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La politica come filosofia civile



Maurizio Viroli con Renato Parascandolo



Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
 

Platone, com'è noto, sosteneva che l'unica possibilità per rimediare ai mali che travagliavano il suo tempo era che i filosofi diventassero degli uomini politici, oppure che, per una sorta di miracolo, i politici avessero la sapienza dei filosofi. Ciò nonostante si tende, oggi soprattutto, a considerare la filosofia come una disciplina completamente distante dalla politica. Ecco, Lei è d'accordo su questo luogo comune?

No, non sono d'accordo che si debba considerare la politica e la filosofia come due discipline profondamente separate o addirittura antitetiche nei loro fini. Infatti sto lavorando da un po' di tempo attorno al concetto di politica come filosofia civile. Si dice: l'espressione "filosofia civile" è una concezione della politica in cui la filosofia e la politica sono legate insieme. Del resto l'idea della separazione fra filosofia e politica è una idea moderna.

Fino perlomeno al Cinquecento le espressioni che i filosofi e gli storici usavano per parlare di politica erano espressioni come sapientia civilis ("sapienza civile"), ars civilis ("arte civile"), philosophia civilis ("filosofia civile"), perché intendevano per politica l'arte civile, cioè l'arte di istituire e di conservare la comunità civile, la res publica, la comunità di individui che vivono insieme in pace e in giustizia. Questa è la comunità civile, e istituire e preservare questo tipo di comunità era il fine della politica, che era una parte della filosofia morale.

La partizione classica che veniva ripetuta era quella aristotelica, secondo la quale la filosofia morale o pratica si divide in tre campi: l'economica, che insegna il governo della casa e della famiglia, l'etica, che insegna a governare se stessi, il governo dell'individuo, e la politica, che è l'arte di governare la città, la polis. Questa concezione, passata poi attraverso il pensiero politico repubblicano romano nell'Umanesimo italiano, è all'origine di questa concezione della politica come filosofia civile, alla quale io cerco di rifarmi per elaborare una nuova concezione della politica.

Per quanto riguarda le radici storiche di questa concezione, vorrei aggiungere che tutta l'idea, il linguaggio della politica come filosofia civile, diventa in Europa più o meno una curiosità intellettuale a partire dalla prima metà del Seicento. Infatti in questo periodo avviene quella che io ho definito una rivoluzione del concetto di politica, per cui si afferma la concezione della politica come ragion di Stato. L'ho definita una rivoluzione perché è un cambiamento profondo del significato di politica. Dopo il trionfo del concetto di ragion di Stato, politica non significa più l'arte di preservare o di istituire la comunità civile, ma diventa l'arte di conservare e di allargare il potere, che è una concezione ben diversa da quella che aveva dominato il linguaggio politico europeo per almeno tre secoli dopo il Medioevo, dal Duecento al Cinquecento. Questa rivoluzione non si riscontra solo negli scritti dei filosofi. Non cambiò soltanto il modo in cui i filosofi pensarono e ragionarono di politica: cambiò il modo diffuso di pensare e di parlare di politica.

C'è un passo molto divertente citato da Traiano Boccalini, nei suoi "Ragguagli  dal Parnaso", in cui l’umanista ci dice che fin nelle piazze pescivendoli e barbieri ragionano oggi, parlano oggi di ragion di Stato e discettano di ciò che è conforme alla ragion di Stato, di ciò che è contro la ragion di Stato. Il nuovo linguaggio della politica come ragion di Stato diventò un linguaggio confuso, diventò il modo convenzionale di pensare la politica. Secondo questo modo di pensare, la filosofia e la politica sono profondamente distinte.

Vorrei ricordare che il linguaggio repubblicano della politica, secondo cui la politica è appunto filosofia civile, un sapere che ha come scopo di istituire e preservare la comunità civile, non scompare definitivamente. Ci sono casi importanti - pensiamo soltanto a Rousseau nel Settecento – in cui si riscopre questa vecchia concezione della politica. Ed è curioso che Rousseau si renda benissimo conto che i termini che lui usa, soprattutto il termine "città", cité, ha assunto una connotazione completamente nuova. Rousseau si diverte a ironizzare nei confronti dei suoi contemporanei francesi che, come dice in una nota del Contratto sociale, credono che ciò che costituisce la cité sono i muri e le strade, mentre per cité si deve intendere la civitas, la res publica, e ciò che fa la civitas o res publica, sono i cittadini, non le strade o le mura.

C'è tutto un linguaggio che è sparito e che diventa difficile recuperare, e che credo  sia importante riconsiderare. Io mi rifaccio esattamente a questa tradizione per definire una concezione della politica come filosofia civile. Mi permetta di aggiungere solo una osservazione: il Professor Bobbio in una discussione mi fece notare che io tendo a dare un significato negativo al passaggio dalla concezione della politica come filosofia civile alla concezione della politica come ragion di Stato. Io vedo ciò come un decadimento e un impoverimento del linguaggio politico, e invece, a parere di Bobbio, si dovrebbe parlare di un progresso, perché si è passati da una concezione retorica della politica, cioè un modo di parlare della politica come dovrebbe essere, a una concezione realistica della politica, in cui si parla della politica come è.

Vorrei solo osservare che i teorici della ragion di Stato non descrivevano soltanto la politica come è, ma raccomandavano la politica che si doveva fare. Quindi non era il passaggio da una concezione retorica a una concezione realistica, ma è stato un passaggio tra due concezioni, da una concezione della politica a un'altra, in cui entrambe le concezioni erano concezioni che volevano sostenere, raccomandare, indicare, far sì che avvenisse  una certa politica piuttosto che un'altra. Io cerco di rifarmi alla concezione della politica che dominò in Europa prima del trionfo della ragion di Stato, per proporre un linguaggio della politica il più possibile utile a fare ciò che a mio parere, è necessario oggi, nelle nostre società democratiche.


La teoria della ragion di Stato, del potere per il potere, del realismo politico, la realpolitik, certamente è una tradizione nella nostra storia politica che è lontana da quelle idealità e da quella politica ispirata a valori di cui parlavamo prima, a proposito anche di Rousseau.  Tutto questo implica non solo una rifondazione dei valori della Repubblica e dello Stato, ma anche evidentemente nuove categorie e un nuovo linguaggio. Da dove si comincia? Si ha l'impressione che non si sappia più neanche esprimere queste cose perché non si hanno più neanche le parole.

E' vero, sono pienamente d'accordo con Lei. Non abbiamo più le parole. Ma se fosse solo questione di parole, la cosa sarebbe relativamente facile. E dire che non ci vuole molto a mettersi a tavolino, a elaborare una bella teoria della politica come filosofia civile e dove tornano tutti i vecchi concetti, dove tutto è in ordine. Ma questo, benché facile, è una piccola consolazione.

Io non ho una particolare ambizione teorica. Ciò a cui tengo di più è indicare un possibile modo di pensare la politica, un modo di parlare di politica che ci incoraggi a fare politica in un modo diverso, che ci dia delle ragioni per impegnarci per una politica diversa dal semplice realismo politico, dalla concezione della politica come semplice lotta per il potere, come spartizione di beni. Quando mi riferisco all'esperienza dell'Umanesimo, ho sempre in mente, l'idea che il filosofo deve parlare ai propri concittadini in un linguaggio comune, deve convincere, addurre delle buone ragioni per fare, e non semplicemente per teorizzare. Ecco perché mi riferisco più volentieri al linguaggio politico che non alle teorie della politica.

Teorie della politica se ne possono fare tante. Bisognerebbe cambiare il modo di pensare la politica, per poterla fare in maniera diversa. Io credo che il filosofo politico debba fare la sua parte e dal punto di vista del filosofo politico, un buon modo di cominciare è proporre un modo di parlare della politica che sia comprensibile ai propri concittadini/concittadine, in modo che si possa fare politica in maniera diversa. Naturalmente sarebbe molto più efficace se si riuscisse ad avere dei begli esempi, dei nuovi esempi di una politica diversa, cioè nuovi "leaders" politici, che con il loro esempio sappiano suscitare motivazioni. Ma questo mi sembra una speranza al momento attuale troppo ottimistica, e d'altronde, non saprei come contribuire a questo.

L'unica cosa che un filosofo politico può fare, secondo me, è quella di cercare di offrire un'immagine della politica per la quale valga la pena impegnarsi. E’ in questo senso che vorrei cominciare a ridefinire il linguaggio della politica.


La necessità di ritornare a una concezione classica della politica si riscontramo anche in  Hannah  Arendt  In che cosa la Sua posizione si differenzia e in che cosa è simile a quella di Hannah  Arendt?

Vede, come dicevo prima, la concezione classica della politica, cioè la politica come arte della polis o della "comunità civile", per dirla alla latina, non è mai morta. E Hannah Arendt è un esempio contemporaneo dello sforzo di recuperare la concezione classica della politica.

Hannah Arendt - e qui c'è la prima differenza fra la posizione di Hannah Arendt e la mia - si ispirava direttamente ad Aristotele e alla concezione aristotelica della politica,  basata sull'ideale della polis greca. Io invece guardo piuttosto a Roma e alla tradizione del repubblicanesimo romano. La differenza nella sostanza consiste in questo: Hannah Arendt propone un'immagine della politica che è troppo pura,  troppo grande, troppo nobile. Per lei la vera politica è il dialogo fra liberi e uguali per produrre delle deliberazioni pubbliche che mantengano in vita la polis. Per Hannah Arendt la vita privata è una dimensione impoverita della vita, la vera dimensione è quella pubblica, è quella dell' agorà, è quella dove si vive nella città.

Io invece cerco di rifarmi all'immagine di politica come filosofia civile, che è una concezione meno nobile ma più possibile; è una concezione della politica in cui ciò che conta è il fine, non la libera discussione fra diversi e uguali cittadini. Il punto è riuscire a mantenere in vita o a ricostruire, dove non c'è più, la comunità civile. Io non penso che la vita privata sia una dimensione impoverita, che abbia poco valore. Al contrario, ritengo che si debba chiedere agli individui concreti del nostro tempo di continuare a perseguire i propri interessi individuali e a coltivare la vita privata, e proprio per questo bisogna anche farsi carico della dimensione pubblica. Proprio in questo senso dunque io ho una concezione della filosofia come politica civile diversa da quella di Hannah Arendt, per cui non vedo nella politica una forma dell'agire nobilissimo, totalmente disinteressato, e non sono nemmeno convinto che la politica, come Hannah Arendt ritiene seguendo Aristotele, sia la forma più nobile di vita umana.

Secondo me, al contrario, bisogna dire chiaramente che la politica quando non è pericolosa e corrotta è spesso noiosa, e che è uno sforzo. Hannah Arendt afferma che nella politica ci togliamo le nostre maschere e riveliamo la nostra vera natura. Io credo che questo non sia vero. Quando gli individui agiscono in politica e si tolgono le loro maschere, rivelano spesso dei visi raccapriccianti, che sono deformati dall'ambizione, sono deformati dall'invidia, dagli interessi, dalle passioni peggiori. Bisogna  tener presente che la politica è questo, non è senno. Nobilita pochissimo, è un dovere, bisogna farla proprio per sostenere la vita privata.

La politica non è una forma di vita superiore, è una necessità: semplicemente dobbiamo farla se vogliamo avere la possibilità di vivere una vita privata e personale ricca, e soprattutto se vogliamo conservare una città bene ordinata in cui vivere in pace.

Oggi, come viene accolta negli ambienti liberali, soprattutto qui negli Stati Uniti, una teoria della politica come questa ?

Vorrei sottolineare che, rispetto ai liberali, ci sono un’identità nel fine e una differenza nel modo di arrivarci. Il fine della politica, come filosofia civile, è la città bene ordinata, cioè costruire una comunità in cui ciò che non può mancare è la salvaguardia della libertà e dei diritti individuali. Una comunità in cui non possono mancare il governo della legge, il riconoscimento dei meriti individuali, l'idea che chi si distingue per il contributo al bene comune deve essere premiato, merita di essere onorata e di governare.

Tutto questo è molto simile alla concezione della società bene ordinata di cui parla John Rawls, che è una nuova versione della res publica o della civitas, cioè della comunità bene ordinata, in cui gli individui possono vivere in pace sotto il governo della legge, in cui sono premiati i virtuosi e non gli arroganti. Ora il fine quindi è simile.

La differenza con i miei colleghi liberali consiste nel modo di costruire una città di questo genere, o di conservarla se qualcuno ha la fortuna di averla già. Io credo che nemmeno negli Stati Uniti ci sia già, ma, in ogni modo, supponiamo che ci sia e che il problema consista nel conservarla. Qui, la differenza diventa profonda per quanto riguarda la concezione della giustizia. Io credo che per istituire e per conservare una buona città liberale siano necessari degli individui, cittadini,  uomini e donne, che sono capaci e sanno impegnarsi per il bene comune, per resistere contro le ingiustizie anche quando le ingiustizie non toccano loro direttamente, ma toccano altri cittadini. Questa è esattamente la concezione repubblicana, non liberale della giustizia. E' la concezione della giustizia che viene direttamente dal I Libro del De Officiis di Cicerone, dove si distinguono due modi in cui si può essere ingiusti: primo, quando si commette ingiustizia; secondo, quando - potendo - non si impedisce che ingiustizia sia fatta ad altri. Ora è esattamente di questa concezione della giustizia politica che una teoria della società ben ordinata ha bisogno. Non la concezione liberale della giustizia, che afferma che abbiamo il diritto di intervenire quando i nostri diritti individuali sono violati.

Per fare un esempio concreto: recentemente  una Corte degli Stati Uniti ha riconosciuto che due  cittadini di colore erano stati ingiustamente accusati di un omicidio, dopo aver passato diciassette anni in carcere. Il processo fu riaperto grazie all'impegno di un’associazione di volontari, di cittadini, che si battono per riaprire casi di processi che hanno portato a delle sentenze manifestamente ingiuste. Grazie all'impegno di quei cittadini questi altri due sono potuti tornare in libertà. Se non ci fosse stato questo tipo di impegno civile, dove sarebbe andata a finire la libertà di quei due? Sarebbero rimasti in carcere per sempre, e quanti altri ce restano probabilmente in carcere ingiustamente, e vi rimarranno se non ci saranno dei cittadini disposti a fare qualcosa per intervenire contro le ingiustizie che hanno toccato altri. Bene, se non ci fosse questo, come si può pensare che possa continuare, possa darsi una società bene ordinata nel senso liberale del termine?

Ecco la differenza fondamentale con i filosofi politici liberali: per costruire o per conservare la buona città liberale, c'è bisogno di una concezione repubblicana della politica quale appunto quella sostenuta dai filosofi civili, i filosofi repubblicani, a cominciare dal vecchio Cicerone fino al nostro  Machiavelli.

C'è un'altra differenza, che riguarda il linguaggio. Che tipo di linguaggio devono parlare i filosofi per aiutare, per fare in modo che l'utopia della buona città liberale non sia più un'utopia? C'è davvero bisogno di usare linguaggi ideali come fa Habermas, parlare di posizioni originarie come fa Rawls, ipotizzare conversazioni ideali come fa Ackermann inventandosi individui astratti, che non hanno passioni, non hanno memorie, non hanno interessi? E' davvero necessario usare linguaggi filosofici, o non è forse il caso di tornare alla buona, vecchia pratica dei filosofi umanisti, che usavano il linguaggio comune, e la retorica per convincere, per muovere passioni, per dare motivazioni?

Spesso si dice che solo le motivazioni producono motivazioni. Non è vero: anche la parola produce motivazioni. Ci sono parole che possono suscitare sdegno, altre  che possono pacificare, parole che suscitano ira, parole che suscitano risentimento, parole che suscitano desideri di giustizia, parole invece che fanno dimenticare. Quindi credo - e questa è la seconda differenza fondamentale nei confronti della tradizione liberale contemporanea - che il filosofo civile, a differenza dei suoi amici liberali, invece di usare il linguaggio filosofico, debba usare il linguaggio comune per esprimere il proprio punto di vista sui problemi concreti della comunità, invitare i cittadini o i concittadini a prendere posizione, e a resistere.

Il filosofo deve ricordare ai suoi concittadini quelli che sono i valori fondamentali della comunità, deve parlare con loro nel loro linguaggio, senza usare linguaggi filosofici. Non credo che l'uso di quest’ultimi sia lo strumento migliore per fare in modo che le nostre comunità siano più simili alla buona comunità liberale di quanto non lo siano attualmente. Queste sono le due differenze fondamentali con i miei amici liberali.

Con la filosofia intesa come maturazione della coscienza civile, non si rischia di trasformare il filosofo politico in un agitatore?

Abbiamo già visto che quando i filosofi -  ma forse più i politici, i professori universitari che insegnano filosofia – hanno pensato che il loro posto non fosse più  all'università, ma fosse la piazza, e che il loro compito fosse quello di diventare agitatori politici, sono successi dei disastri. Io non credo che si debba fare questo. Io credo che il filosofo civile debba essere in primo luogo un filosofo che aiuta a interpretare la storia di una comunità, e quindi deve sapere come si interpretano tradizioni, testi, linguaggi. Deve mantenere la sua competenza professionale, non deve diventare un politico, deve mantenere sempre una distanza critica fra se stesso o se stessa e la politica. Deve essere però in grado di parlare a chi fa politica, ed essere in grado di indicare possibilità di comportamento politico. Metaforicamente, il filosofo civile non deve essere troppo vicino alla politica perché altrimenti si scotterebbe, e non deve essere troppo lontano perché altrimenti il suo linguaggio diventa sterile.

Il filosofo civile deve trovare la giusta distanza per potere parlare alla politica, a chi fa politica in nome non di principi universali, validi in ogni tempo, ma in nome dei valori condivisi dalla comunità. Deve essere un critico. L'immagine del posto adatto per il filosofo civile non è nella piazza o nella direzione di partito, non è soltanto in biblioteca, ma deve essere nell'aula universitaria, nella biblioteca.  Egli deve però essere capace di parlare a un pubblico più vasto di quello che  degli addetti ai lavori, dei suoi colleghi filosofi e degli studenti.

Vorrei dire questo: ciascuno di noi che insegna ha una responsabilità enorme, quella di insegnare per vari anni a migliaia di giovani in una fase così importante della loro vita. Insegnare filosofia politica è un'occasione unica, non soltanto per trasmettere delle nozioni o insegnare delle metodologie, ma per suscitare delle passioni, delle passioni per la libertà, delle passioni civili, per educare dei cittadini.

Ecco, c'è già moltissimo da fare, non c'è bisogno di rinnegare la propria posizione professionale, la propria competenza in nome di un impegno politico totale e diretto. Il filosofo civile deve essere un critico che mantiene sempre la giusta distanza. E' difficile, ma questo credo che sia il modo migliore in cui il filosofo politico può aiutare la propria comunità a crescere, a diventare più simile a una buona città che a una città corrotta.

In un'epoca di grande livellamento come la nostra, in cui tendono a diventare sfumate le differenze tra le classi, i ceti sociali e addirittura le culture, qual è il compito del filosofo civile di cui Lei parla ? E’ evidente che il mondo va pure governato da qualcuno che abbia alle spalle un retroterra culturale, politico, di tradizioni, che lo renda conforme alla capacità di governare, di dirigere, e così via: quale dev’essere il rapporto tra il filosofo e gli uomini che sono destinati a governare, nella vecchia tradizione di Aristotele o dello stesso Machiavelli?

Ci troviamo di fronte a un dilemma molto preciso: da un lato, e non solo negli Stati Uniti ma mi pare anche altrove, in Europa, sicuramente in Italia, la politica è considerata ovunque una delle attività meno degne e meno nobili. Nel Quattrocento il titolo di maggior pregio che si potesse rivolgere a una persona sarebbe stato di dirgli: “Tu sei un politico”. Era il massimo. “Tu sei un uomo civile”, era il massimo complimento. Se oggi diciamo ad una persona: “Tu sei un politico”, è quasi un insulto.

La politica oggi ha raggiunto questo bassissimo grado di dignità, e non solo negli Stati Uniti, ma mi sembra un fatto generale. Eppure - ecco perché ho parlato di un dilemma - non possiamo permetterci il lusso di fare a meno della politica, e il lusso di lasciare che soltanto chi è interessato  ai propri vantaggi personali o di fazione di bottega, faccia politica. Il problema oggi è di far sì che più cittadini, che sono buoni cittadini che vorrebbero vivere in una comunità decente, facciano politica.

Ma com’è possibile? Il filosofo civile deve intervenire in quest’antitesi, per convincere più cittadini, più individui a fare qualche cosa per la propria comunità. Deve convincerli, perché è facilissimo che chi vuole usare lo Stato per fini personali o privati faccia politica. Non c'è bisogno di incoraggiare nessuno, in questo senso sono già bravissimi. Ce ne sono tanti che sono ovunque dei veri maestri. Ma se si continua a fare questo, poi non possiamo lamentarci del fatto che la nostra città diventi una città corrotta, dove non possiamo esercitare i più elementari diritti civili.

Io continuo sempre a rimanere molto colpito da un episodio che si è verificato in Italia, quando Libero Grassi, un imprenditore, è stato ucciso dalla criminalità organizzata perché si rifiutava di pagare tangenti. Bene: questo individuo cos'altro chiedeva se non di esercitare il più semplice, il più elementare diritto liberale, quello di fare la propria professione di imprenditore in pace? Vede, quando la città è corrotta, non diventa più possibile nemmeno fare questo. Ecco perché non ci possiamo permettere il lusso di fare a meno della politica.

Bisogna educare, bisogna costruire una nuova élite politica nel vero senso della parola, cioè cittadini che abbiano la rettitudine morale, ma anche la preparazione morale, cioè la capacità di reggere ai costi tremendi che la politica impone. Questo è il compito più difficile. Se la politica fosse bella, fosse dialogo, fosse deliberazione comune, sarebbe facile. Ma non lo è. Cosa può dire il filosofo politico ai cittadini? Deve fare sempre, secondo me; deve raccontare delle storie,  intervenire sui problemi concreti, per esempio della guerra e della pace, della giustizia e dell' ingiustizia. Deve intervenire sui casi che abbiano un particolare significato generale, e fare quello che in fin dei conti i filosofi civili hanno sempre fatto, cioè hanno cercato di educare uomini civili, persone che, se necessario, possono assumersi responsabilità politiche.

Non si tratta di pretendere, come tanti hanno fatto a mio parere in maniera controproducente, che i cittadini diventino tutti dei politici, che partecipino alla vita politica, ventiquattro ore su ventiquattro, sei giorni alla settimana - questo è assurdo. E' sufficiente che si creino le condizioni perché più cittadini, quando è necessario e nei modi adatti a seconda delle circostanze, sappiano far sentire la loro voce, sappiano selezionare una nuova classe dirigente politica nel vero senso, cioè una classe dirigente di persone che ha rettitudine morale e prudenza.

Ecco, il filosofo civile non è un ingenuo. Coluccio Salutati, i grandi cancellieri della Repubblica fiorentina non erano degli ingenui, erano persone che sapevano benissimo quanta prudenza ci vuole a far politica. Ecco, educare un politico che sia prudente e integro: credo che questo è il compito del filosofo civile, se ha a cuore, come deve avere a cuore. Il filosofo civile deve difendere quelle garanzie elementari della vita civile, che oggi mi sembrano seriamente in pericolo in tante democrazie contemporanee.


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