Nietzsche e il male
Maurizio
Ferraris con Ennio Galzenati
Questa intervista fa parte dell'Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche, un'opera realizzata da Rai-educational in collaborazione
con l'Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio
dell'Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario
Generale del Consiglio d'Europa. L'obbiettivo è quello di diffondere
nel mondo, tramite le nuove forme d'espressione e comunicazione
sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia
nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Professor Ferraris, nella nostra tradizione, lo spirito e la libertà
della quale lo spirito vive sono considerati come identici al bene. Questa tradizione è
antica almeno quanto il Cristianesimo ed è un tratto dominante della cultura occidentale.
D'altra parte, nell'ambito stesso della tradizione cristiana, il riconoscimento della
libertà dello spirito avviene all'interno di una visione complessiva nella quale è
fortemente sottolineato il rischio al quale lo spirito stesso è esposto, con le sue
produzioni e le sue attività. Cosa pensa a riguardo?
Tutto ciò è vero, ma credo vada ulteriormente sottolineata la dimensione del male che
può essere immanente alla nozione di spirito. Mi spiego meglio: noi vediamo bene che
all'interno del Cristianesimo, anche nella sua versione fondamentale, che è quella
paolina, c'è un grande elogio dello spirito come ciò che libera, ciò che redime, ciò
che è la base di ogni libertà; e d'altra parte, sempre nella stessa tradizione paolina,
vediamo una forma di violenza dello spirito, che però Paolo non sottolinea abbastanza. Il
modo in cui riceviamo lo spirito non è stato sottolineato da Paolo. Pensiamo alla
dimensione pentecostale, alla discesa dello spirito nel momento in cui gli Apostoli
prendono a parlare tutte le lingue, sono in grado di intendersi con tutti quelli che
saranno i destinatari del loro futuro messaggio, e quindi si elimina ogni differenza.
D'altra parte, però, questo fatto che decadano le differenze, che ci sia un radunarsi
dell'umanità secondo un'unica direzione, un unico ideale, ha anche al proprio interno una
carica di violenza: il fatto stesso che nella Pentecoste si sia il fuoco dello spirito,
che discende sopra alla terra e che tutto uniforma, ha un suo strato di violenza che
sovente si dimentica. Ma anche concesso questo, non è affatto detto che ciò sia un buon
motivo per dire che lo spirito è ideo facto il male, per dire che allora bisogna andare
al di là dello spirito portandosi verso qualcos'altro, che poi non si sa bene cosa possa
essere (la natura, forse). Ma proprio come non si può semplicemente condannare lo
spirito, non lo si può nemmeno semplicemente assolvere. La riflessione da svolgere, che
soprattutto la storia recente ci ha invitati a fare, deve riguardare anziché il discorso
a senso unico dello spirito come bene della libertà, della redenzione, eccetera, il
discorso dell'ambiguità dello spirito, di questa doppiezza che è immanente alla
spiritualità.
Nel Doktor Faustus di Thomas Mann, il rapporto con il male viene ripensato come culmine
di uno sforzo consapevole e viene posto in rapporto ai temi cruciali della cultura del
tempo dell'autore. Anche alla luce di questa importante opera, si può effettivamente
affermare che le nostre ultime esperienze vadano molto nel senso di un ripensamento del
rapporto tra il male e lo spirito? Mann rappresenta sicuramente una tappa importante, che
ha avuto il valore di essere anticipativa di riflessioni sviluppate in seguito; in secondo
luogo, attraverso l'uso del mezzo letterario, egli ha sicuramente reso più facile, più
evidente, più sensibile un interrogativo che era già presente all'interno della
riflessione filosofica, ma in maniera meno avvertita, meno chiara. E cioè: che cos'è il
male dello spirito?
Noi sappiamo che c'era sempre in Mann, e c'è stata ancora a lungo anche dopo la guerra,
una forma di separazione tra ciò che c'è di buono nella Germania - appunto la Germania
goethiana - e l'altra Germania, più demoniaca, più faustiana. Tuttavia, quello che Mann
dice nel Doktor Faustus è che anche questa Germania faustiana appartiene allo spirito, e
in fondo non c'è nulla di più spirituale di Faust. Lo spirito che sempre nega, la
volontà di negazione immanente al progetto di Faust, e quindi di Adrian Leverkühn (il
protagonista del Doktor Faustus), e quindi di Friedrich Nietzsche, che si nasconde dietro
il volto e la storia del compositore tedesco, sono pur sempre il frutto dello spirito; e
Mann ci dice anche di più: in una certa maniera, sono la quintessenza dello spirito.
Perché se spirito è negazione, questa volontà di negazione, di auto-oltrepassamento è
proprio lo spirito, non è qualcos'altro. Allora come si spiega che questo
auto-trapassamento possa portare verso il male? È qui che, come dire, la riflessione di
Thomas Mann si incontra, per esempio, con la Dialettica dell'illuminismo di Horkheimer e
Adorno, che viene scritto nello stesso giro di anni e, come dire, sotto l'influsso della
medesima esperienza, quella del conflitto europeo, di cui la Germania è una grande
protagonista. Horkheimer e Adorno tornano indietro e guardano alla dialettica
dell'illuminismo, cioè a cosa è stato storicamente l'illuminismo.
C'erano già state delle riflessioni immediatamente dopo la Rivoluzione Francese, che
mettevano in guardia dallo spirito come progresso, per ricollegarsi alla tradizione.
Invece, per Horkheimer e Adorno la questione è molto differente: loro non dicono che
bisogna tornare indietro alla maniera di De Maistre; loro affermano che c'è qualcosa di
terribilmente intricato nello spirito, che è al tempo stesso il male e il bene. Non a
caso, al riguardo, essi si rifanno a Nietzsche, allidea nietzscheana per cui bisogna
assolutamente diffondere l'illuminismo tra il popolo, perché il popolo sappia che tutti i
preti sono governanti e preti in cattiva coscienza, che tutto è una mascherata, quindi
bisogna diffondere l'incredulità tra il popolo. Ma Nietzsche ritiene anche che
l'illuminismo sia sempre stato lo strumento in mano ai grandi artisti del governo. Quindi
entrambi questi aspetti sono interni allo stesso fenomeno; il rischiaramento è, così,
ciò che permette l'emancipazione come ciò che determina la società amministrata.
Evidentemente, quando Horkheimer e Adorno parlavano di questo fenomeno avevano presente
una situazione molto più evoluta rispetto a quella dell'epoca della Rivoluzione Francese.
Del resto, per riprendere unidea di Adorno, in fondo la società dei consumi, delle
canzonette e via dicendo che cos'è se non la realizzazione perversa del progetto
hegeliano del sapere assoluto, e dello spirito che si è realizzato fin troppo bene?
Questo è il vero problema al quale Horkheimer ed Adorno ci invitano a pensare.
È chiaro che le implicazioni delle riflessioni di Horkheimer e Adorno vanno al di là
della semplice dimensione storica in cui furono concepite, nel senso che siamo di fronte a
questioni sicuramente dettate dalla catastrofe di una nazione, di una civiltà, di
un'epoca, ma che si radicano a un livello originario, e che abbiamo individuato a partire
dalla tradizione cristiana. Può parlarcene?
Questa idea dello spirito sicuramente precede la tradizione cristiana, il legame tra lo
spirito e la libertà è un legame di molto anteriore. Certo, è stato Paolo a dire che lo
spirito è libero, perché lo spirito spira dove vuole, mentre invece le cose che sono
determinate dalla natura sono sottoposte a necessità. Tuttavia, già nell'insegnamento
ellenistico, per esempio, c'è l'idea che ognuno si possa rendere assolutamente libero nel
momento in cui si toglie la vita: il togliersi la vita, questa fine del naturale che
sarebbe la nascita dello spirito, è precisamente la quintessenza della libertà; è un
luogo che viene anche citato da Montaigne nei Saggi quando ricorda un re macedone che
chiede ai Romani di essere liberato, di non essere portato in processione sul carro del
vincitore; il Romano risponde: "questa è una domanda che può rivolgere a se
stesso", cioè togliendosi la vita. Dunque, già prima del Cristianesimo vi è uno
stretto collegamento tra spirito e libertà, e assieme a questo vi sono anche gli aspetti
inquietanti ai quali facevo prima riferimento.
Ma rimaniamo per il momento sulla questione della libertà dello spirito: non è solo
l'aspetto faustiano di una nazione, non è solo la duplicità della modernità sotto la
forma della dialettica dell'illuminismo, è anche, per esempio, qualcosa che sta
all'interno della nozione stessa di umanismo. Intendo dire che l'umanismo è una delle
forme centrali del discorso dello spirito, perché dice che l'uomo è più spirituale del
resto del creato. Una cosa che, per esempio, Heidegger enuncia in maniera insieme
eloquente e inquietante, quando dice che solo l'uomo ha un mondo, mentre l'animale è
povero di mondo, e che, per esempio, una pietra non ha mondo. Possiamo sottoscrivere tutto
questo, e possiamo anche vedere il valore emancipativo che sta all'interno di questo
discorso. Infatti è chiaro che, per esempio, un discorso di questo genere - anche nel
momento in cui Heidegger lo faceva - poteva fungere da critica molto severa nei confronti
del biologismo, degli aspetti più inquietanti del nazismo, del tentativo di affidare
tutto a una specie di fatalità naturale. Invece no, l'uomo è più importante
dell'animale perché l'uomo ha capacità di scelta, ha un mondo che l'animale non ha, e
per la pietra è peggio ancora.
Ora, però, il discorso dell'umanismo è anche estremamente selettivo e fortemente
gerarchico. Questa caratteristica è già stata illustrata da Hegel nelle Lezioni
sullestetica, quando ricorda che gli Egiziani veneravano gli animali, tanto che i
loro dèi avevano sovente aspetto di animale, e talvolta nelle piramidi mettevano, al
posto del faraone, un animale imbalsamato, un bue Api. Ora, Hegel non sta facendo affatto
un discorso animalistico, ma tiene invece a servirsi di questa immagine per sottolineare
cosa succede nel passaggio dal mondo egiziano al mondo greco. Si pensi alla risposta di
Edipo alla Sfinge, che è per metà uomo e per metà animale: in sostanza, c'è già una
violenza dell'uomo sull'animale, perché la Sfinge precipita giù in un burrone, l'uomo
arriva alla propria essenza che lo è spirito, cioè l'autocoscienza, e conosce se stesso,
mentre l'animale non si conosce: l'animale è il tentativo mal riuscito, nella Sfinge, di
un volto d'uomo che cerca di uscire dal corpo di un animale, mentre Edipo è già uomo e
si può disfare della Sfinge.
Qual è il significato del riferimento hegeliano alla Sfinge?
Significa che l'animale in Grecia viene degradato nella caccia, in sacrifici e in
metamorfosi. L'animale, cioè, viene cacciato, è buono per essere sacrificato agli dei, e
se un uomo si comporta male viene trasformato in animale, come i compagni di Odisseo da
Circe. Ebbene, se da una parte abbiamo mille motivi per dire che un uomo è
assiologicamente o spiritualmente meglio di un animale, c'è comunque qualcosa di
impressionante nella gerarchia. Non nel senso che si debba rifiutare qualunque gerarchia,
ma che, per esempio, in questa gerarchia dello spirito si possa facilmente inserire
lidea per cui fra gli uomini ci ne sono di più o meno spirituali, o per cui vi sono
delle nazioni e delle culture più spirituali di altre nazioni e culture. Tra
laltro, può anche darsi che nei fatti le cose stiano esattamente così, ma in ogni
caso si deve stare attenti al diritto e badare alle conseguenze che unidea del
genere può portare.
A livello generale, comunque, ciò ci suggerisce che in ogni gerarchia dello spirito non
c'è solamente il bene, ma c'è anche il male. In fondo, la stessa esperienza pentecostale
che ho descritto nella prima risposta, la discesa delle fiamme dello spirito che consente
agli Apostoli di parlare in tutte le lingue e di eliminare tutte le differenze storiche,
la ritroviamo anche nei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte, dove è tratteggiato il
culmine dell'idea di una emancipazione dello spirito e anche l'iperbole di ciò che può
essere il male nello spirito. Fichte, inoltre, - in un altro passaggio che è stato
sottolineato in maniera molto significativa da J. Derrida in talune sue riflessioni - dice
che chiunque creda nello spirito, e abbia in mente l'idea di un progresso continuo
dell'umanità attraverso lo spirito, "Ist unsers Geschlechts", cioè è della
nostra razza, è della nostra stirpe, di qualunque razza egli sia e qualunque lingua egli
parli. Ebbene, nel discorso di Fichte troviamo entrambi i livelli.
Da una parte, il culmine del cosmopolitismo, perché si parla dello spirito dei tedeschi
in quanto guardiani della filosofia, che però è al tempo stesso lo spirito di tutti
coloro che, anche non tedeschi empiricamente, possono diventare prossimi a questo
orizzonte, nel momento in cui, ovviamente, crederanno nel progresso prospettato.
Dallaltra, però, vi è anche il culmine del nazionalismo, perché tutti quelli che
credono nello spirito devono diventare, in qualche modo, tedeschi. Certo, la circostanza
storica è particolare: Fichte sta facendo questo discorso nel momento in cui le armate di
Napoleone attraversano la Germania. Ma pur riconoscendo alla circostanza storica tutto il
peso che merita, resta il fatto che la sostanza del discorso di Fichte illustra bene
qualcosa che in qualche modo, più o meno oscuramente, si ricollega con quell'esperienza
pentecostale con la quale abbiamo iniziato questa conversazione.
In questo panorama, come va collocata la figura di Nietzsche?
Direi che la tematizzazione della non univocità del riferimento all'illuminismo, e la
sottolineatura della duplicità, della ambivalenza intrinseca all'illuminismo stesso sono
un po' un punto di partenza per avvicinarci a Nietzsche. In un certo senso, anzi, senza
dubbio si può affermare che Nietzsche sia sintomo e anche analista di questa duplicità.
La stessa nozione di volontà di potenza che è al centro del discorso nietzschiano è
proprio questo: tutto il mondo altro non è che volontà di potenza, e, a mio avviso,
quello che viene chiamato spirito non è altro che volontà di potenza. Nietzsche è molto
lucido in questo e, per esempio, tutta la sua polemica anticristiana, specialmente negli
ultimi anni, non è solo il retaggio del grecista. Intendo dire che, sicuramente, come
grecista Nietzsche ha sempre avuto questo tratto di denigrazione nei confronti del
Cristianesimo (anche se non va nemmeno dimenticato che era un figlio di un pastore, di una
tradizione di pastori e che stando alle ricostruzioni biografiche egli avrebbe affermato
di essere nato, come uomo, presso una canonica e che la prima memoria della sua vita
cosciente sia stata la morte di suo padre). In ogni caso, al di là del suo ideale
classicistico, egli ha sempre messo in chiaro, soprattutto, per esempio, con l'incredibile
e a volte incresciosa virulenza polemica dell'Anticristo, il fatto che anche gli ideali
cattolici e cristiani - l'umiltà, la sottomissiome, il rinunciare a se stessi e via
dicendo - in fondo sono sempre una forma di volontà di potenza. Anche nello schiavo, a
suo parere, c'è una volontà di potenza, una volontà che si nega ma che proprio per
questo si raddoppia, perché una volontà che nega se stessa è una volontà che si vuole
ancora di più.
A fronte di quanto ho appena detto, va però rilevato che un'analisi di questo genere, che
presuppone un olismo, una totalità della volontà di potenza, comporta anche il fatto - e
proprio in questo sta l'estrema coerenza del discorso di Nietzsche - che questa volontà
di potenza non può essere rifiutata, ma deve essere voluta e amata. Questo è l'aspetto -
per restare ai dati storiograficamente ovvi, licealmente evidenti - che segna la
differenza fra Nietzsche e Schopenhauer. Schopenhauer dice a tutto il mondo che noi
dobbiamo opporci e annullare questa volontà. Nietzsche dice che nello stesso rifiuto
della volontà c'è ancora una volontà, appunto quella che si nega: l'ascetismo, il
Cristianesimo, il Buddismo e via dicendo sono tutte forme di volontà che si nega, ma che
negandosi si afferma.
Come può esserci, in sintesi, una volontaria rinuncia al volere? E del resto, non va
nemmeno sottovalutato un altro punto di vista. La gente piange la scomparsa degli ideali,
quando capisce che tutte le cose che si erano credute sono in una fase di modernizzazione.
Tutto ciò che nel mito ci veniva trasmesso come positivo e più in generale i sistemi di
valore del passato poco alla volta, in un progressivo rischiaramento si rivelano delle
menzogne, delle credenze.
Qual è la reazione della gente a questo rischiaramento?
La gente reagisce creandosi dei nuovi valori ed entra in un circolo impressionante,
perché, andando avanti ancora un po', scopre che questi valori non sono che delle vecchie
finzioni, delle credenze, e piomba di nuovo nel pessimismo, in quello che Nietzsche chiama
il nichilismo reattivo. Nietzsche propone di essere e di procedere diversamente. Per
esempio, uno dei significati dell'eterno ritorno è in sintesi il seguente: invece di
crearci dei nuovi ideali, invece che rinunciare alla volontà, vogliamola ed amiamola
eternamente, facciamo questa prova. Ma il fatto è che se in questa proposta c'è una
consequenzialità filosofica, di fatto ci sono anche rischi che nessuno si può sognare di
nascondere. Infatti, non solo nella Volontà di potenza (l'opera compilata dopo la morte
di Nietzsche con criteri discutibili, ma comunque non falsificanti), ma negli stessi
frammenti postumi che sono serviti da base per la Volontà di potenza o anche in opere che
Nietzsche stesso ha pubblicato nel pieno delle sue facoltà, come la Genealogia della
morale, si legge davvero che i deboli devono essere soppressi.
Perché unaffermazione del genere? Certo, alla base di essa cè un discorso di
estrema coerenza e consequenzialità filosofica, ma al tempo stesso siamo anche di fronte
a una affermazione che si apre su un abisso, e questo abisso è ancora un abisso dello
spirito. Ovvero: Nietzsche non è entrato in tal modo nella fase del non-pensiero,
dell'ottenebramento e via dicendo; e non è nemmeno da politico, da ideologo che egli sta
affermando queste cose. Nietzsche sta parlando da filosofo, e rispondendo di problemi
filosofici. Se lo avesse fatto da ideologo, del resto, in fondo non avremmo problemi;
questa ideologia - diremmo - serve agli interessi di un individuo, di una classe, di un
ceto, di una nazione, e così la metteremmo da parte. Ma che cosa significa che un
filosofo dica questo? È ancora un filosofo nel momento in cui dice questo? Cessa di
essere un filosofo? Questi sono i problemi.
In Nietzsche il tema dell'aprirsi di una sorta di abisso può essere messo in relazione
col rapporto che il nazismo ha voluto stabilire con lui. Certo, si è trattato di un uso
in larga parte strumentale, ma che comunque è tale da costringerci, da obbligarci anzi, a
discuterne.
Senza dubbio l'uso è stato strumentale. Lo sappiamo bene, anche in base a una semplice
considerazione storica. Infatti non potremmo in nessun modo fare di Nietzsche un nazista,
se non ricorrendo alla più equivoca delle categorie, quella del precorrimento. Ovvero:
"cosa significa che Nietzsche avrebbe fatto delle cose pre-naziste? Cosa vuol dire
fare delle cose pre-naziste?" Non c'è praticamente nessuna somiglianza tra la
Germania guglielmina o bismarkiana e la Germania di Hitler; questo divario storico - che
non è così grande, ma che è comunque decisivo - fa sì che in nessun caso Nietzsche
avrebbe mai potuto prevedere i tempi che si facevano avanti. Fare di Nietzsche un nazista
sarebbe come dire che Aristotele, avendo ammesso lo schiavismo, sarebbe stato uno
schiavista nello stesso modo in cui lo era un proprietario terriero della Louisiana del
1860. Evidentemente non è vero, perché si tratta di situazioni differenti. Platone non
era certo un democratico, anzi era contro la democrazia, l'essenza della sua filosofia è
anti-democratica, ma in ogni caso non è con i criteri di una democrazia formale moderna
che possiamo giudicare il suo pensiero.
Va poi sottolineato altrettanto chiaramente che i nazisti si sono richiamati
all'insegnamento di Nietzsche in un modo strumentale, ed è stato tale per vari motivi.
Fra l'altro, quella di Nietzsche è stata una delle incorporazioni meno felici operata dal
nazismo. E questo fu riconosciuto dagli stessi nazisti quando dicevano di non poter
incorporare fino in fondo Nietzsche all'interno della propria ideologia, per una serie
tuttaltro che marginale di motivi: per il fatto che quella nazista era una ideologia
antisemita, mentre Nietzsche era filosemita; perché quella nazista era una ideologia
populistica - anche se i nazisti non la chiamavano proprio così - mentre Nietzsche era
assertore di una teoria aristocratica (ed è evidente che non si può fare una teoria
politica aristocratica e appoggiarsi al consenso delle masse). Questi aspetti hanno reso
Nietzsche molto meno utilizzabili di altri. Nel Mito del ventesimo secolo di Rosenberg
Nietzsche compare pochissime volte; mentre ricorre moltissimo il nome di Meister Eckhart,
perché rappresenta un modo di far ribellare il germanesimo allinsegnamento romano.
Inoltre, compare Lutero (ancora per l'autonomia dello spirito tedesco nei confronti del
cattolicesimo romano) e persino Schopenhauer. Può sembrare strano ma è così, perché in
Schopenhauer ci sono delle affermazioni assai più razziste che in Nietzsche, fermo
restando che non possiamo giudicare questi casi filosofici con lo stesso metro che
potremmo utilizzare per una ideologia.
Tuttavia, è anche vero che l'unico regime che abbia pensato di fare un qualsivoglia uso
dell'insegnamento di Nietzsche è stato quello nazista. Non sono state certo né le
democrazie occidentali a elaborare dei sistemi di insegnamento che si richiamassero a
Nietzsche, né tanto meno Stalin. Nietzsche, storicamente, per la serie di motivi
ricordati sopra non può assolutamente essere considerato nazista; ma, d'altra parte,
sarebbe altrettanto falso dire che era comunista. Anzi, le poche testimonianze che ci
restano del suo parere rispetto a queste cose dicono che Nietzsche del comunismo e del
socialismo sapeva ben poco, ma anche che per quel poco che ne sapeva era assolutamente
contrario. Tuttavia, dopo la guerra, si è anche cercato di far circolare una immagine
esattamente contraria. Ma perché lo si è fatto? Perché allora, a certe ideologie che
proponevano l'emancipazione, il carattere anche avanguardistico ed emancipativo del
pensiero di Nietzsche poteva andare bene. Da un punto di vista filosofico, una operazione
del genere è sempre legittima, ma come storicamente è inadeguato dire che Nietzsche era
nazista, è altrettanto storicamente inadeguato affermare che era comunista (con
laggravante del fatto che se egli non ha mai potuto esprimersi sul nazismo, che
ancora non esisteva, ha potuto esprimersi sul socialismo che già c'era, e abbiamo le
testimonianze in merito).
In che modo è stato operato e in che modo si dovrebbe operare quello che potremmo
definire il lavoro di denazificazione di Nietzsche?
Questo lavoro è stato fatto, ed è stato mosso anche da istinti nobilissimi, su cui
assolutamente non si può discutere. Infatti, nel momento in cui si criminalizzava un
pensiero, una cultura - e c'erano dei pamphlet spaventosi, dove, al di là di ogni
verosomiglianza storica, si vedeva in Nietzsche la causa della catastrofe tedesca, il
persecutore antisemita, il prefiguratore dei Lager e via dicendo- era fatale e doveroso
che si elaborassero, per così dire, dei controdiscorsi. Vi sono stati persino lavori,
come quello di Walter Kaufmann, Nietzsche: filosofo, psicologo, anticristo, dove si
affermava che la volontà di potenza in realtà era niente altro che la volontà di
libertà, e dove si paragonava Nietzsche a Dewey, il che effettivamente appare un poco
esagerato. Inoltre, in questo famoso libro che ha segnato un'epoca (è uscito nel 1950),
si affermava che quando nella Genealogia della morale Nietzsche parla della belva bionda,
in realtà non si riferisce solo a tribù tedesche, ma agli Arabi, ai Giapponesi, agli
antichi Romani e via dicendo; da un secondo punto di vista, inoltre, si affermava che
probabilmente quellimmagine non era una metafora, ma era proprio la descrizione di
una cosa vera: Nietzsche stava parlando del leone, cosicché con "belva bionda"
non voleva indicare una tribù teutonica, per celebrare la superiorità dei tedeschi.
Del resto, è anche vero che nella Volontà di potenza, raccolta postuma abusiva di
frammenti fatta dalla sorella e da Peter Gast, Nietzsche tratta anche malissimo i tedeschi
- segno fra l'altro che Peter Gast ed Elisabeth non ci hanno messo niente del loro,
ammesso che il loro, e ancora questo deve essere stabilito, fosse nazionalismo sfrenato.
Comunque, per restare su dati di base elementari, la Volontà di potenza, nella sua
versione cosiddetta definitiva, in 1067 aforismi, viene pubblicata nel 1906, e Hitler va
al potere nel '33. Questo quarto di secolo fa sì che non sia possibile che i due
compilatori avessero in mente un destinatario preferenziale delle loro cose; le loro
preoccupazioni, piuttosto, erano altre, per esempio quelle di non dispiacere alla chiesa.
Professor Ferraris, relativamente al tema della denazificazione di Nietzsche, va
sottolineato che essa è avvenuta con delle inevitabili forzature. Può parlarcene?
Come ci sono state delle tragiche forzature di Nietzsche all'epoca di Hitler, così ci
sono state delle grottesche forzature di Nietzsche all'epoca della denazificazione. E'
vero, però, che questa epoca è finita, o almeno si spera che lo sia. Se è finita non
sarebbe buona politica continuare a dire, come sovente si fa, che le cose che spiacciono
in Nietzsche siano state aggiunte da falsari, o che ci sia stata una falsificazione della
verità. Perché con questo noi, sì, potremmo anche cominciare a considerare Nietzsche,
per esempio, come un Voltaire o un Dewey, ma ci priviamo così della capacità di pensare
il problema della duplicità interna allo spirito, il fatto che ci sia un male nel
pensiero e che non sia così facile dire che appena il male si fa avanti non c'è più
pensiero. Forse così sarebbe tutto molto più facile. Il problema, invece, è che c'è
una terribile logica all'interno del male, che nasce dal pensiero e che è solidale al
pensiero.
Vale la pena citare Dello spirito, un saggio molto bello di Derrida su Heidegger e la
questione del nazismo. Ebbene, il nazismo non è nato nel deserto, lo si sa bene, ma
bisogna sempre riconoscerlo: nasce da tutto un insieme fatto di fedi, di religioni, di
credenze, da tutto ciò che - detto in una parola - si intende per mondo dello spirito.
Riconoscere questo è fondamentale nellottica della duplicità dello spirito, della
dialettica dell'illuminismo: non si tratta assolutamente di prendere partito per uno o per
un altro lato della questione, nessuno è chiamato a prendere posizione per lo spirito o
contro lo spirito. Ciò che occorre sapere ed è filosoficamente importante rilevare è
che c'è una duplicità dello spirito e che molte tragedie non si sono fatte contro lo
spirito, ma in nome dello spirito. Sarebbe aberrante, ma sempre possibile, dire che il
nazismo era anche un movimento spirituale e umanistico. In estrema sintesi, ciò che
occorre capire è se ci sia qualcosa nello spirito che non dico non funzioni, ma che possa
essere definito come un male ad esso immanente.
Il presente sembra caratterizzato da una sensibilità tutta diversa da quella che bene
o male si accompagnino al pensiero filosofico: le trasformazioni pratiche portano a una
frammentazione tale della nostra esistenza, che sembra quasi che ogni spazio per la
riflessione filosofica venga meno. In buona parte, questo andamento si riflette nel tipo
di formazione delle nuove generazioni. In un contesto del genere, come vede le
possibilità di incidenza dell'insegnamento della filosofia e come considera
l'organizzazione attuale di tale insegnamento?
Tutto quello che si collega all'idea dell'insegnamento filosofico non coincide
necessariamente con la filosofia, ma allude a una esigenza che non sia quella di un
insegnamento puramente tecnico, frammentato o simile. Quindi, secondo me, l'importanza
dell'insegnamento della filosofia può essere letta a due livelli. Il primo livello, più
strettamente specifico, è quello della necessità e dell'utilità, che è tutt'altro che
un'utilità pratica, di studiare la materia. È bene per chiunque studiare la filosofia,
quindi è bene che esista un insegnamento filosofico. E' ovvio che un insegnamento
filosofico non si possa impartire comunque e dovunque, e quindi è bene che ci sia un
ideale di cultura, discutibile quanto vogliamo, ma in cui l'insegnamento filosofico abbia
spazio. Ed è ovvio che ciò giustifichi lesistenza di scuole nelle quali si insegna
filosofia, licei in cui ci insegnano le lingue e le letterature classiche, tutto quel
patrimonio di sapere umanistico che noi sappiamo benissimo essere storicamente andato
degradandosi.
Questo non è avvenuto in seguito alla nascita della televisione, ma da molto prima.
Intendo dire che se noi facciamo il confronto tra il patrimonio di sapere classico che
poteva avere un uomo del '700 o un uomo dei primi anni dell'800 con il patrimonio di
sapere classico che qualcuno poteva avere all'inizio del '900, già registriamo una
decadenza. C'è una forma di analfabetismo di ritorno che è probabilmente indotto da
trasformazioni culturali gigantesche. Del resto, nella sua autobiografia Gadamer racconta
che suo padre, che era uno scienziato, un chimico, aveva un patrimonio di conoscenze
classiche migliore del suo in partenza: il liceo del padre, cioè, era stato un liceo
migliore di quello che aveva frequentato Gadamer, perché in questultimo caso vi era
stata una maggiore apertura alle lingue moderne (pure necessarie alle scienze), e cioè un
allargamento del patrimonio da impartire ai ragazzi. In sintesi, quello che è importante
mettere in chiaro è semplicemente che il vecchio ideale di insegnamento filosofico è
strettamente legato al vecchio ideale di studi classici, che sono necessari, che mancano
adesso più che un tempo; ma non da poco, come ho detto prima.
Il nostro tempo conosce anche problemi di genere diverso da quelli della formazione di
nuove generazioni: il nostro mondo attraversa, diciamo da alcuni anni, momenti di forte
tensione e drammaticità, nei quali i conflitti che sembravano sopiti o destinati a
scomparire si ripresentano con estrema violenza. A suo parere, la filosofia, la
riflessione filosofica in generale può inserirsi in questi processi di difficile
soluzione, o comunque assecondare gli sforzi di avvicinamento e di integrazione delle
diverse culture?
Nelle nostre speranze certamente, fermo restando il problema del male così come ne
abbiamo parlato nella nostra conversazione (e del resto, non si può condurre gli uomini
al bene; in generale non li si può condurre da nessuna parte). Non credo che la filosofia
possa intervenire direttamente a risolvere i problemi o a fare cose simili; ci sono stati
dei tentativi di Stati filosofici: alcuni non sono neanche nati (come il sogno di
Platone), altri sono stati realizzati più o meno bene, ma mai così bene come ci si
sarebbe immaginati. Questo fatto è di per sé sufficiente a concludere che non c'è un
intervento diretto della filosofia su queste cose. Tuttavia, restando ad un livello
triviale di riflessione, si deve affermare che è meglio che all'interno dei processi, dei
dialoghi, degli scambi, ci siano delle persone colte, ragionevoli e capaci di intendersi
reciprocamente, piuttosto che settari, ignoranti, bruti, analfabeti, maniaci religiosi,
eccetera, eccetera. Questo, però, è una pura ovvietà. Come dire: è meglio che gli
uomini siano buoni o che siano cattivi? È meglio che siano buoni! Ma una volta concesso
che è meglio che gli uomini siano intelligenti piuttosto che stupidi, bisogna tener
presente il fatto che la semplice intelligenza non è di per se stessa una garanzia di
risoluzione dei conflitti. Anzi, vi sono stati casi di persone intelligentissime che hanno
fatto dei mali tremendi, e non per sbaglio, ma proprio volontariamente. Quindi, non c'è
un'azione diretta della filosofia. Ovviamente, lo ripeto, è comunque preferibile che
lesercizio della filosofia sia presente, piuttosto che assente.
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