G.B. Shaw amministratore pubblico
Marco Vitale
Mi è capitato tra le mani casualmente, riordinando
la biblioteca, l’interessante libretto: Il Senso Comune della Industria
municipale, di George Bernard Shaw, il letterato e commediografo
inglese che si presenta qui come eccellente amministratore pubblico
ed esperto di problemi economici e politici. E’ un libro del 1908
nell’edizione a mie mani ma con una prima edizione di qualche anno
precedente (pubblicato in Italia nel 1914). E’ ovviamente datato,
ma, come è di tutti i contributi dotati di pensiero autentico, ancora
capace di suscitare utili stimoli di riflessione.
Fu scritto in un’epoca in cui l’industria municipale era in pieno
sviluppo, sia sostituendosi all’industria privata, sia sviluppando,
in quantità e qualità, quei servizi che i
privati, muovendosi nella pura ottica del profitto, non sviluppavano.
Da noi l’esemplare legge 29 marzo 1903 n. 103, con il grande contributo
di G. Montemartini il cui eccellente libro: Municipalizzazione dei
pubblici servizi è del 1902, aveva regolato, con profondità e lungimiranza,
l’intera materia e potrebbe essere utilmente consultato, almeno
sotto il profilo dell’inquadramento teorico, da chi sta oggi legiferando
in materia di servizi pubblici. In Inghilterra la mancanza di una
legge organica scatena uno scontro nell’ambito del quale si inserisce
il contributo di G.B. Shaw. Lo scontro tra i municipalizzatori diventa
durissimo come queste parole di G.B. Shaw evidenziano: “parrebbe che l’industria municipale dovesse essere una semplice materia
di affari. Eppure è perfettamente concepibile che la lotta politica
che attorno ad essa si accende possa assumere i caratteri di una
guerra civile più di qualsiasi altro avvenimento della storia inglese
dal tempo della Riforma parlamentare dEl 1832 ad oggi”.
Contro l’industria municipale o “industria civica” (come anche la
chiama G.B. Shaw) si scatenano argomenti di tutti i tipi, compreso
quello che “le municipalizzazioni sono contrarie alla religione
e licenziose”. Ma vi sono anche argomenti più seri come quello che
lo sviluppo delle municipalizzate fa espandere il debito dei comuni.
E qui G.B. Shaw ha buon gioco a rispondere che ciò è dovuto, in
gran parte, alla sciagurata
contabilità pubblica che registra come spese e come debito operazioni
che sono investimenti. E le recenti privatizzazioni con l’emergere
di, talora, grandi valori accumulati nel tempo, ci conferma la correttezza
dell’osservazione di G.B. Shaw . Questa, aggiunge, è la ragione
per cui “i sultani di Turchia
e le repubbliche del Sud-America possono girare il mondo invano
per cercare denaro; i ministri della finanza inglesi possono trovarsi
nella necessità di fare uno sconto sulle nuove emissioni, ma un
prestito municipale si emette sempre alla pari”.

I punti principali delle riflessioni di G.B., Shaw, che hanno aspetti
ancora attuali sono tre:
1.Il primo è la necessità di una valutazione articolata e complessa
dei risultati dell’”industria civica”. “L’incentivo commerciale
si ferma dove si arresta il guadagno, L’incentivo municipale si
allarga a tutto il vantaggio sociale, diretto ed indiretto, dell’impresa”.
E’ un tema sul quale l’autore ritorna più volte, ma che illustra
molto bene con un esempio che vale la pena di riprendere:
“ Prendiamo il ramo più popolare
delle imprese commerciali: lo spaccio delle bevande, fonte di pingui
guadagni. Prendiamo il più ovvio e meno rischioso ramo delle imprese
pubbliche: la
costruzione di strade, che, commercialmente, non dà punto utili.
Ma supponiamo che il commercio delle bevande sia gravato di tutto
ciò che costa in morbilità, minor capacità al lavoro, malattia e
delitti, con tutti i deprimenti effetti che ha sulla produttività
industriale, e colle spese che importa di medici, poliziotti, carceri,
ecc., ecc.! Supponiamo contemporaneamente che i bilanci delle strade
e dei ponti municipali siano accreditati del valore del tempo, del
logorio, delle rotture per loro mezzo risparmiati! Appare subito
evidente che le strade e i ponti si pagano da sé medesimi più volte,
mentre i piaceri dell’ubbriachezza sono costosi oltre ogni limite
ragionevole. Per conseguenza, un’esercizio municipalizzato delle
bevande alcooliche il quale mettesse un freno all’abuso di alcoolici,
sarebbe per i contribuenti un’affare molto migliore del sistema
ora in vigore anche se i
guadagni fatti attualmente dai birrai e dagli osti si cambiassero
in perdite pel Comune con una diminuzione dei proventi delle tasse”
2) Il secondo tema viene sviluppato per confutare l’argomento
che solo le imprese private sono capaci di sviluppare un buona gestione.
E’ un argomento totalmente privo di fondamento logico e di verifica
empirica che pure continua a ricorrere ancora oggi e che G.B. Shaw
confuta alla radice:
“L’importanza della gestione
è un fattore del successo di una industria che nessuno può facilmente
esagerare, ma la gestione è oggi interamente separata dalla proprietà
ed è facile comprarla sul mercato, come si compra il macchinario….
I direttori prestabiliscono soltanto i risultati che vogliono raggiungere,
e assumono un corpo di abili amministratori e di tecnici ferroviari
per dir loro come debbono ottenerli. Così, la Società delle Ferrovie
londinesi e del Nord-ovest, si provvede di quanto le occorre, dalle
locomotive alle traversine, senza l’intervento di un solo azionista.
Una folla di contribuenti opera attraverso un’autorità municipale
nell’identico modo. I contribuenti sono altrettanto stupidi ed ottusi
quanto gli ordinari azionisti, e i peggiori loro rappresentanti
nel Comune, sono incapaci quanto le peggiori talpe di direttori.
Ma i contribuenti e i consiglieri illuminano la loro città con l’elettricità;
fanno correre le tramvie; costruiscono case: dragano porti; erigono
impianti per la distribuzione e combustione delle mondizie; aprono
strade, e amministrano cimiteri, colla stessa facilità colla quale
una società di vedove di ecclesiastici può adagiare un cavo nell’Atlantico,
se dispone delle somme occorrenti, o un milionario illetterato lancia
un grande giornale. Il mercato del lavoro include oggi un mercato
dell’abilità, nel quale un direttore a 250.000 lire l’anno può essere
affittato come si affitta una nave”.
Anzi un buon Comune, aggiunge l’autore, dovrebbe avere più facilità
ad assumere buoni direttori perché se è vero che paga di meno, dà
più sicurezza, più autonomia, più protezione dalle bizzarrie del
padrone, più considerazione pubblica.
3.Il terzo tema è che l’industria municipale deve usare tutti gli
strumenti competitivi a disposizione delle imprese, in modo da non
trovarsi in posizione di inferiorità. Ad esempio (ed è questione
sulla quale ancora pochi anni fa il Consiglio Comunale di Milano
aveva un orientamento negativo) :
“sino a che il meccanismo
costituzionale non consenta alle imprese municipali di operare sopra
un’area più ampia di quella segnata dagli attuali antiquati ed ostruzionistici
confini municipali, noi continueremo ad avere delle aziende municipali
zoppicanti….
L’impresa municipale, d’altro canto, è distanziata fin dall’inizio,
non solo da tutti gli influssi or ora citati, ma dal preconcetto
nazionale contro qualsiasi azione dello Stato, ereditata dalla lunga
lotta per la libertà individuale che seguì al crollo del sistema
medioevale. Questa lotta indusse gli uomini ad affermare che la corruzione è inerente
ai pubblici uffici; che un comune che amministra dei pubblici servizi,
non diversifica da un monopolio del secolo diciottesimo; e che il
rimedio per tutti questi mali è la libertà di concorrenza fra l’impresa
privata rigidamente protetta e l’impresa pubblica. L’argomento,
preso alla lettera, è ovvio, ma in pratica, mentre i privati o le
società private possono fare tutto quello che non è loro vietato
di fare, un comune non può far nulla se non è espressamente autorizzato
a farlo; e siccome ogni autorizzazione deve venire dal Parlamento
nel quale l’impresa privata è potentemente rappresentata, ai comuni
non rimangono che i rifiuti dell’industria privata. Il comune, infatti,
non gode della libertà di azione nell’assunzione diretta dei suoi
servizi della quale gode il capitalista privato; quindi mentre l’impresa
comunale deve lottare per strappare ai parlamenti ostili l’autorizzazione
a gestire tali servizi, ed agitarsi per godere di più ampi poteri,
l’impresa privata viene formando gigantesche coalizioni industriali
che spietatamente travolgono la superata concorrenza commerciale
sulla quale scioccamente il paese contava per difendersi dal monopolio e, instaurano
un collettivismo capitalistico depredatore…
“Insomma – conclude G.B. Shaw – il
profondo antagonismo fra l’impresa che mira soltanto al più pingue
lucro possibile a spese della comunità e chi tende a soddisfare
le necessità pubbliche più a buon mercato che si può, fa indiscutibilmente
piegare la bilancia verso l’industria municipale… I vantaggi dell’impresa
municipalizzata non sono accidentali; essi sono la sola ragione
della sua esistenza e non hanno limiti altro che i rimediabili difetti
del suo meccanismo politico e quelle umane infermità che sono comuni
all’interesse pubblico come a quello privato”.
Si tratta di osservazioni che mi inducono a riflettere sull’esperienza
degli ultimi dieci anni. Sono stato uno dei pionieri che ha affrontato,
sul piano teorico e pratico, il tema della trasformazione delle
aziende municipali in SPA e della apertura del loro capitale al
mercato borsistico. L’ho fatto nella profonda convinzione che la
formula delle municipalizzate, una formula d’avanguardia in chiave
imprenditoriale nel 1903 e per un lungo periodo successivo, era
tecnicamente superata. Era necessario che “queste industrie civiche”
avessero accesso a tutta la strumentazione societaria e finanziaria
moderna senza essere soffocate negli angusti territori comunali
ed in tante altre restrizioni operative che impedivano alle stesse
di esprimere il loro potenziale e che le avrebbero rese inevitabili
vittime dei grandi gruppi privati ed internazionali. Ma non ho mai
sostenuto, come altri hanno sostenuto e sostengono, che solo la
completa privatizzazione può assicurare un assetto ottimale a queste
imprese. Anzi quando mi sono battuto in Consiglio Comunale di Milano
per la trasformazione di AEM in SPA e per il primo progetto quadro
per la quotazione in Borsa ho sempre sostenuto, che il Comune di
Milano avrebbe dovuto conservare la maggioranza di questa azienda
quotata, svolgendo il ruolo di azionista strategico ed attivo, assicurando
un consiglio d’amministrazione altamente professionale, credibile
ed autorevole, rispettando il mercato come ogni buon azionista pubblico
o privato dovrebbe comunque fare (e come ben pochi, invero, pubblici
o privati fanno), regolando
i rapporti tra impresa e Comune con un chiaro e serio contratto
di programma, impedendo che questa impresa chiave della città cada
nel potere di altri interessi forti.

In realtà la mia posizione era ed è articolata. Vi sono aziende
che non hanno più senso come proprietà comunale (centrali del latte,
farmacie, aeroporti) e che devono, quindi, essere totalmente cedute;
altre, invece che trasformate, modernizzate, professionalizzate
e sottoposte alle regole e verifiche del mercato devono rimanere
nella salda maggioranza del Comune. Mi riferisco soprattutto alle
aziende a rete, a quelle che forniscono servizi a rete sul territorio
comunale e metropolitano. Qui il Comune deve conservare una capacità
di comando che non è solo quella che deriva dai suoi poteri di supremazia
amministrativa e contrattuali, ma deve essere quello più forte,
penetrante, crudo dell’azionista di maggioranza, di chi ha il potere
di nominare e revocare il presidente ed il consigliere delegato
e di dettare le grandi strategie. E sia consentito qui inserire
una importante digressione. Reputo organizzativamente e politicamente
un grave errore, per queste imprese complesse, dar vita ad assetti
societari dove vi sia un presidente – consigliere delegato – padre
padrone, privo di reale dialettica sia con il consiglio di amministrazione
che con il management. In una azienda complessa ben condotta e che
abbia una molteplicità di interessi da rispettare, questa figura
è anacronistica e pericolosa. E’ necessario un presidente autorevole,
che sia espressione forte del consiglio e degli azionisti di riferimento,
che si ponga in posizione dialettica, non antagonistica, e di sorveglianza
rispetto alla gestione affidata ad un consigliere delegato forte,
autonomo ma che debba effettivamente rispondere ad un presidente
e ad un consiglio attento e responsabile. La fusione di questi due
ruoli nella stessa persona può essere concepibile in una piccola
azienda di famiglia, non certo in una grande e complessa azienda
pubblica (sia nel significato italiano che anglosassone della parola
“pubblica”). E non
basta mettere in consiglio un amico del sindaco. Molti degli errori
le cui conseguenze negative andranno all’incasso nei prossimi anni
sono frutto anche di questo errore organizzativo (ben conosciuto
e studiato, del resto, dalla teoria delle grandi organizzazioni).
Ma ritornando al filone principale, perché reputo essenziale che
il Comune conservi il controllo anche azionario delle società a
rete? Perché queste sono strumenti preziosi di sviluppo e politica
cittadina sia per servizi
vecchi che nuovi. Perché sono strumenti operativi dei quali il Comune
non può privarsi se non vuole indebolire enormemente la sua capacità
operativa. Perché si tratta di imprese dove il più che legittimo
e doveroso obiettivo di profitto deve coniugarsi con una serie di
altri obiettivi di grande rilievo cittadino. Trovare questo equilibrio
non è certamente semplice, ma non si può rinunciare alla fatica
di ricercarlo. Perché, infine, le migliori di queste imprese sono
un eccellente investimento e non si vede perché, dopo aver realizzato
in borsa una parte dello stesso, dovrei consigliare al Comune di
disinvestire totalmente, cosa che non consiglierei a nessun azionista
privato. Queste considerazioni
assumono rinnovata attualità da quello che si vede in giro in materia
di nuove reti di TLC e Internet e di nuovi servizi connessi. Sia
consentito ricordare, a riprova della lungimiranza dei nostri bisnonni,
che l’art.12 della legge 29 marzo 1903 n. 103, nell’elencare le
19 attività di pubblici servizi esercitabili dai Comuni attraverso
le municipalizzate, al punto 5 includeva: “costruzione ed esercizio
di reti telefoniche nel territorio del Comune”. Forse questa prospettiva,
mai attuata, sta, in forme molto diverse, ritornando attuale.
Ma quello che si vede in giro non è per nulla tranquillizzante.
Si vedono pressioni inaudite, che assumono talora la forma dell’intimidazione
mediatica e personale, esercitata da gruppi affaristici che, approfittando
del grande fumo montato in materia, vogliono impadronirsi delle
reti cittadine, cioè del principale asset delle nostre gloriose
ex municipalizzate, costruito in cento anni di lavoro, per farvi
passare dei segnali che, poi si vedrà esattamente di che cosa si
tratta. Parola di re! Si vedono proposte di holding, se va bene
paritetiche, dove le nostre “industrie civiche” dovrebbero apportare
tanta polpa a fronte di un grande agitarsi, di tante parole astruse,
e di tecnologie e metodologie
che chiunque può tranquillamente comprare sul mercato. La maggior
parte di questi ragazzotti, infatti, lanciati all’assalto delle
nostre industrie civiche sono puri intermediari e venditori di tecnologie
e, talora, puri e semplici imbonitori. L’idea di affidare loro anche
solo in parte il controllo delle nostre reti cittadine è pura follia.
Anche perché su queste reti dovranno correre, senza privilegi per
nessuno, quei servizi utili alla città da chiunque offerti, al rapporto
migliore qualità/prezzo. Ma quali sono i nuovi servizi utili al
Comune ed alla città? Qui emerge il grande vuoto strategico e di
pensiero, qui emerge la mancanza di analisi serie, di priorità vere
che devono anche essere oggetto di pubblico dibattito. Qui mancano
criteri e parametri di riferimento capaci di guidare nella scelta.
Qui manca una seria ricerca. Qui emerge anche il “profondo antagonismo
– di cui parlava G.B. Shaw – fra l’impresa che mira soltanto al
più pingue lucro possibile a spese della comunità e chi tende a
soddisfare le necessità pubbliche più a buon mercato che si può”-
E qui pongo anche il rapporto con il mercato borsistico. Mentre
per un affarista il fine è vendere sul mercato le azioni al più
alto prezzo possibile, per un’azienda comunale (come dovrebbe essere
per ogni azienda seria) la borsa è un mezzo e non un fine.
Lo dico con molta chiarezza proprio perché, negli ultimi
tempi, ho sentito non solo capi azienda ma sindaci e direttori generali
di comuni, estasiati dalle folli quotazioni di borsa, esprimere
considerazioni che sembrano basate sul fatto che la ipervalutazione
in Borsa delle aziende controllate dal Comune sia l’obiettivo primario
del Comune stesso. Non lo è; non lo deve essere. La missione primaria
delle aziende concessionarie di servizi pubblici e segnatamente
di quelle controllate dai Comuni, la loro ragione d’essere rimane
quella di fornire dei servizi pubblici di qualità elevata e di costo
basso, veramente utili alla città, secondo priorità accuratamente
studiate, compatibilmente con la necessità di accumulare i profitti
necessari per assicurare gli indispensabili investimenti e la corretta
e non stravagante remunerazione, a lungo termine, del capitale
investito.
Certo i servizi ed il modo con cui vengono resi cambiano. Alcuni
di quelli del 1903 sono spariti (fabbrica e vendita del ghiaccio;
essiccatoi di granoturco
e relativi depositi); altri non ha più senso che siano comunali
(farmacie). Ma altri restano il “core business” delle “industrie
civiche” che deve rammodernarsi e utilizzare le nuove tecnologie;
mentre altri (i nuovi servizi di TLC ed Internet) rappresentano
l’inizio di un nuovo ed ampliato “core business”. Ma, come sempre,
in relazione alle nuove tecnologie, bisogna essere attivi e non
passivi; bisogna accumulare conoscenza e non dare in appalto al
buio a terzi; bisogna essere consapevoli che queste tecnologie non
hanno nulla di misterioso e sono tutte acquistabili, a prezzi sicuramente
decrescenti, sul mercato. Perciò il senso di sudditanza psicologica
che vedo in giro in tanti nostri amministratori di aziende pubbliche,
non mi piace per niente. Andando avanti così finiremo per affidare
agli affaristi più svegli ed aggressivi le reti della nostra città.
Più che di un errore si tratta d i un delitto.
Certamente nella scelta delle alleanze più utili, nella definizione
dei servizi innovativi prioritari, nello sviluppo applicativo di
alcuni moduli, è importante contare su un buon consulente. Ma anche
qui vedo comportamenti, a dir poco sconcertanti. Vedo consulenti
di buona fama e di buona competenza agire nello stesso tempo come
consulenti e come aspiranti partner. Ma la caratteristica prima
ed essenziale di un buon consulente è la sua indipendenza. Per cui
non si può essere, allo stesso tempo, consulenti ed aspiranti partner.
Chi aspira a diventare partner è in affari. Non è più un professionista
indipendente. Quando partirono i calcolatori, per i primi anni il
consulente ed il fornitore coincidevano, ed era soprattutto la IBM.
Ma poi si capì. E si aprì lo spazio per i consulenti veri che, ponendosi
in dialettica costruttiva con IBM, vendevano solo indipendenza,
integrità e competenza. Vedo poco di questa serietà intorno al frastuono
affaristico che rischia di travolgere i nostri amministratori pubblici
e le nostre “industrie civiche”. Il senso di inferiorità che rischia
di metterli in difficoltà non ha alcun senso. Si mettano al lavoro
con serenità e celerità; si uniscano le forze (importantissimo!);
si scelgano advisor indipendenti; si formino nell’ambito dei gruppi
più forti società specialistiche che incomincino ad accumulare conoscenza
specifica; si facciano appropriate alleanze, senza nulla cedere
all’arroganza degli affaristi.
La città resta l’asset più importante. Di questo essi si vogliono
impadronire. Non permettiamolo.
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