Se la Chiesa dicesse una parola
Gad Lerner
Questo articolo è apparso su la Repubblica
del 31 maggio
Una parola, una parola soltanto di accoglienza, di amicizia, d'amore, vorremmo sentire
rivolta all'indirizzo degli omosessuali dalla Chiesa che celebra il bimillenario
dell'evento cristiano.
Non è forse il Giubileo tempo di riconciliazione? Com'è possibile che non sia ancora
sortita dalla bocca di un cardinale, o del Papa stesso, una simile parola?
Più delle giravolte opportunistiche dei politici italiani, prigionieri di un malinteso
spirito di convenienza, nella penosa vicenda del Gay Pride stupisce l'apparente
indisponibilità al dialogo di chi guida la comunità dei credenti. Sordi e ostinati, fin
qui, nel puro e semplice diniego all'altrui diritto di manifestarsi in Roma. Offesi, e
basta.
Avevamo seguito con ammirazione lo sforzo di purificazione della memoria culminato nel
"mea culpa" quaresimale in San Pietro. Ci eravamo commossi sul Sinai e a
Gerusalemme per l'invito caldo a ritrovarci tra uomini di fedi diverse, ma accomunati
nelle radici originarie del Dio di Abramo. La rivelazione di Fatima ci aveva chiamato a
misurarci rispettosamente con l'interpretazione di un secolo vissuto dalla Chiesa come
strenua lotta contro l'ateismo.
E adesso ci chiediamo: possibile che un pontefice come Giovanni Paolo II, lui che ha
saputo sfidare il comunismo e aprire la Chiesa al dialogo col mondo, possa anche solo
ipotizzare -perfino questo abbiamo letto - di ritirarsi a Castelgandolfo in concomitanza
col corteo romano degli omosessuali?
E' davvero difficile spiegarsi quel che sta accadendo. Mai avremmo previsto che il Gay
Pride suscitasse un turbamento di tali dimensioni, fino ad essere considerato
potenzialmente una macchia nel Giubileo che la Chiesa stessa ha voluto più che mai vivo,
operante nella contemporaneità.
Sappiamo che la pratica dell'omosessualità è respinta dalla Chiesa "in quanto non
creata da Dio". E ricordiamo come nel 1994 papa Wojtyla condannò la risoluzione del
Parlamento europeo che legittimava le unioni omosessuali, sostenendo che vi si è
"conferito indebitamente un valore istituzionale a comportamenti devianti, non
conformi al piano di Dio". L'anno seguente un documento del Pontificio consiglio per
la famiglia si concludeva con una disposizione inequivocabile: "Le persone
omosessuali sono chiamate alla castità". Al massimo la Chiesa si dice disposta ad
accogliere con "rispetto, compassione e delicatezza" gli omosessuali, diciamo
così, non praticanti. E quella parola, "compassione", inscritta nel nuovo
catechismo, non poteva certo essere bene accolta dai movimenti gay. Anche se teologi
ufficiali come padre Gino Concetti giungono ad ammettere il diritto all'associazione degli
omosessuali "se a scopo umanitario e benefico", non di "propaganda".
Un rapporto difficile e travagliato, dunque. Un tabù che non sono riusciti a infrangere
neppure i gruppi di omosessuali credenti che pure sorgono sempre più numerosi anche in
Italia. Eppure è ben noto come la condizione omosessuale, per le persecuzioni e le
discriminazioni cui solo di recente comincia a sottrarsi, esalti molto spesso in chi la
vive una forte tensione alla spiritualità, alla ricerca di senso. Così come liberatoria
si configura finalmente l'accettazione pubblica di sé, l'uscita dal tunnel di una
sofferta clandestinità.
Possibile che la Chiesa non voglia interloquire, pur dal suo punto di vista, con un simile
processo di emancipazione? Possibile che agli omosessuali sia riservata solo l'evocazione
minacciosa di Sodoma e Gomorra? Nient'altro, proprio nient'altro che la prescrizione del
Levitico: "Non avrai con maschio relazioni che si hanno con donna; è abominio"?
Se oggi sempre più omosessuali rivendicano con orgoglio la propria identità, è per
legittima reazione a una società che ha sempre negato loro accoglienza e condivisione.
Non è chiaro, del resto, perché mai la loro pubblica ostentazione dovrebbe suscitare
nella Chiesa maggiore scandalo delle quotidiane pubbliche allusioni eterosessuali, di cui
sono zeppe le pubblicità e gli show trasmessi da televisioni per altri versi
ossequiosissime nei confronti del Vaticano.
La verità è che la controversia del Gay Pride sta precipitando in una spirale
incontrollata di provocazioni e reazioni al fondo della quale - possiamo già scommetterci
- sarà il concetto laico del rispetto reciproco a rimetterci. Come in una profezia che si
autoavvera, i nemici irriducibili del Gay Pride stanno favorendo l'esplodere al suo
interno di deprecabili manifestazioni anticlericali, se non addirittura blasfeme. Così,
subito dopo, avranno la magra soddisfazione di proclamare: "Ve l'avevamo detto".
Le prese di posizione contorsionistiche di Amato e Rutelli, i maldestri tentativi di dare
un colpo al cerchio e un colpo alla botte, finiscono solo per esasperare gli animi e
offuscare il principio liberale della libertà d'espressione. I gay arriveranno ugualmente
a Roma, ma sentendosi qui male accolti e mal tollerati. A chi conviene che vada a finire
così?
Forse gli omosessuali militanti non hanno molta dimestichezza con le categorie della
misericordia e dell'accoglienza. Ma se non sbaglio si tratta pur sempre di concetti
cristiani. "C'è anche una Chiesa accogliente, una Chiesa che accompagna, che
dialoga, che si confronta nella fede con gli omosessuali", ha scritto nei giorni
scorsi padre Alberto Fanton, direttore della rivista francescana "Credere oggi".
E ha aggiunto: "Solo chi ne è stato soggetto sa quanto sia avvilente essere
incompresi, non capiti o addirittura emarginati per un atteggiamento prevenuto nei propri
confronti".
Speriamo ancora che a Roma si levi una voce. Siamo ancora in tempo.
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