
quindi il suo reale interesse e la sua ricerca verso direttrici
diverse. Raffaele Mellace ci informa che "in quegli anni va
collocato l'ingresso di Bach nella "Società per corrispondenza
delle Scienze Musicali", fondata nel 1738 dall'allievo Lorenz
Christoph Mizler con l'intento di promuovere un'attività di ricerca e
scambio scientifico tra i membri, necessariamente di comprovata
competenza matematica e filosofica (d'altra parte, già nel sistema
del sapere medievale la musica apparteneva, insieme ad aritmetica,
geometria e astronomia, al Quadrivium, ovvero al versante scientifico
dello scibile, in quanto studio della cosmica musica mundana, la
musica delle sfere, ben più rilevante dei maldestri suoni prodotti
dagli strumenti umani)."
Poichè era consentito ai musicisti di sostituire la dissertazione
annuale obbligatoria con una propria composizione, Bach presentò alla
Società nel 1747 le "Variazioni canoniche sull'inno di Natale
BWV 769", l'anno successivo presentò il capolavoro
"L'Offerta Musicale BWV 1079" e avrebbe dovuto presentare
nel 1749 "L'Arte della Fuga", compito che però non venne
mai completato dal compositore. Su quest'ultima opera, rimasta a
livello teorico, incompleta e senza orchestrazione o segnalazione di
strumenti, continua Mellace: "E' dunque a un ambito di musica
pura, reservata, (resa esoterica anche dalla simbologia
numerico/musicale), destinata a risuonare nell'intelletto più che
all'orecchio, che occorre riferire l'origine dell'Arte della Fuga.
(...) Il progetto bachiano consiste nell'applicazione del principio
della variazione a un unico tema dato esposto in apertura. Da questo
Bach deriva una straordinaria galleria delle possibilità del
contrappunto (più ancora che non una ricerca specifica sulla fuga
come forma) in un processo complesso, che, coniugando fantasia
debordante e alta sapienza tecnica, si ripropone di esaurire le
potenzialità più recondite di quella breve sequenza di note che è
il tema fondamentale attraverso gli artifici ereditati dalla
tradizione fiamminga del XV-XVI secolo, da Palestrina e dalla
tradizione barocca, fino alla forma della fuga: organizzazione suprema
del materiale sonoro secondo gli intenti dell'artista/scienzato che
applica l'ars, conoscenza delle severe regole della forma."
Capolavoro della forma quindi ("punto massimo dell'arte della
composizione astratta e architettonica" lo ha definito Edwin
Fischer), ma a sua volta rimasto "aperto" a qualunque
interpretazione o "riformulazione", L'Arte della Fuga è
stato a lungo luogo di discussione, essendo trascritto e orchestrato
nelle più disparate interpretazioni. Possiamo citare, tra decine e
decine, la versione per solo piano e solo organo del geniale e
bizzarro pianista Glenn Gould, quella "classica" e
tendenzialmente filologica con strumenti d'epoca di Reinhard Goebel,
accompagnato dall'ensemble "Musica Antiqua Koln" e quella
disinvolta e variegata della violinista Cinzia Barbagelata con
l'Ensemble Aglaia, ma anche quella gradevolissima per quartetto di
flauti dolci del "Amsterdam Loeki Stardust Quartet", oppure
quella per uno strumento che addirittura non essisteva ai tempi di
Bach: la versione sorprendente e affascinantemente misteriosa per
quartetto di sassofoni del "Berliner Saxophon Quartett".
Recentemente ci si è cimentato anche il compositore contemporaneo
italiano Michelangelo Lupone, noto a livello internazionale come
esperto di composizione elettronica e informatica musicale, scrittore
di vari saggi teorici sul tema e compositore di brani eseguiti in
tutta Europa, che gli sono valsi il riconoscimento internazionale 1992
della Japan Foundation, trasferendosi quindi in Giappone dove ha
presentato concerti e conferenze presso importanti istituzioni
musicali e universitarie. Tra le sue tante opere vale la pena citare,
per la notorietà del committente, "Corda di metallo" del
1997, scritta per il famosissimo Kronos Quartet. La trascrizione
dell'Arte della Fuga di Lupone prsenta brani orchestrati con strumenti
tradizionali, molto originali grazie a una particolare timbrica basata
sul forte contrasto tra l'acuto dei violini e il grave dei
violoncelli, ma anche ad accorgimenti inconsueti per la musica di Bach
come l'uso del "pizzicato", alternati a brani profondamente
rielaborati elettronicamente (arrivando a volte a diventare quasi dei
"rumori" musicali) che diventano così parte del territorio
della musica contemporanea.
A questo proposito, Lupone spiega: "L'Arte della Fuga ci è
donata da Bach in forma teorica e proprio questo lascia uno spazio
alla invenzione dell'orchestratore. Il contrappunto da me esplorato
non intende proporre una chiave di lettura filologica, anzi estrapola
gli elementi estremi delle sovrapposizioni melodiche per connotare
alcuni aspetti armonici, ritmici e architetturali, fortemente
innovativi per il pensiero musicale del 700. Le idee musicali che sono
emerse dalla trascrizione-orchestrazione sono poi state esplose in una
successiva elaborazione, dove il contrappunto, ridotto ad alcuni
principi essenziali, si sviluppa in una concezione formale, timbrica e
ritmica totalmente nuova. Ogni elaborazione infatti trova origine
nella preminenza di alcuni elementi presenti nella
trascrizione-orchestrazione, ma ne sviluppa i tratti formali e
acustici attraverso l'estensione del principio contrappuntistico ai
concetti di massa sonora, moti di eccitazione e risonanza degli
strumenti, distorsioni e trasformazioni timbriche."
Sulle note e suggestioni di questa particolare rielaborazione
dell'opera di Bach, il danzatore coreografo Massimo Moricone, con la
sua compagnia Teatro Koros, ha recentemente costruito il suo ultimo
spettacolo, "Stretto di Fuga", presentato qualche giorno fa
al Teatro Vascello di Roma in prima nazionale, per poi partire in una
tournée internazionale che toccherà per prima Città del Messico,
ospite dell'Instituto Nacional de Bellas Artes e dell'Istituto
Italiano di Cultura. Moricone ha fondato la compagnia Teatro Koros nel
1983, al suo ritorno da un lunghissimo viaggio che lo ha visto
studente di danza contemporanea e balletto a Bruxelles, Londra, Parigi
e Cannes. Da allora la sua presenza nel panorama della danza
contemporanea in Italia è costante e oltre a produrre numerosi
spettacoli per la propria compagnia, viene chiamato a creare
coreografie per importanti istituzioni italiane come L'Aterballetto,
il Balletto di Toscana e le compagnie di balletto del
Teatro La Scala di Milano, del Teatro San Carlo di Napoli, dell'Arena
di Verona e del Teatro dell'Opera di Roma, dove attualmente insegna
alla scuola di danza, ma anche all'estero per compagnie come lo
Scottish Ballet, il Nothern Ballet Theatre, il Malmo Balletten
(Svezia) e il Ballet Nacional de Cuba. Questa sua articolata attività
gli è valsa il "1er Prix Concours International de Chorégraphie
de Nyon" (1984), il "Prix de l'Université de la Danse de
Paris" (1984), il "Premio Vignale Danza" (1990) e il
"Premio Osimo Danza" (1992) e lo ha portato in tounée con
la sua compagnia in numerose città europee, nonchè in India e Cuba.
Le tematiche che lo hanno interessato nel tempo comprendono un ampio e
variegato spettro, manifestandosi in spettacoli ispirati tra l'altro a
scrittori contemporanei come Marguerite Duras, Jean Genet e Yukio
Mishima, in viaggi intorno a figure classiche come "Dido and
Eneas" e "Apollo", in spettacoli-omaggio a Fellini e a
Pasolini, nel rapporto con le opere di compositori così diversi come
Monteverdi e Bach da una parte e Cage, Xenakis e Scelsi dall'altra.
Da "L'Arte della Fuga" di Bach, tornando allo spettacolo,
Moricone non ha tratto soltanto una suggestione meramente dinamica,
sembra di averne dedotto anche una poetica che diventa immagine. Lo
"Stretto di Fuga", lo ricordiamo è la parte finale della
fuga, in cui le varie voci subentrano una a ridosso dell'altra. Egli
scrive: "La forma musicale denominata fuga sembra alimentata
dalla sinergia reiterazione/sviluppo. Lo stesso segmento viene
lanciato al proprio ininterrotto inseguimento, allo stesso modo di un
mantra ripetuto in elevazione costante, o come in una scala numerica
ad infinito montante. Questa corsa circolare e mai uguale, conduce
all'abbandono a all'annullamento nello stretto di fuga: raccoglimento
prima del lancio decisivo, volgendosi indietro per contare quanto poco
è lo scarto che separa dall'imminente succedersi. E' l'attimo del non
ritorno, dove non è ammeso ritardo, dove il solo pensiero è
sfrecciare al punto finale. Il 'danzator guerriero' già incontrato in
Monteverdi, ritorna in questa nuova ispezione sul Baroco. Le
trascrizioni di Michelangelo Lupone da 'L'Arte della Fuga' di J. S.
Bach, alternate alle rifrangenti elaborazioni elettroniche,
sottolineano le dinamiche d'azione e sostengono, anche nelle continue
interruzioni, il ritmo della danza: concentrata in repentine azioni di
guerra, segmentata e lanciata alla continua rincorsa di sè e che
appare dal buio, avvolta nei vapori del combattimento. Corpi che si
preparano alla battaglia, mantra bellici declinati nell'ultima voluttà
amorosa, prima di una possibile sconfitta."
Infatti, lo spettacolo è un susseguirsi di quadri, interrotti,
ripetuti, alternati, che s'incontrano e si allontanano continuamente
dalla dinamica dei temi di Bach, collocati nel preciso disegno luci di
Camilla Piccioni, semplice ma efficace e molto funzionale alle
atmosfere delle coreografie, nonché alla definizione e alla
strutturazione dello spazio scenico, ritagliando dei quadrati di
pavimento che sono l'ambiente dell'azione, oppure dei corridoi che
attraversano di taglio la scena e lungo i quali scorrono i personaggi
e le immagini che essi creano in movimento. Fondamentalmente, si
alternano la presenza di una coppia di guerrieri, veri e propri
protagonisti, e un "coro", formato da tre danzatrici e un
danzatore, che agiscono in combinazioni diverse per numero e
dinamiche, anche da soli, a volte passando da un quadrato di luce ad
un altro. Il tutto è congegnato con matematica e geometrica
precisione dalla coreografia di Moricone, che attinge indistintamente
sia ai codici della danza classica che a quelli della danza
contemporanea, grazie anche alla ottima ed eclettica qualità tecnica
di tutti i danzatori.
Regna su tutto un calibro e una misura nell'orchestrazione dei corpi
che dimostra la lunga e profonda esperienza di Moricone nell'arte
della coreografia e che rende lo spettacolo fortemente elegante e
misterioso. Inoltre, malgrado una certa freddezza data dalla precisa
costruzione, sovente l'atmosfera è pregna di una conturbante
sensualità nel gioco dei ruoli tra femminile e maschile o nella
voluttà del mescolamento dei corpi maschili.
Probabilmente i momenti più interessanti dello spettacolo sono le
coreografie che ci mostrano il rapporto poliedrico e riccamente
ambiguo tra il personaggio centrale, il guerriero protagonista, un
conduttore bardato di elmo e corazza interpretato dallo stesso
Moricone, e quell'altro guerriero, Ennio Dura, che ne è complemento,
compagno, alter ego, amante. Il loro rapporto di forza e amore
richiama immediatamente alla memoria quello guerresco e intimo, virile
e delicato al tempo stesso, tra Achile e Patroclo. Tra i diversi e
frequenti quadri che li vedono insieme, alcuni richiamano a dei veri e
propri "passi a due" classici, in cui la figura centrale
invece di essere una ballerina è il guerriero di Moricone, detentore
della presenza e dell'energia "maschile" della coppia,
sostenuto e sollevato dall'amante compagno interpretato da Ennio Dura,
che ha invece il compito della presenza, dell'energia e della forza
del "femminile". Ed in questo ruolo Dura dimostra di essere
un interprete maturo, raffinato e capace di sfumature che vanno ben
oltre la sua pur eccellente tecnica. Infatti, il suo personaggio non
cade mai nel banale né, rischio sempre presente, nell'imitazione
della donna o peggio ancora nella parodia della sposa; niente mossette,
effemminatezze da "femminiello" o stridenze da "vizietto".
La sua è una presenza virile ed è dalla esplorazione coraggiosa del
femminile del maschio che ne ricava la sua energia, in perfetta
armonia con un corpo scultoreo e potente.
Di ottimo livello tecnico anche le tre danzatrici, Laura Agnelli,
Monica Lavezzari e Beatrice Magalotti, presenze più sfuggenti e
astratte dei danzatori-guerrieri, purtroppo però un po’
eccessivamente spersonalizzate e annullate nella
precisione/costrizione delle coreografie a loro assegnate. Riesce
invece a ritagliarsi uno spazio di presenza e di personale intensità
il terzo guerriero, Danilo Monardi, che agisce nella zona di
quello che abbiamo chiamato il "coro" in rapporto alle donne
e in contrappunto alla coppia dei guerrieri amanti; la sua danza è,
al di sopra della tecnica, pulita e vibrante.
Bisogna dire, però, che nonostante gli evidenti pregi di cui abbiamo
parlato, "Stretto di Fuga" non è un capolavoro. Sebbene le
sue caratteristiche in quanto spettacolo di danza siano di grande
qualità, la voluta e imposta dimensione teatrale è debole e
approssimativa, andando così a scapito del risultato finale.
Eugenio Barba, il fondatore e regista dell'Odin Teatret, una delle più
importanti esperienze del teatro di ricerca della seconda metà del
Novecento, per spiegare il suo approccio al teatro, che è
prevalentemente fisico, scrive: "La civiltà scenica di origine
europea soffre per la spaccatura fra il teatro e la danza, quasi che
essi fossero due differenti universi espressivi. Sono invece un solo
mondo che si articola poi in generi distinti, ma radicati
nell'esperienza unitaria di come il corpo-mente dell'attore/danzatore
diventa scenicamente presente. Invece di teatro e danza si può
infatti parlare di danza profonda e di danza evidente. La danza
profonda è tipica delle forme sceniche classificate come non danza.
La danza evidente si sgancia a volte da ogni criterio mimico o
narrativo per presentarsi come espressione pura del dinamismo fisico.
Ogni spettacolo, però, è danza, nelle sue radici fisiche e mentali,
danza delle energie e del pensiero."
Questa affermazione, chiara e quasi evidente, è formulata dal punto
di vista di chi fa teatro e quindi ovviamente si preoccupa di mettere
in luce il fatto che anche il teatro è danza. Ma possiamo ribaltarla
in modo speculare, riformulandola dal punto di vista della danza:
quell'unico mondo che si articola in generi distinti, proprio perché
radicati sulla presenza unitaria corpo-mente dell'attore danzatore, è
sempre anche teatro. Dal momento che il danzatore si
"presenta" e agisce davanti ad un pubblico, in uno spazio
particolare predisposto a questa presentazione, stabilendo quindi un
preciso rapporto di differenza tra performer e spettatore, e dal
momento che anche nelle performance più astratte, in cui non si vuole
"rappresentare" niente o nessuno, la sua presenza è
necessariamente diversa da quella personale nella vita quotidiana,
allora il danzatore che agisce nella scena non è più soltanto una
persona ma è ineluttabilmente anche un personaggio, quanto meno il
personaggio di se stesso. Quindi la danza, praticamente per
definizione, è inevitabilmente anche teatro. Ribaltando
l'affermazione di Barba, ogni spettacolo è teatro, profondo o
evidente, "nelle sue radici fisiche e mentali", teatro
"delle energie e del pensiero".
Potremmo dire, parafrasando la famosa affermazione di Gregory Bateson,
che la danza che crede di non essere teatro, non fa altro che del
cattivo teatro. Ed è proprio nel rapporto con la dimensione teatrale
che la danza contemporanea sta cercando già da anni di trovare un
nuovo senso o semplicemente una nuova strada per rinnovarsi. Nata in
parte dalla evoluzione della Modern Dance e in parte come reazione e
contrasto ad essa, persi quindi una serie di riferimenti umani e
concettuali che erano alla base del senso di quella danza, per lo più
i nuovi riferimenti su cui si è basata la danza contemporanea sono
stati di un carattere che possiamo genericamente chiamare tecnico.
Sottovalutando la questione della presenza personale del danzatore che
inevitabilmente è personaggio, la danza contemporanea si è via via
andata definendo "tecnicamente" soprattutto sulla
spersonalizzazione del danzatore, basandosi sulle variazioni di pochi
principi e su di una continua ed unica qualità del movimento,
assumendo la "fluidità" come valore estetico e dinamico
assoluto, che non solo è costante per tutto lo spettacolo e uguale
per tutti i danzatori, ma addirittura identica per uomini e donne.
Si è così costituito un vero e proprio "stile" basato
sulla neutralità, che giocoforza comportava freddezza e distanza, ma
che ha proposto una strada nuova e dirompente rispetto alla Modern
Dance e che ha prodotto spettacoli di grande bellezza e suggestione.
Una volta consolidatosi questo stile, però, esaurita la spinta
iniziale di rottura e di ricerca di una nuova strada, la definizione
di una identità che era fondamentalmente "tecnica" ha
finito per portare alla ripetizione e allo svuotamento. Quella
presunta neutralità in realtà diventò un modo per evadere una
domanda fondamentale per il danzatore: Cosa faccio di me stesso quando
il mio corpo danza? Ecco quindi che la soluzione più ovvia per
rinnovarsi e introdurre nuova linfa fosse il teatro. Aveva ben ragione
Marshall MacLuhan (il padre del termine "villaggio globale")
quando nel suo celeberrimo "Gli strumenti del comunicare"
del 1964 affermava che il teatro è il più "caldo" dei
mezzi, ma anche il più debole e per questo costantemente assorbito e,
almeno parzialmente, annullato dagli altri mezzi. Data la sua
costituzione apparentemente non tecnica, nel senso ginnico della
danza, il teatro è sempre sottovalutato e l'approccio che in genere
la danza ha avuto e sta avendo con esso è tendenzialmente
improvvisato, superficiale e pieno di imbarazzanti luoghi comuni.
Rifiutate le convenzioni del balletto classico "narrativo",
giustamente, e non volendo tornare indietro alle "pulsioni"
della Modern Dance, non è stata però percorsa una strada alternativa
di approfondimento della dimensione teatrale della propria danza, e
quindi si lascia così emergere frequentemente banalità e cliché che
appartengono alla spicciola "teatralità" di tutti.
Certo vi sono tante eccezioni, ma sono appunto quegli artisti che il
teatro lo hanno veramente compreso e rispettato nella sua specificità
e in ogni sua componente. Possiamo citare Carolyn Carlson, Pina Bausch,
Bill T. Jones, Maurice Béjart, William Forsythe, Maguy Marin, Trisha
Browne, Paul Taylor e tanti altri ancora. Questi maestri hanno capito
fino in fondo le componenti teatrali della danza e le hanno sfruttate
in strade molto diverse ma sempre riuscite, in cui questa
consapevolezza ha sempre dato una dimensione in più ai danzatori e
alla coreografia. Addirittura in molti casi è stata la conoscenza
profonda della specificità del teatro da parte dei grandi maestri che
gli ha permesso di elaborare coreografie astratte che però erano
consapevolmente, usando i termini di Barba, teatro
"profondo", non "evidente", per cui la
non-narrazione non è diventata mai freddezza e soprattutto mai
cattivo teatro. Invece, quando non si approfondisce lo specifico
teatrale, ma si aggiunge alla danza la "teatralità", cioè
la patina esteriore di quello che sembra teatro, la voglia di
esprimere attraverso la scorciatoia dell'atteggiamento, delle
apparenze e del "maquillage", in particolare quella
"teatralità" molto superficiale che considera il costume e
le scene come "teatro", il risultato non è potenziato bensì
indebolito. Basti pensare che molto spesso, nel linguaggio quotidiano
dei danzatori, quando si parla di "personaggio" non si
riferisce ad altro che ad un costume e cambiare
"personaggio" non consiste in altro se non cambiare
semplicemente costume.
Purtroppo, lo spettacolo "Stretto di Fuga" di Moricone, cade
nel tranello della "teatralità" di cui parlavamo
poc’anzi, che volendo aggiungere una dimensione in più di forza
espressiva, in realtà la sottrae. La "teatralità"
introdotta con dei costumi che confermano la regola più banale della
danza contemporanea e cioè che niente deve essere banale e quindi
debba regnare l'asimmetria e debba sempre mancare al costume una
manica e una gamba, come già visto in decine di spettacoli di danza,
e in particolare l'uso di braghette a conchiglia, elmetti e corazze un
po' "storici" e un po' "artistici" che nel
complesso, data la mancanza di una reale dimensione teatrale,
rasentavano l'effetto "costume di carnevale", non solo non
definivano e non davano la voluta presenza teatrale ai personaggi dei
guerrieri, ma indebolivano e nascondevano un lavoro e una energia
potente e molto interessante e articolata per se stessa, che con la
sola presenza dei corpi avrebbero potuto definire in modo più
astratto ma molto più preciso e incisivo i personaggi, che invece
rischiavano di apparire inadeguati e naif.
Nelle discipline creative, o artistiche come dir si voglia, non sempre
valgono le leggi della matematica: non sempre la strada più corta tra
due punti è la linea retta e non sempre l'accumulo di elementi è una
operazione di somma, a volte può risultare una sottrazione. Anche se
in "Stretto di Fuga" l'accumulo di certi elementi a volte è
risultato una sottrazione, rimane uno spettacolo di alto livello, raro
a vedersi in Italia, meritevole di attenzione e rispetto per
l'interesse e le emozioni che suscita e per la qualità delle
coreografie e degli interpreti. In caso di repliche future, vi
consigliamo di non perderlo.
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