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Stretto di Fuga



Josè Luis Sànchez-Martìn


Nel 1829 il ventenne compositore Felix Mendelssonhn-Bartholdy presentava a Berlino, in una edizione rimaneggiata e a distanza di cento anni dalla sua prima esecuzione, una delle opere fondamentali di un compositore tedesco ormai dimenticato, o per meglio dire rimasto praticamente sconosciuto fino a quel momento pur nella sua incommensurabile grandezza: si trattava della "Passione secondo Matteo" di Johann Sebastian Bach, morto 79 anni prima a Lipsia, esattamente 250 anni fa.

Paradossalmente, quello che per molti è il più grande compositore di tutti i tempi, non fu apprezzato in quanto tale in vita e riscosse un certo successo soltanto come raffinato organista. E' soltanto da quella esecuzione della Passione che il mondo della musica scopre Bach. "Immediatamente si produsse una reazione a catena; nel 1850 si diede vita ad una 'Società Bach' (e fra i fondatori vi fu Schumann), che l'anno seguente iniziò la pubblicazione degli opera omnia del maestro", racconta Alberto Basso nel suo "L'età di Bach e Haendel". Nel corso del XVIII secolo, Bach era nato nel 1685 a Eisenach, la sua musica fu considerata, in genere, troppo elaborata e antiquata rispetto ai nuovi modelli formali ed espressivi proposti, fra gli altri, dal più noto dei suoi figli, Carl Philipp Emanuel. A questo bisogna sommare il fatto che gran parte della sua musica fu scritta per uso locale o personale.

La riscoperta dell'immenso corpus dell'opera di Bach, che copre praticamente ogni genere a eccezione del melodramma, riportò in luce una forma musicale in cui esso eccelse e che da lui fu portata ai massimi livelli di complessità e bellezza: la fuga. In particolare ci ha lasciato due raccolte in cui la fuga raggiunge vette di cristallina architettura mistica mai più avvicinabili da altri compositori: i due libri di "Il Clavicembalo ben temperato" e l'opera postuma rimasta incompiuta "L'Arte della Fuga", come dice Raffaele Mellace, "un'opera avvolta dalla legenda come poche altre nella storia della musica".

Tra le forme musicali contrappuntistiche, cioè basate sull'arte di sovrapporre due o più linee melodiche, la fuga è una delle più importanti e complesse della storia della polifonia occidentale. Usato per indicare composizioni basate sull'imitazione e specificamente sul canone, il termine fuga, dalla metà del '600 in poi, indica una forma musicale che era caratterizzata innanzitutto dalla destinazione strumentale (successivamente anche alle voci cantate) e da un rigoroso monotematismo (adozione di un unico tema chiamato soggetto), oltre che da norme tecniche particolari che emanciparono la fuga dalla modalità e la vincolarono inscindibilmente alla tonalità.

Benchè dal punto di vista strutturale sia di una grande complessità, semplificando si può dire che si articola in tre momenti principali: quello dell'esposizione tematica, quello dello svolgimento e quello riassuntivo chiamato stretto. Nell'esposizione, le singoli voci (cioè le parti strumentali o vocali, che sono due o più, normalmente tre o quattro) intervengono una dopo l'altra subentrando con il tema appena la precedente ha finito di intonarlo. Lo svolgimento è costituito da parti chiamate divertimenti, costruiti liberamente secondo i molteplici procedimenti propri dell'imitazione, alternate a parti chiamate riesposizioni, in cui si ripresenta in diverse tonalità il gioco imitativo tra soggetto e risposta dell'esposizione iniziale. Infine, il termine stretto designa globalmente la parte finale della fuga, in cui le voci subentrano una a ridosso dell'altra a distanza ogni volta più ravvicinata, senza attendere che la precedente abbia concluso l'intero tema.

Negli ultimi anni della sua vita, i dissidi di Bach con le istituzioni per cui lavorava, La Chiesa e la Scuola di San Tommaso, l'Università e la Municipalità di Lipsia, sono ben noti. Non potendo trovare un impiego adeguato altrove, dopo l'imponente ciclo delle opere liturgiche, tra cui le 250 Cantate Sacre e le Passioni, egli rivolse quindi il suo reale interesse e la sua ricerca verso direttrici diverse. Raffaele Mellace ci informa che "in quegli anni va collocato l'ingresso di Bach nella "Società per corrispondenza delle Scienze Musicali", fondata nel 1738 dall'allievo Lorenz Christoph Mizler con l'intento di promuovere un'attività di ricerca e scambio scientifico tra i membri, necessariamente di comprovata competenza matematica e filosofica (d'altra parte, già nel sistema del sapere medievale la musica apparteneva, insieme ad aritmetica, geometria e astronomia, al Quadrivium, ovvero al versante scientifico dello scibile, in quanto studio della cosmica musica mundana, la musica delle sfere, ben più rilevante dei maldestri suoni prodotti dagli strumenti umani)."

Poichè era consentito ai musicisti di sostituire la dissertazione annuale obbligatoria con una propria composizione, Bach presentò alla Società nel 1747 le "Variazioni canoniche sull'inno di Natale BWV 769", l'anno successivo presentò il capolavoro "L'Offerta Musicale BWV 1079" e avrebbe dovuto presentare nel 1749 "L'Arte della Fuga", compito che però non venne mai completato dal compositore. Su quest'ultima opera, rimasta a livello teorico, incompleta e senza orchestrazione o segnalazione di strumenti, continua Mellace: "E' dunque a un ambito di musica pura, reservata, (resa esoterica anche dalla simbologia numerico/musicale), destinata a risuonare nell'intelletto più che all'orecchio, che occorre riferire l'origine dell'Arte della Fuga. (...) Il progetto bachiano consiste nell'applicazione del principio della variazione a un unico tema dato esposto in apertura. Da questo Bach deriva una straordinaria galleria delle possibilità del contrappunto (più ancora che non una ricerca specifica sulla fuga come forma) in un processo complesso, che, coniugando fantasia debordante e alta sapienza tecnica, si ripropone di esaurire le potenzialità più recondite di quella breve sequenza di note che è il tema fondamentale attraverso gli artifici ereditati dalla tradizione fiamminga del XV-XVI secolo, da Palestrina e dalla tradizione barocca, fino alla forma della fuga: organizzazione suprema del materiale sonoro secondo gli intenti dell'artista/scienzato che applica l'ars, conoscenza delle severe regole della forma."

Capolavoro della forma quindi ("punto massimo dell'arte della composizione astratta e architettonica" lo ha definito Edwin Fischer), ma a sua volta rimasto "aperto" a qualunque interpretazione o "riformulazione", L'Arte della Fuga è stato a lungo luogo di discussione, essendo trascritto e orchestrato nelle più disparate interpretazioni. Possiamo citare, tra decine e decine, la versione per solo piano e solo organo del geniale e bizzarro pianista Glenn Gould, quella "classica" e tendenzialmente filologica con strumenti d'epoca di Reinhard Goebel, accompagnato dall'ensemble "Musica Antiqua Koln" e quella disinvolta e variegata della violinista Cinzia Barbagelata con l'Ensemble Aglaia, ma anche quella gradevolissima per quartetto di flauti dolci del "Amsterdam Loeki Stardust Quartet", oppure quella per uno strumento che addirittura non essisteva ai tempi di Bach: la versione sorprendente e affascinantemente misteriosa per quartetto di sassofoni del "Berliner Saxophon Quartett".

Recentemente ci si è cimentato anche il compositore contemporaneo italiano Michelangelo Lupone, noto a livello internazionale come esperto di composizione elettronica e informatica musicale, scrittore di vari saggi teorici sul tema e compositore di brani eseguiti in tutta Europa, che gli sono valsi il riconoscimento internazionale 1992 della Japan Foundation, trasferendosi quindi in Giappone dove ha presentato concerti e conferenze presso importanti istituzioni musicali e universitarie. Tra le sue tante opere vale la pena citare, per la notorietà del committente, "Corda di metallo" del 1997, scritta per il famosissimo Kronos Quartet. La trascrizione dell'Arte della Fuga di Lupone prsenta brani orchestrati con strumenti tradizionali, molto originali grazie a una particolare timbrica basata sul forte contrasto tra l'acuto dei violini e il grave dei violoncelli, ma anche ad accorgimenti inconsueti per la musica di Bach come l'uso del "pizzicato", alternati a brani profondamente rielaborati elettronicamente (arrivando a volte a diventare quasi dei "rumori" musicali) che diventano così parte del territorio della musica contemporanea.

A questo proposito, Lupone spiega: "L'Arte della Fuga ci è donata da Bach in forma teorica e proprio questo lascia uno spazio alla invenzione dell'orchestratore. Il contrappunto da me esplorato non intende proporre una chiave di lettura filologica, anzi estrapola gli elementi estremi delle sovrapposizioni melodiche per connotare alcuni aspetti armonici, ritmici e architetturali, fortemente innovativi per il pensiero musicale del 700. Le idee musicali che sono emerse dalla trascrizione-orchestrazione sono poi state esplose in una successiva elaborazione, dove il contrappunto, ridotto ad alcuni principi essenziali, si sviluppa in una concezione formale, timbrica e ritmica totalmente nuova. Ogni elaborazione infatti trova origine nella preminenza di alcuni elementi presenti nella trascrizione-orchestrazione, ma ne sviluppa i tratti formali e acustici attraverso l'estensione del principio contrappuntistico ai concetti di massa sonora, moti di eccitazione e risonanza degli strumenti, distorsioni e trasformazioni timbriche."

Sulle note e suggestioni di questa particolare rielaborazione dell'opera di Bach, il danzatore coreografo Massimo Moricone, con la sua compagnia Teatro Koros, ha recentemente costruito il suo ultimo spettacolo, "Stretto di Fuga", presentato qualche giorno fa al Teatro Vascello di Roma in prima nazionale, per poi partire in una tournée internazionale che toccherà per prima Città del Messico, ospite dell'Instituto Nacional de Bellas Artes e dell'Istituto Italiano di Cultura. Moricone ha fondato la compagnia Teatro Koros nel 1983, al suo ritorno da un lunghissimo viaggio che lo ha visto studente di danza contemporanea e balletto a Bruxelles, Londra, Parigi e Cannes. Da allora la sua presenza nel panorama della danza contemporanea in Italia è costante e oltre a produrre numerosi spettacoli per la propria compagnia, viene chiamato a creare coreografie per importanti istituzioni italiane come L'Aterballetto, il Balletto di Toscana   e le compagnie di balletto del Teatro La Scala di Milano, del Teatro San Carlo di Napoli, dell'Arena di Verona e del Teatro dell'Opera di Roma, dove attualmente insegna alla scuola di danza, ma anche all'estero per compagnie come lo Scottish Ballet, il Nothern Ballet Theatre, il Malmo Balletten (Svezia) e il Ballet Nacional de Cuba. Questa sua articolata attività gli è valsa il "1er Prix Concours International de Chorégraphie de Nyon" (1984), il "Prix de l'Université de la Danse de Paris" (1984), il "Premio Vignale Danza" (1990) e il "Premio Osimo Danza" (1992) e lo ha portato in tounée con la sua compagnia in numerose città europee, nonchè in India e Cuba.

Le tematiche che lo hanno interessato nel tempo comprendono un ampio e variegato spettro, manifestandosi in spettacoli ispirati tra l'altro a scrittori contemporanei come Marguerite Duras, Jean Genet e Yukio Mishima, in viaggi intorno a figure classiche come "Dido and Eneas" e "Apollo", in spettacoli-omaggio a Fellini e a Pasolini, nel rapporto con le opere di compositori così diversi come Monteverdi e Bach da una parte e Cage, Xenakis e Scelsi dall'altra.

Da "L'Arte della Fuga" di Bach, tornando allo spettacolo, Moricone non ha tratto soltanto una suggestione meramente dinamica, sembra di averne dedotto anche una poetica che diventa immagine. Lo "Stretto di Fuga", lo ricordiamo è la parte finale della fuga, in cui le varie voci subentrano una a ridosso dell'altra. Egli scrive: "La forma musicale denominata fuga sembra alimentata dalla sinergia reiterazione/sviluppo. Lo stesso segmento viene lanciato al proprio ininterrotto inseguimento, allo stesso modo di un mantra ripetuto in elevazione costante, o come in una scala numerica ad infinito montante. Questa corsa circolare e mai uguale, conduce all'abbandono a all'annullamento nello stretto di fuga: raccoglimento prima del lancio decisivo, volgendosi indietro per contare quanto poco è lo scarto che separa dall'imminente succedersi. E' l'attimo del non ritorno, dove non è ammeso ritardo, dove il solo pensiero è sfrecciare al punto finale. Il 'danzator guerriero' già incontrato in Monteverdi, ritorna in questa nuova ispezione sul Baroco. Le trascrizioni di Michelangelo Lupone da 'L'Arte della Fuga' di J. S. Bach, alternate alle rifrangenti elaborazioni elettroniche, sottolineano le dinamiche d'azione e sostengono, anche nelle continue interruzioni, il ritmo della danza: concentrata in repentine azioni di guerra, segmentata e lanciata alla continua rincorsa di sè e che appare dal buio, avvolta nei vapori del combattimento. Corpi che si preparano alla battaglia, mantra bellici declinati nell'ultima voluttà amorosa, prima di una possibile sconfitta."

Infatti, lo spettacolo è un susseguirsi di quadri, interrotti, ripetuti, alternati, che s'incontrano e si allontanano continuamente dalla dinamica dei temi di Bach, collocati nel preciso disegno luci di Camilla Piccioni, semplice ma efficace e molto funzionale alle atmosfere delle coreografie, nonché alla definizione e alla strutturazione dello spazio scenico, ritagliando dei quadrati di pavimento che sono l'ambiente dell'azione, oppure dei corridoi che attraversano di taglio la scena e lungo i quali scorrono i personaggi e le immagini che essi creano in movimento. Fondamentalmente, si alternano la presenza di una coppia di guerrieri, veri e propri protagonisti, e un "coro", formato da tre danzatrici e un danzatore, che agiscono in combinazioni diverse per numero e dinamiche, anche da soli, a volte passando da un quadrato di luce ad un altro. Il tutto è congegnato con matematica e geometrica precisione dalla coreografia di Moricone, che attinge indistintamente sia ai codici della danza classica che a quelli della danza contemporanea, grazie anche alla ottima ed eclettica qualità tecnica di tutti i danzatori.

Regna su tutto un calibro e una misura nell'orchestrazione dei corpi che dimostra la lunga e profonda esperienza di Moricone nell'arte della coreografia e che rende lo spettacolo fortemente elegante e misterioso. Inoltre, malgrado una certa freddezza data dalla precisa costruzione, sovente l'atmosfera è pregna di una conturbante sensualità nel gioco dei ruoli tra femminile e maschile o nella voluttà del mescolamento dei corpi maschili.

Probabilmente i momenti più interessanti dello spettacolo sono le coreografie che ci mostrano il rapporto poliedrico e riccamente ambiguo tra il personaggio centrale, il guerriero protagonista, un conduttore bardato di elmo e corazza interpretato dallo stesso Moricone, e quell'altro guerriero, Ennio Dura, che ne è complemento, compagno, alter ego, amante. Il loro rapporto di forza e amore richiama immediatamente alla memoria quello guerresco e intimo, virile e delicato al tempo stesso, tra Achile e Patroclo. Tra i diversi e frequenti quadri che li vedono insieme, alcuni richiamano a dei veri e propri "passi a due" classici, in cui la figura centrale invece di essere una ballerina è il guerriero di Moricone, detentore della presenza e dell'energia "maschile" della coppia, sostenuto e sollevato dall'amante compagno interpretato da Ennio Dura, che ha invece il compito della presenza, dell'energia e della forza del "femminile". Ed in questo ruolo Dura dimostra di essere un interprete maturo, raffinato e capace di sfumature che vanno ben oltre la sua pur eccellente tecnica. Infatti, il suo personaggio non cade mai nel banale né, rischio sempre presente, nell'imitazione della donna o peggio ancora nella parodia della sposa; niente mossette, effemminatezze da "femminiello" o stridenze da "vizietto". La sua è una presenza virile ed è dalla esplorazione coraggiosa del femminile del maschio che ne ricava la sua energia, in perfetta armonia con un corpo scultoreo e potente.

Di ottimo livello tecnico anche le tre danzatrici, Laura Agnelli, Monica Lavezzari e Beatrice Magalotti, presenze più sfuggenti e astratte dei danzatori-guerrieri, purtroppo però un po’ eccessivamente spersonalizzate e annullate nella precisione/costrizione delle coreografie a loro assegnate. Riesce invece a ritagliarsi uno spazio di presenza e di personale intensità il terzo guerriero, Danilo Monardi, che  agisce nella zona di quello che abbiamo chiamato il "coro" in rapporto alle donne e in contrappunto alla coppia dei guerrieri amanti; la sua danza è, al di sopra della tecnica, pulita e vibrante.

Bisogna dire, però, che nonostante gli evidenti pregi di cui abbiamo parlato, "Stretto di Fuga" non è un capolavoro. Sebbene le sue caratteristiche in quanto spettacolo di danza siano di grande qualità, la voluta e imposta dimensione teatrale è debole e approssimativa, andando così a scapito del risultato finale.

Eugenio Barba, il fondatore e regista dell'Odin Teatret, una delle più importanti esperienze del teatro di ricerca della seconda metà del Novecento, per spiegare il suo approccio al teatro, che è prevalentemente fisico, scrive: "La civiltà scenica di origine europea soffre per la spaccatura fra il teatro e la danza, quasi che essi fossero due differenti universi espressivi. Sono invece un solo mondo che si articola poi in generi distinti, ma radicati nell'esperienza unitaria di come il corpo-mente dell'attore/danzatore diventa scenicamente presente. Invece di teatro e danza si può infatti parlare di danza profonda e di danza evidente. La danza profonda è tipica delle forme sceniche classificate come non danza. La danza evidente si sgancia a volte da ogni criterio mimico o narrativo per presentarsi come espressione pura del dinamismo fisico. Ogni spettacolo, però, è danza, nelle sue radici fisiche e mentali, danza delle energie e del pensiero."

Questa affermazione, chiara e quasi evidente, è formulata dal punto di vista di chi fa teatro e quindi ovviamente si preoccupa di mettere in luce il fatto che anche il teatro è danza. Ma possiamo ribaltarla in modo speculare, riformulandola dal punto di vista della danza: quell'unico mondo che si articola in generi distinti, proprio perché radicati sulla presenza unitaria corpo-mente dell'attore danzatore, è sempre anche teatro. Dal momento che il danzatore si "presenta" e agisce davanti ad un pubblico, in uno spazio particolare predisposto a questa presentazione, stabilendo quindi un preciso rapporto di differenza tra performer e spettatore, e dal momento che anche nelle performance più astratte, in cui non si vuole "rappresentare" niente o nessuno, la sua presenza è necessariamente diversa da quella personale nella vita quotidiana, allora il danzatore che agisce nella scena non è più soltanto una persona ma è ineluttabilmente anche un personaggio, quanto meno il personaggio di se stesso. Quindi la danza, praticamente per definizione, è inevitabilmente anche teatro. Ribaltando l'affermazione di Barba, ogni spettacolo è teatro, profondo o evidente, "nelle sue radici fisiche e mentali", teatro "delle energie e del pensiero".

Potremmo dire, parafrasando la famosa affermazione di Gregory Bateson, che la danza che crede di non essere teatro, non fa altro che del cattivo teatro. Ed è proprio nel rapporto con la dimensione teatrale che la danza contemporanea sta cercando già da anni di trovare un nuovo senso o semplicemente una nuova strada per rinnovarsi. Nata in parte dalla evoluzione della Modern Dance e in parte come reazione e contrasto ad essa, persi quindi una serie di riferimenti umani e concettuali che erano alla base del senso di quella danza, per lo più i nuovi riferimenti su cui si è basata la danza contemporanea sono stati di un carattere che possiamo genericamente chiamare tecnico. Sottovalutando la questione della presenza personale del danzatore che inevitabilmente è personaggio, la danza contemporanea si è via via andata definendo "tecnicamente" soprattutto sulla spersonalizzazione del danzatore, basandosi sulle variazioni di pochi principi e su di una continua ed unica qualità del movimento, assumendo la "fluidità" come valore estetico e dinamico assoluto, che non solo è costante per tutto lo spettacolo e uguale per tutti i danzatori, ma addirittura identica per uomini e donne.

Si è così costituito un vero e proprio "stile" basato sulla neutralità, che giocoforza comportava freddezza e distanza, ma che ha proposto una strada nuova e dirompente rispetto alla Modern Dance e che ha prodotto spettacoli di grande bellezza e suggestione. Una volta consolidatosi questo stile, però, esaurita la spinta iniziale di rottura e di ricerca di una nuova strada, la definizione di una identità che era fondamentalmente "tecnica" ha finito per portare alla ripetizione e allo svuotamento. Quella presunta neutralità in realtà diventò un modo per evadere una domanda fondamentale per il danzatore: Cosa faccio di me stesso quando il mio corpo danza? Ecco quindi che la soluzione più ovvia per rinnovarsi e introdurre nuova linfa fosse il teatro. Aveva ben ragione Marshall MacLuhan (il padre del termine "villaggio globale") quando nel suo celeberrimo "Gli strumenti del comunicare" del 1964 affermava che il teatro è il più "caldo" dei mezzi, ma anche il più debole e per questo costantemente assorbito e, almeno parzialmente, annullato dagli altri mezzi. Data la sua costituzione apparentemente non tecnica, nel senso ginnico della danza, il teatro è sempre sottovalutato e l'approccio che in genere la danza ha avuto e sta avendo con esso è tendenzialmente improvvisato, superficiale e pieno di imbarazzanti luoghi comuni. Rifiutate le convenzioni del balletto classico "narrativo", giustamente, e non volendo tornare indietro alle "pulsioni" della Modern Dance, non è stata però percorsa una strada alternativa di approfondimento della dimensione teatrale della propria danza, e quindi si lascia così emergere frequentemente banalità e cliché che appartengono alla spicciola "teatralità" di tutti.

Certo vi sono tante eccezioni, ma sono appunto quegli artisti che il teatro lo hanno veramente compreso e rispettato nella sua specificità e in ogni sua componente. Possiamo citare Carolyn Carlson, Pina Bausch, Bill T. Jones, Maurice Béjart, William Forsythe, Maguy Marin, Trisha Browne, Paul Taylor e tanti altri ancora. Questi maestri hanno capito fino in fondo le componenti teatrali della danza e le hanno sfruttate in strade molto diverse ma sempre riuscite, in cui questa consapevolezza ha sempre dato una dimensione in più ai danzatori e alla coreografia. Addirittura in molti casi è stata la conoscenza profonda della specificità del teatro da parte dei grandi maestri che gli ha permesso di elaborare coreografie astratte che però erano consapevolmente, usando i termini di Barba, teatro "profondo", non "evidente", per cui la non-narrazione non è diventata mai freddezza e soprattutto mai cattivo teatro. Invece, quando non si approfondisce lo specifico teatrale, ma si aggiunge alla danza la "teatralità", cioè la patina esteriore di quello che sembra teatro, la voglia di esprimere attraverso la scorciatoia dell'atteggiamento, delle apparenze e del "maquillage", in particolare quella "teatralità" molto superficiale che considera il costume e le scene come "teatro", il risultato non è potenziato bensì indebolito. Basti pensare che molto spesso, nel linguaggio quotidiano dei danzatori, quando si parla di "personaggio" non si riferisce ad altro che ad un costume e cambiare "personaggio" non consiste in altro se non cambiare semplicemente costume.

Purtroppo, lo spettacolo "Stretto di Fuga" di Moricone, cade nel tranello della "teatralità" di cui parlavamo poc’anzi, che volendo aggiungere una dimensione in più di forza espressiva, in realtà la sottrae. La "teatralità" introdotta con dei costumi che confermano la regola più banale della danza contemporanea e cioè che niente deve essere banale e quindi debba regnare l'asimmetria e debba sempre mancare al costume una manica e una gamba, come già visto in decine di spettacoli di danza, e in particolare l'uso di braghette a conchiglia, elmetti e corazze un po' "storici" e un po' "artistici" che nel complesso, data la mancanza di una reale dimensione teatrale, rasentavano l'effetto "costume di carnevale", non solo non definivano e non davano la voluta presenza teatrale ai personaggi dei guerrieri, ma indebolivano e nascondevano un lavoro e una energia potente e molto interessante e articolata per se stessa, che con la sola presenza dei corpi avrebbero potuto definire in modo più astratto ma molto più preciso e incisivo i personaggi, che invece rischiavano di apparire inadeguati e naif.

Nelle discipline creative, o artistiche come dir si voglia, non sempre valgono le leggi della matematica: non sempre la strada più corta tra due punti è la linea retta e non sempre l'accumulo di elementi è una operazione di somma, a volte può risultare una sottrazione. Anche se in "Stretto di Fuga" l'accumulo di certi elementi a volte è risultato una sottrazione, rimane uno spettacolo di alto livello, raro a vedersi in Italia, meritevole di attenzione e rispetto per l'interesse e le emozioni che suscita e per la qualità delle coreografie e degli interpreti. In caso di repliche future, vi consigliamo di non perderlo.




 

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