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I gay a San Pietro e i nazi a Skokie

Anna Elisabetta Galeotti

La vicenda del Gay Pride ha suscitato un tale vespaio politico e mediatico da rendere quasi impossibile una discussione seria e ragionata. Tuttavia la questione è così importante per verificare la tenuta dei principi liberali fondamentali della nostra democrazia da rendere ineludibile una riflessione pacata sul caso. Non vorrei qui discutere la legittimità o meno di proibire la manifestazione degli omosessuali, prevista a Roma per i primi di luglio, secondo le richieste di varie autorità ecclesiastiche e dei loro referenti politici del centro-destra, perché il divieto della manifestazione non è mai stato posto in agenda dalle autorità competenti. Intendo invece affrontare la questione se il tentativo da parte delle autorità politiche e della forza pubblica di contenere il corteo fuori dal centro, di modificarne percorso e limitarne la visibilità per venire incontro alle preoccupazioni e alle sensibilità dei cattolici sia giustificato da problemi di ordine pubblico oppure se debba intendersi come un’interferenza intollerante nella libertà d’espressione degli omosessuali.

Vediamo di esaminare le due posizioni antagoniste. Da una parte, ci sono le autorità e la forza pubblica che si trovano di fronte una città e una piazza divisa e spaccata fra due parti reciprocamente ostili e che sostengono essere loro compito prendere precauzioni per evitare degenerazioni e per garantire l’ordine pubblico. Dall’altra ci sono gli organizzatori della manifestazione che avevano chiesto e ottenuto l’autorizzazione e il patrocinio del comune anni fa, che avevano scelto Roma come luogo simbolico per affermare l’identità gay contro l’omofobia esplicita della chiesa cattolica. Costoro, dalla modificazione del percorso e dal contenimento della manifestazione, secondo la proposta delle cariche pubbliche, si vedono sottrarre legittimità e riconoscimento pubblico, si ritrovano confinati fuori dalla visibilità delle piazze centrali di Roma e sentono pubblicamente riaffermato il non gradimento della loro presenza diversa che viene apertamente dichiarata come offensiva e provocatoria nei confronti di una parte consistente della popolazione di Roma e di un gruppo potente come quello cattolico.

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Di fronte alle giuste rivendicazioni degli omosessuali di visibilità e di legittimazione della loro presenza, di uscita dalla marginalità e dal silenzio oppressivo in cui sono stati a lungo confinati, l’argomento dell’ordine pubblico sembra avere le caratteristiche di un limite neutrale (e quindi giustificato) alla libertà di espressione, neutrale perché indipendente dal messaggio e dal contenuto della manifestazione e basato esclusivamente sulla prevenzione dei danni a terze persone che il clima surriscaldato potrebbe provocare. Tuttavia questo argomento "forte" in realtà non regge uno scrutinio attento: le organizzazioni omosessuali sono esplicitamente non-violente, anche se visivamente provocatorie; i raduni del Gay pride hanno ormai una storia collaudata e non c’è alcuna evidenza empirica che siano degenerati in scontri violenti.

Il rischio di evitare un incontro nella stessa piazza fra corteo dei gay e sit-in dell’organizzazione di estrema destra Forze nuove è forse reale, ma, ci si domanda, perché, in questo caso, sia la manifestazione internazionale dei gay, fissata da tempo, a dover cambiar percorso, anziché il gruppuscolo di estrema destra. In breve, l’argomento neutrale dell’ordine pubblico per contenere la manifestazione non è credibile, mentre sembra confermarsi la volontà delle autorità di sminuirla, delimitarla e boicottarla. Ma con quali argomenti, ci si chiede, visto che nessuno vuole, così si dice, mettere in dubbio il diritto fondamentale (e dunque politicamente indisponibile) di libertà d’espressione?

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L’unico altro argomento sul tappeto è quello di evitare di offendere la sensibilità della chiesa e del popolo cattolico, proprio nell’anno giubilare, e proprio a Roma; chiesa che si sente provocata e irrisa dall’esibizione dell’identità omosessuale, considerata dalla dottrina cattolica peccaminosa e perversa. Che cosa deve fare a questo punto l’autorità politica, sia essa nazionale o locale, tra il diritto fondamentale di libertà d’espressione e le proteste per le prevedibili offese e provocazioni al mondo cattolico? C’è una soluzione equa che tenga fede ai principi politici costitutivi della democrazia liberale, quello dell’eguale libertà, dell’eguale rispetto, della non-discriminazione?

Secondo la dottrina classica della tolleranza, una soluzione giusta c’è. Da John Stuart Mill in poi la tolleranza di opinioni, espressioni e comportamenti diversi e difformi da quelli maggioritari è un caposaldo dell’etica liberale che tuttavia trova un confine nel principio di danno a terzi. Naturalmente che cosa comporti "danno" a terzi è questione controversa: solo danni materiali e fisici o anche psicologici? In ogni caso, Mill svolge un raffinato argomento, ripreso e ampliato negli anni ’50 da Herbert Hart, per sostenere che non può essere considerato "danno" l’offesa, il disagio, il disgusto che comportamenti difformi inducono nella "maggioranza morale", perché questo equivarrebbe a vanificare la tolleranza per tutte le differenze davvero rilevanti. Se si conta come danno a terzi lo scandalo dei bacchettoni per L’ultimo tango a Parigi è chiaro che si dà corso ad atteggiamenti intolleranti e si opta per la censura anziché per la tolleranza. Quindi, secondo la dottrina classica della tolleranza, il caso in questione ammette una soluzione semplice e ovvia: la presumibile offesa dei cattolici non può costituire un motivo valido per delimitare la libertà d’espressione, provocatoria o meno, dei gay. Che sia provocatoria non può essere una considerazione perché, per definizione, qualunque comportamento difforme e stigmatizzato, esibito in pubblico risulta provocatorio. Il suo essere provocatorio deriva direttamente dall’essere stato marchiato come anormale e perverso rendendo così insopportabile la sua visibilità pubblica.

Prima di chiudere qui la discussione, occorre però considerare che la dottrina liberale standard della tolleranza è stata in questi ultimi decenni sottoposta a critiche e revisioni, proprio da parte dei gruppi portatori di differenze ascrittive più che elettive, quali l’etnia, la cultura, il genere e l’orientamento sessuale. Queste critiche hanno mirato, da una parte, a un ampliamento della tolleranza liberale a riconoscimento pubblico di identità escluse e marginali (quindi per esempio, marce gay, per rivendicare il riconoscimento pubblico della propria differenza come un’opzione tra le altre nel pluralismo contemporaneo), dall’altra, alla regolamentazione dei comportamenti e delle espressioni offensive per l’identità di questi stessi gruppi.

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In questo contesto vanno inserite le campagne contro la pornografia condotte da frange del femminismo americano e la controversia sull’hate speech, ossia sulla regolamentazione del linguaggio razzista, sessista, omofobico. A questo punto ci si può chiedere se gli omosessuali possano coerentemente rivendicare la regolamentazione del linguaggio omofobico, riservandosi poi il diritto di incitare all’odio e di offendere convinzioni religiose tradizionale. In un certo senso, si potrebbe pensare che gli omosessuali si sono tirati la zappa sui piedi, chiedendo libertà d’espressione in un contesto e invocando limiti alla stessa in un altro. Se essi stessi affermano che gli insulti e le offese costituiscono un danno, allora devono poi concedere ai cattolici la stessa protezione dalle offese che invocano a loro vantaggio.

Questo argomento, tuttavia, non considera alcuni aspetti importanti della discussione sull’hate speech che rendono le offese dei gay per gli insulti omofobici incomparabili rispetto alle offese dei cattolici alla vista degli omosessuali. Innanzitutto nel primo caso abbiamo a che fare con offese esplicitamente dirette a persone in quanto appartenenti a un certo gruppo conculcato, mentre nel secondo caso, l’offesa deriva dal disagio di un modo di essere di altri ritenuto disgustoso. Inoltre la speciale protezione pubblica dalle offese invocata dai sostenitori della regolamentazione dell’hate speech non è intesa per tutti i gruppi e le identità, ma solo per quelli che hanno subito e sono ancora sottoposti a oppressione, marginalizzazione e discriminazione. Tipicamente: neri, donne, immigrati, gay e lesbiche, minoranze linguistiche e religiose.

La regolamentazione dell’hate speech viene sostenuta come eccezione giustificata alla priorità del diritto di libertà di espressione (particolarmente profonda nella cultura politica americana del Primo Emendamento alla Costituzione) nei casi in cui la libertà di offendere impunemente certi gruppi destabilizza il loro faticoso processo di inclusione fra i cittadini di serie a. Quindi mentre nessuno si sogna di porre limiti agli slogan operai contro i padroni, limiti all’hate speech sono richiesti per i gruppi neo-nazi che marciano nei quartieri ebrei, come a è successo a Skokie, o agli slogan razzisti e antisemiti degli ultras del calcio. L’obiettivo non è tanto quello di purificare il linguaggio da tutti i termini e le espressioni offensive, ciò che sarebbe impossibile e aprirebbe uno spazio indesiderabile alla censura, bensì quello di compensare pubblicamente le umiliazioni ai gruppi che hanno subito e tuttora subiscono esclusione e discriminazione. Insomma le offese che pesano, che contano come danno, sono quelle alle minoranze discriminate. Comunque la si prenda, la protezione dall’hate speech non sembra proprio potersi applicare alla chiesa cattolica, trionfante, pubblicamente sostenuta e legittimata nelle celebrazioni giubilari.

C’è poi un argomento finale che vanifica ogni protesta dei cattolici su presunte offese provocate o provocabili dai gay. Mentre il razzismo è un atteggiamento intollerante e in linea di principio intollerabile in una società democratica e liberale, poiché entra in collisione coi capisaldi della giustizia liberale, e quindi gli insulti razzisti costituiscono un’offesa non solo alle proprie vittime, ma alla comunità democratica nel suo insieme, diverso è il caso dell’orientamento sessuale verso il proprio sesso. Questo risulta offensivo solo per chi ritiene moralmente condannabile e perversa l’omosessualità. Ma questa posizione è di parte, come tale va tollerata nella società pluralistica, ma non può in alcun modo essere sottoscritta pubblicamente. Le autorità pubbliche che lo facessero abdicherebbero al loro ruolo di agenzia neutrale, garante d’egual rispetto e libertà per tutti e per ciascuno. Poiché frasi e esternazioni infelici hanno suscitato un sospetto non arbitrario di favorire in qualche modo la parte forte e di dare meno che eguale considerazione alla parte minoritaria, sarebbe opportuno che le nostre autorità dessero tutto il riconoscimento simbolico possibile alla manifestazione dei gay e fugassero questo spiacevole alone di subalternità alla sacrestia, allineandosi col resto del mondo occidentale al quale ci piace poi appartenere.

 

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