Caffe' Europa
Attualita'



Riflessioni sulla rinascita americana

Marco Vitale

"L’America è la versione originale della modernità, noi ne siamo la versione doppiata e dotata di sottotitoli. E’ questo che, qualunque cosa accada, ci separa dagli Americani. Non li raggiungeremo più, e non avremo mai il loro candore. Non facciamo che imitarli, parodiarli con cinquant’anni di ritardo e, del resto, senza successo".
Jean Baudrillard
(L’America, Feltrinelli 1987 ed. orig. Grasset & Fasquelle 1986)

"Il navigatore europeo non si avventura che con prudenza sui mari; egli parte solo quando il tempo gli conviene, se gli avviene un accidente imprevisto rientra subito in porto; la notte ripiega una parte delle sue vele e quando vede l’oceano imbiancarsi e l’avvicinarsi delle terre rallenta la sua corsa e interroga il sole. L’americano non cura queste precauzioni e sfida ogni pericolo. Egli parte mentre la tempesta dura ancora, la notte come il giorno spiega ai venti tutte le sue vele, ripara durante la marcia ogni danno alla sua nave, e infine, quando si avvicina al termine del viaggio continua a volare verso la sponda come se fosse già in porto. L’americano naufraga spesso ma non ci sono naviganti che traversino i mari più rapidamente di lui. Facendo le stesse cose di un altro in minor tempo egli può farle con minori spese. Prima di giungere al termine di un lungo viaggio, il navigante d’Europa crede utile toccare terra più volte sul suo cammino. Perde del tempo prezioso a cercare un porto di rifugio o ad attendere l’occasione di uscirne, e paga giornalmente i diritti di sosta. Il navigante americano parte da Boston per andare a comprare del tè in Cina. Arriva a Canton, ci resta qualche giorno e riparte. Egli ha percorso in meno di due anni la circonferenza intera del globo e ha visto la terra una volta sola. Durante una traversata di otto o dieci mesi ha bevuto acqua salmastra e ha vissuto di cibi sotto sale, ha lottato senza tregua contro il mare, contro le malattie, contro la noia, ma al suo ritorno può vendere la libbra di tè un soldo meno del mercante inglese. Lo scopo è raggiunto"
Alexis de Tocqueville (1835)

"Non vendete l’America al ribasso". Chi mi disse queste parole, usando un’espressione del gergo borsistico, fu un grande vecchio americano, l’economista "liberal " Hyman Minskey, scomparso pochi anni fa. Siamo nei primi anni ’80 e stiamo camminando lungo i sentieri di montagna sopra Rima in Val Sesia, in una splendida giornata di sole. In questa abbagliante luce alpina che esalta le varie gradazioni di verde della valle, parliamo della grigia e triste America, ancora immersa nell’atmosfera dei terribili anni ’70.Sulle spalle di quell’America pesano la successione degli assassinii del Presidente John Fitzgerald Kennedy, del quasi presidente Robert Kennedy, dell’uomo che, sfidando la maggioranza bianca sul fronte dei suoi valori fondanti e della sua stessa retorica, predicava l’antico sogno americano di uguaglianza, di pacificazione e di cittadinanza, Martin Luther King ; le dimissioni forzate del Presidente Nixon travolto dallo scandalo Watergate che fa seguito allo scandalo Agnew; la più impopolare guerra della storia degli Stati Uniti persa in Vietnam dai "The Best and The Brightest"; il dollaro allo sbando; l’inflazione anzi la "stagflation" indomabile; il doppio deficit commerciale e di bilancio che sembrava senza limiti; l’America umiliata dall’OPEC sul fronte del petrolio, dal Giappone sul fronte del "made in Japan" ed infine dall’Iran sul fronte politico; le grandi città, come New York e Chicago, invivibili; la grave crisi economico-organizzativa dei grandi miti americani dalla Ford alla General Motors alla Panam ; la disoccupazione in continua crescita dall’inizio degli anni settanta sino a superare l’indice del 10% nel ’75 (ma l’indice per la popolazione negra giovane superava il 40%). Il 15 settembre 1974 i ventotto più eminenti economisti del paese vennero convocati alla Casa Bianca dal mite presidente Gerald Ford per dibattere, per sette ore, seguiti alla televisione da decine di migliaia di ascoltatori, sui mali dell’economia americana.

Gli economisti avevano scoperto la teoria della "explosion of expectations". Tutti questi mali, e soprattutto l’inflazione, sarebbero fondamentalmente frutto delle "aspettative crescenti" che il sistema economico non è, in alcun modo, in grado di soddisfare. Quello che è necessario è abbassare le attese: cari americani la festa è finita; mettetevi il cuore in pace; d’ora in poi sarete sempre più poveri. Questo è il messaggio centrale della larga maggioranza della congrega degli economisti. Così si fanno chiamare; in realtà sono moralisti, interpreti moderni della teoria biblica delle Sette Vacche Magre che devono seguire le Sette Vacche Grasse. Ragionano più o meno come ragionava il segretario del PCI italiano Enrico Berlinguer che, in quegli stessi anni, in Italia, in un paese che aveva bisogno di investimenti, produttività, innovazione, occupazione, predicava l’austerità .Le biblioteche incominciano a riempirsi di best sellers, che nel corso degli anni ’80 diventeranno una valanga, su tre filoni: la Crisi Americana (è questo il titolo di un saggio di Alberto Ronchey del 1975); il management giapponese come numero uno; la necessità di restaurare la competitività americana nella produzione di beni.

Ma quando nel 1981 incontrai a New York un consulente economico di Reagan, un brusco banchiere d’affari, questi mi disse: "L’industria tessile? Non ci interessa. L’industria siderurgica? Non ci interessa. L’industria meccanica? Non ci interessa".- Ma "allora , che cosa Vi interessa?" chiesi. "Ci interessano solo cinque cose : chiudere con l’OPEC la partita del petrolio; ritornare ad essere "padroni" del valore del dollaro; la ricerca e sviluppo; le nuove tecnologie; la finanza". Mi sembrò allora una posizione esasperata e, per vari anni, la criticai ricordando questo episodio con qualche ironia. In effetti dovranno arrivare gli anni ’90 per farmi capire il senso profondo e la prospettiva lunga di quelle parole e di quella visione, anche come via per rivitalizzare le industrie tradizionali.

Mentre saliamo lentamente verso il dosso dal quale potremo ammirare la sfolgorante parete del Monte Rosa, Hyman Minskey mi spiega perché non dobbiamo "to sell America short". Gli americani - mi dice - sono tenaci e quando le cose vanno male, mettono giù la testa, si chiedono che cosa non va, dove hanno sbagliato, come è possibile rimediare, che cosa individualmente ciascuna persona o ciascun gruppo può contribuire. Ed incominciamo a rimediare, ognuno nella sua sfera, ognuno per la parte di sua competenza. Il grande patto neocapitalista tra le elites politiche e del "business" , impostato da Roosvelt negli anni ’30 ma che si perfezionò solo durante la guerra con una nuova generazione di manager imprenditoriali, ha tenuto per circa venti anni, producendo grandi frutti non solo per l’America ma per tutto il mondo. Nel frattempo, ed anche grazie a questo successo, vi sono stati grandi cambiamenti, come il formidabile sviluppo dell’Europa e del Giappone che hanno cambiato il quadro mondiale, mentre altri grandi cambiamenti premono sulla soglia. L’America si è un po’ seduta ma ora si è rialzata ed ha ricominciato a lavorare per il nuovo mondo, i cui profili sono ancora incerti e difficili da decifrare, e per la sua posizione in esso. L’unica cosa che sappiamo, perché le nuove tecnologie ce lo suggeriscono oramai con qualche certezza, è che nel nuovo mondo gli spazi per l’intraprendenza personale aumenteranno e non diminuiranno; che le grandi strutture burocratiche saranno perdenti sino a quando non ritorneranno ad essere flessibili e creative; che lo spazio per le innovazioni e per le piccole imprese innovative è destinato a crescere; che l'America è l’unico paese al mondo che ha una rete di "venture capital" capace di affrontare queste tendenze muovendo velocemente il capitale dai vecchi luoghi di accumulazione ed indirizzandolo a fecondare i luoghi dove sta nascendo il nuovo. Tutte queste tendenze sono molto congeniali all’America. Per questo non vendete l’America al ribasso. Questo mi diceva Hyman Minskey, salendo lentamente sulle pendici del Monte Rosa all’inizio degli anni ’80. E non era un reaganiano che parlava; era un "liberal", un democratico, uno che si era formato sulla scia di Roosvelt.

Ripenso alle parole di Minskey osservando la vitalissima New York di oggi, piena di progetti, di slanci, di "aspettative crescenti" come non mai. Dove è finita la New York fallita che abbiamo visto a cavallo degli anni ’60 e ’70, quando venire a New York era diventata una sofferenza? Ho appena concluso una giornata di lavoro con un gruppo di "venture capitalist" americani. All’inizio degli anni ’80 quando discutevo con Minskey la quota del venture capital negli investimenti globali non superava 1/10 dell’1 per cento. Nel 1999 i fondi di "venture capital" hanno investito l’equivalente di quasi 50 miliardi di Euro, pari ad una crescita del 152% rispetto al già elevato livello dell’anno precedente. I due terzi sono andati a imprese nuove che, in un modo o nell’altro, si ricollegano al commercio elettronico ed alle nuove tecnologie informatiche. Dopo la giornata di lavoro ci accingiamo ad una ottima cena in un affascinante ristorante ai piedi del ponte di Brooklyn. Davanti a noi una Manhattan, sfolgorante di luci e bellissima come non mai, ci proietta l’immagine dell’America trionfante di oggi. Il "dinner speaker" è il presidente esecutivo di uno dei più importanti Gruppi di fondi di "private equity e venture capital" del mondo. Ha 45 anni. Guida un complesso che gestisce alcune decine di miliardi di dollari. Ha avuto una giornata pesante e giunge con un po’ di ritardo; so che ha dei problemi seri in famiglia; dopo la cena dovrà fare quasi due ore di macchina per raggiungere la sua famiglia. Eppure non manca al suo appuntamento e sta con noi sino alla fine; è gentilissimo, sereno, semplice e cordiale; fa un discorso altamente professionale ed interessante sulla nuova America. Ma è proprio così nuova questa America? Dopo 23 ore dal suo arrivo a New York, nel 1831, il ventiseienne sconosciuto Tocqueville veniva ricevuto dal Governatore di New York e la sua prima nota del diario da quando aveva messo piede in America fu la seguente: "Sembra che qui regni la più grande uguaglianza, anche tra quelli che nella società occupano posizioni molto differenti. Le autorità paiono straordinariamente avvicinabili".

Come non ricollegare tutto ciò, compreso il fatto che il "venture capital", in un solo anno, abbia riversato tanto denaro sulla rischiosa "new economy", ai temi delle origini, alle radici della cultura americana, ai grandi spazi liberi che, forse, non esistono più ma che hanno stampato nel DNA americano l’impronta indelebile della spinta verso la nuova frontiera che da fisica si è fatta intellettuale, morale, organizzativa? Come non ricordare e non fare un collegamento con le parole di Alexis de Tocqueville (la democrazia in America 1835 - 40)? :
"Il problema difficile a risolvere è come mai gli americani possano navigare a più basso prezzo degli altri: si è tentati dapprima di attribuire questa superiorità a qualche vantaggio materiale che la natura abbia messo a loro sola disposizione, ma non è così. La navi americane costano pressappoco nella costruzione come le nostre; esse non sono meglio costruite e durano in generale un tempo minore. La paga dei marinai americani è più elevata di quella dei marinai d’Europa e ne è prova il gran numero di europei che si trovano nella marina degli Stati Uniti. Come avviene dunque che gli americani navighino più a buon mercato di noi? Penso che invano si cercherebbero le cause di questa superiorità in vantaggi materiali; essa proviene da qualità puramente intellettuali e morali… L’abitante degli Stati Uniti non è mai fermato da un assioma di stato; sfugge a tutti i pregiudizi di professione ; non è attaccato a un sistema di operazione più che a un altro ; né a un metodo antico più che ad uno nuovo; non si è creata nessuna abitudine e si sottrae facilmente al dominio che le abitudini straniere potrebbero esercitare sul suo spirito, poiché sa che il suo paese non assomiglia a nessun altro e che la sua situazione è nuova nel mondo. L’americano abita una terra di prodigi; intorno a lui tutto si muove continuamente, ogni movimento sembra un progresso. L’idea del nuovo è quindi nel suo spirito intimamente legata con l’idea del meglio. Da nessuna parte egli vede limiti messi dalla natura agli sforzi dell’uomo; ai suoi occhi non c’è nulla che non sia ancora stato tentato. Il movimento universale che regna negli Stati Uniti, i frequenti cambiamenti di fortuna, i frequenti e imprevisti spostamenti di ricchezze pubbliche e private, tutto contribuisce a mantenere nell’animo una agitazione febbrile, che lo dispone mirabilmente a ogni sforzo e lo mantiene, per così dire, al di sopra del livello comune dell’umanità. Per un americano la vita intera passa come un gioco d’azzardo, un tempo di rivoluzione, un giorno di battaglia. Queste stesse cause operando insieme su tutti gli individui finiscono per imprimere un impulso irresistibile al carattere nazionale. L’americano, preso a caso, deve essere quindi un uomo ardente nei desideri, intraprendente avventuroso ma soprattutto innovatore".

Qualità intellettuali e morali, dunque, basate, guidate ed alimentate da un forte spirito innovatore, che ha ancora oggi le sue radici più autentiche nella spinta innovatrice che animava gli uomini e le donne che hanno fondato l’America fuggendo dalla vecchia Europa.

Nel 1981, centocinquant’anni dopo, il giornalista Richard Reeves ha ripercorso il viaggio di Tocqueville e Beaumont, confrontando, con gli stessi metodi, luoghi e persone con le descrizioni risultanti da tutti i testi lasciati da Tocqueville e Beaumont, comprese le interessantissime lettere. Al termine del viaggio, nel 1982, Reeves ha pubblicato il suo resoconto: "Viaggio Americano, Sulle orme di Tocqueville alla ricerca della democrazia in America " (originale 1982, traduzione italiana in edizioni di Comunità 1983). Certamente tante sono le differenze tra quell’America di 13 milioni di pionieri visitata da Tocqueville e Baumont e l’America di oggi dove solo gli impiegati delle varie amministrazioni pubbliche si aggirano sui 20 milioni. L’America di allora era giovane, ora sta anch’essa diventando vecchia. L’America di allora era fortemente razzista ("Il maggiore di tutti i mali che minacciano l’avvenire degli Stati Uniti nasce dalla presenza dei negri sul loro suolo" scriveva Tocqueville). Oggi il problema sembra se non eliminato, esorcizzato e tante altre minoranze, soprattutto dall’Oriente e dal Sudamerica, hanno trovato in America spazio e dignità e la stanno fecondando con i loro talenti. Allora i pionieri erano europei. Oggi in America arrivano talenti da tutto il mondo; nella Silicon Valley una società nuova su tre è diretta da un indiano. L’America di allora era basata sui piccoli imprenditori. L’America di oggi, nonostante la rinnovata vitalità delle piccole imprese è, pur sempre, l’America delle grandi concentrazioni, soprattutto nell’informazione. Tocqueville teorizzava il pericolo della tirannide della maggioranza. Ma il sindaco di New York afferma: "Se oggi esiste una tirannide, è la tirannide di una minoranza. Dell’élite". E Reeves commenta: "la potente minoranza con cui se la prendeva il sindaco della più grande città del paese aveva poche ricchezze e nessun soldato. Aveva soltanto una cosa: le informazioni". La posizione della donna è profondamente cambiata. Il ruolo del governo federale è profondamente cambiato, divenendo molto più pervasivo, penetrante e centralista. La differenza tra l’uomo della città e della campagna è sparita. Oggi l’America ha il più potente esercito del mondo; allora l’esercito era di 6.000 uomini e la flotta di poche navi.

Tantissime cose, quasi tutto è cambiato sul piano fisico e sul piano dell’organizzazione economico - sociale da quell’America dove si potevano ancora percorrere le piste degli indiani tra i boschi. E tante cose sono cambiate anche sul fronte dell’etica pubblica e della psicologia sociale. Ma ciò che più mi colpisce, sia nell’esperienza quotidiana di lavoro che nei migliori libri che tentano una lettura della complessa America di oggi, è la persistenza tenace e profonda di alcuni valori di fondo, tutti individuati con chiarezza da Tocqueville e che costituiscono l’essenza dell’identità americana, del sogno americano, che vale ancora per i vecchi americani e per i nuovi e, spesso, vale con più forza per i nuovi che per i vecchi. Constatazione questa che porta Reeves a concludere, pur dopo aver evidenziato con acume le differenze con l’America di allora, e dopo aver identificato nella liberalizzazione delle immigrazioni (che iniziò nel 1965 dopo 50 anni di forti restrizioni e che ha determinato la seconda maggiore ondata di immigrazioni dopo quella del 1901 - 1910) uno dei fattori critici della rinnovata vitalità americana, con queste parole: "E’ così che si ritiene funzioni l’America. Per molti anni e per molta gente ha funzionato; per molti funziona ancora. Ma il Sogno ha bisogno di sognatori. Non può reggersi sui lavoratori dell’industria automobilista che chiedono più soldi per risarcirsi della meccanizzazione della vita di fabbrica, né sugli studenti del Mit che sperano di dare una definizione nuova al termine ambizione, come modo di realizzare senza sacrifici i loro sogni personali. Il Sogno americano ha sempre bisogno di nuovi americani, e si possono creare molto in fretta, con gli inglesi, i polacchi, i messicani. Le idee dell’America sono sufficientemente potenti. Sinora, per la maggior parte della gente e per la maggior parte del tempo, niente sembra preferibile alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità".

In effetti io trovo oggi un’America ancora più vicina, rispetto a quella del 1981, al di là dell’esplosione delle nuove modernità, agli antichi spiriti ed agli antichi valori. In mezzo vi è stata, infatti, la rivoluzione reaganiana. Io penso, infatti, che non si possa capire la rinnovata vitalità dell’America, l’America trionfante degli anni ’90, senza passare per l’America reaganiana, senza dare il giusto peso all’effetto che la ripresa degli "old values" ha avuto nel forgiare "the new politics", in quasi tutti i segmenti della società americana.

Nel 1959 il vice-presidente degli Stati Uniti Nixon scriveva ad un modesto sostenitore dal nome di Ronald Reagan: "Lei ha l’abilità di tradurre temi complessi in termini che tutti possono capire, Quelli di noi che hanno passato alcuni anni a Washington troppo spesso perdono la capacità di esprimersi in questo modo, con tanta chiarezza". Trent’anni dopo, avendo trascorso alcuni anni a Washington, Ronald Reagan lascerà la Casa Bianca senza aver perso la sua dote di saper parlare con chiarezza. Tanto che, anche dopo il deplorevole ed infelice affare Iran-Contra la sua popolarità resta tanto alta che, nel 1987, i sondaggi lo indicano nuovamente vincente se potesse ancora "correre" per la presidenza nel 1988. Ma il successo reaganiano non è solo questione di straordinaria popolarità; i sondaggi della Casa Bianca, nel 1984, momento di vertice della popolarità di Reagan, indicano che solo l’otto per cento dei suoi sostenitori lo sostiene per il suo fascino personale e per le sue doti di grande comunicatore. E’ anche questione di idee, di obiettivi, di credo. E questi vengono da lontano, sono radicati in valori tradizionali molto sentiti dal popolo americano, sono controcorrente rispetto alle tendenze dominanti da decenni, hanno fatto le loro prove, come si usava un tempo, a livello di Stato e di governatorato, sono in sintonia con i tempi. "Nel 1980 gli elettori avevano bisogno di una riconferma e riaffermazione degli antichi valori " (J.K. White). Dal 1973 al 1980 non più del 20% dei cittadini americani pensava che il paese fosse "on the right track". Nel 1979 la maggioranza degli americani pensava che al termine dei prossimi cinque anni la propria situazione personale sarebbe stata peggiore. "Un "gap" di valori tra governanti e governati era diventata una delle caratteristiche dominanti dell’America. Prima delle elezioni del 1980 "il gap" si era allargato sino a diventare un Grand Canyon"(J.K. White). Nel 1976, correndo contro Ford, Carter aveva lanciato "the misery index" ottenuto con la somma dell’indice dell’inflazione e di quello della disoccupazione. Nel 1976 il "misery index" era 12; nel 1980 era salito a 20. Troppo facile per Reagan fare ironia sull’indice della miseria di Carter. Le idee di Reagan sono chiare, pesate, coerenti, sperimentate. Egli crede a queste idee che professa da quando, per la prima volta, si impegna in politica negli anni ’60. Ma egli non è un solitario simpatico cow-boy. Egli è solo il grande comunicatore di un movimento di pensiero che si è andato forgiando nella crisi degli anni ’60 e ’70 e che è formato da persone spesso di alto valore intellettuale e molto influenti, che hanno riflettuto a lungo sul declino dell’autorità tradizionale, sugli eccessi di democrazia e di assistenzialismo, sulla perdita d’identità degli USA nelle relazioni internazionali. Sono i neo- conservatori, così acutamente descritti da Peter Steinfels, nel 1979 nel suo libro: "The Neoconservatives" I neoconservatori vogliono cambiare l’America, vogliono ricuperare l’America. Reagan chiama i cittadini ad "a new beginning" ,ad un nuovo consenso basato sul tradizionale credo americano sul valore dell’impegno personale e sulla fiducia nello sviluppo e nel miglioramento continuo: "Non permettete a nessuno di dire che i giorni migliori dell’America sono alle sue spalle, che lo spirito americano è svanito. Noi lo abbiamo visto trionfare troppe volte nelle nostre vite, per smettere di credere in esso… Noi siamo il partito delle opportunità, il partito di tutti gli americani - donne e uomini, neri e bianchi - che crediamo che l’intrapresa individuale e non il grande governo sia alla base della prosperità e della libertà" L’epoca della teoria delle aspettative eccessive è superata. Nel 1984 il National Opinion Research Center scopre che l’84 per cento concorda nel ritenere che "l’America è una società aperta. Ciò che uno realizza nella vita non dipende dal background familiare ma dalla sua personale capacità e dalla sua istruzione". Siamo nel cuore del credo americano che Reagan rivitalizza. " Nel 1985 Lance Tarrance, esperto di sondaggi del Partito Repubblicano, mette a fuoco, con grande lucidità, il cambiamento portato dalla rivoluzione reaganiana: "per trent’anni il partito repubblicano ha tentato di vincere sui temi della ridistribuzione del reddito. Abbiamo sempre perso. Così abbiamo creato un territorio totalmente nuovo chiamato nuova crescita e futuro. Reagan è il leader simbolico di questo movimento… I democratici invece stanno proteggendo lo status quo. E’ veramente affascinante osservare ciò perché i repubblicani sono stati tradizionalmente status quo e orientati a favore dell’establishment, mentre i democratici erano per il cambiamento. Oggi la posizione si è ribaltata". E’ un fenomeno che abbiamo visto anche altrove: i progressisti promuovono lo Stato sociale e lo Stato sociale, debordando, trasforma i progressisti in conservatori, obbligandoli a difendere le categorie più protette ed assistite. Non è un caso che nel 1984 Reagan raccoglierà la grande maggioranza del voto dei giovani.

Nel 1972, per la prima volta nella storia americana, la spesa federale per il sostegno dei redditi, per la salute e per l’educazione supera la spesa militare. "Ora siamo tutti keynesiani" commenta Nixon. Ma, otto anni dopo, nel 1980, Reagan dirà: " Il Governo è diventato troppo grande, troppo burocratico, troppo dissipatore, troppo irresponsabile, troppo noncurante della gente e dei suoi problemi". Ma Reagan non sa solo dire parole, sa anche fare fatti. Nell’agosto 1981, Reagan firma la legge che realizza la più grande riduzione fiscale della storia: ventitré punti percentuali tagliati in tre anni. Nel 1984 l’economia cresce vigorosamente; l’inflazione è scesa dal 12.4 al 4.1 percento; gli interessi sono diminuiti dal 21.-5 al 12 percento; l’indice di disoccupazione è ancora al 7 percento, ma si tratta, pur sempre, di un grande miglioramento rispetto al 10 per cento del 1982; l’indice della miseria è quasi dimezzato. Nel 1980 Reagan aveva detto: "uno dei miei sogni è di aiutare gli americani a superare il pessimismo, rinnovando la fiducia in se stessi". E nel 1987 un imprenditore intervistato sulle ragioni della ripresa dell’economia americana commenta: "la ragione per cui questo paese sta andando meglio è perché siamo stati portati a credere che può andare meglio". Lo stratega politico di Reagan, Wirthlin lo aveva ben consigliato: "La primaria funzione di leadership del presidente americano è di riaffermare costantemente gli obiettivi più elevati del paese e la possibilità per l’individuo di influenzare positivamente, grazie ai suoi sforzi, il corso delle cose".

Altri grandi campi di azione furono la deregolamentazione di tante attività che, al di là di alcuni eccessi, fu un grande successo e rappresentò un altro passaggio essenziale per infondere nuovo dinamismo e competitività alle imprese americane, e lo sforzo per ridare forza ed autonomia, anche finanziaria alle comunità locali ed agli Stati (quasi spariti sotto il peso dello Stato federale sempre più invadente). Anche il principio del "New Federalism" reaganiano è basato su un principio antico, il principio di sussidiarietà, proprio della teoria e della pratica federalista: "dobbiamo usare il livello di governo più vicino alla comunità interessata per tutte le funzioni che questa può svolgere". Il movimento di rinascita delle città americane, che nel corso degli anni ’90 darà anche corpo al filone di pensiero "Reinventing Government (Osborn, Gaebler, 1993) inizia dagli sforzi reaganiani di rilanciare il "New Federalism". Il 79% percento della popolazione appoggia il "New Federalism" di Reagan. Il 67 percento concorda sul fatto che: "negli anni ’60 e ’70 la crescita senza controllo del Governo federale ha fortemente contribuito al collasso della nostra economia, alla perdita di fiducia nelle nostre istituzioni ed ha messo in pericolo i fondamenti della nostra libertà".

La riprova della profondità della trasformazione realizzata dai neo-conservatori di Reagan, la si trova proprio nelle dichiarazioni e nei documenti del partito democratico. Nel 1986 un documento emesso dal Democratic National Committee, denominato "Democratic Creed" enumera i componenti di tale credo così: ""la libertà di scelte personali è il cuore del sogno americano"; "gli individui devono essere responsabili per le loro vite"; "il poter cogliere le opportunità è fondamentale per una società libera"; "un’economia in crescita è il fondamento di una società che sia allo stesso tempo dinamica e giusta"; "il raggiungimento di obiettivi personali e il progresso sono centrali per le attese degli americani; governi locali e stati forti sono essenziali"; "l’America deve essere forte per scoraggiare l’oppressione e mantenere la pace": "il reaganismo è ormai diventato un fattore politico della vita ordinaria che trascende i partiti" (J.K. White).

Certamente l’epoca reaganiana ha lasciato un debito pubblico elevato. Si disse che il debito accumulato da Reagan, un trilione di dollari, era più alto del totale debito accumulato dalla presidenza di George Washington sino a quella di Jimmy Carter. Ma tale debito non supererà mai il 30% del PNL, collocandosi sempre nella media dei maggiori paese industrializzati ed a partire dall’86, grazie alla crescita, tenderà a stabilizzarsi. Questa è la riprova che nella vita dei Paesi non è tanto l’elevatezza del debito quello che conta, quanto la sua natura, le sue origini ed il suo utilizzo. Anche l’Inghilterra che uscì vittoriosa nello scontro con Napoleone, nel 1815, aveva un debito elevatissimo, molto maggiore di quello della sconfitta Francia. Ma l’aveva bene impiegato, per battere Napoleone appunto. Ed iniziò il suo grande sviluppo; iniziò il secolo degli inglesi (1815-1914). Già un altro presidente aveva in campagna elettorale promesso un taglio della spesa del 25 percento sino a raggiungere l’equilibrio di bilancio e, per fortuna, non mantenne la promessa. Si chiamava Roosvelt ed eravamo nel 1932. In seguito Roosvelt spiegherà che l’aumento anziché la riduzione del deficit era dovuto alle agenzie speciali create per combattere la disoccupazione e che lui aveva mantenuto la sua promessa di ridurre le spese governative normali. La verità è che, come disse Hamilton, in una certa misura il debito pubblico è una benedizione per le nazioni. L’America di Reagan non ha sperperato il grosso del debito pubblico che ha generato (salvo in alcuni casi come quello dell’incauta deregolamentazione delle Savings and Loan e soprattutto dei tardivi interventi di risanamento che hanno moltiplicato almeno per 10 la perdita iniziale di 15 miliardi di dollari). Essa lo ha impiegato soprattutto per le spese militari che hanno contribuito a schiantare l’URSS ed a permettere ai "lucky men" degli anni ’90 di incassare il dividendo della pace e di iniziare ad incassare il dividendo della fine del socialismo. E lo ha generato, in secondo luogo, diminuendo le imposte, fattore che ha contribuito, a mio avviso, in modo determinante, alla rinascita dell’intraprendenza e dell’impegno personale degli americani, passaggio chiave per comprendere la rinascita degli anni ’90. Importanti risorse sono passate, soprattutto nei primi anni ’80, dal settore pubblico al privato e questo trasferimento ha dato grandi frutti. Per cui sarà possibile prima a Bush e poi a Clinton (con una, invero, dura e meritoria battaglia politica) riportare l’imposta federale ad un livello più adeguato, senza soffocare l’economia, proprio grazie allo sviluppo nel frattempo riavviato con decisione. Inizia quella graduale riduzione del debito pubblico, realizzata nel corso degli anni ’90 e che è sicuramente vanto dell’amministrazione di Clinton ed elemento importante per capire la grande forza dell’America trionfante dei nostri giorni. Ma senza il riavvio della crescita e dello sviluppo, senza il rianimarsi degli spiriti vitali dellì’America, senza la parziale riduzione del "big government" degli anni ’60 e ’70, realizzata da Reagan sia sul piano ideologico che pratico, senza la rinascita delle comunità locali, senza il crollo dell’URSS ed il conseguente dividendo della pace, l’operazione di riequilibrio del debito pubblico degli anni ‘90 non sarebbe stata concepibile. Perché questo è un caso classico di riequilibrio in avanti, attraverso la crescita e lo sviluppo delle forze vitali del paese, e non attraverso una maggiore pressione fiscale ed un ulteriore appesantimento del Governo. E senza tutto ciò anche l’esplosione delle nuove tecnologie, le nuove imprese, tutto il dinamismo innovativo che l’America ci fa oggi vedere non sarebbe stato possibile. La diffusione imprenditoriale delle nuove tecnologie è una conseguenza non una causa della nuova ondata di imprenditorialità e di innovazione che ha percorso l’America (come chiunque ha avuto contatti di lavoro con l’America di questi ultimi anni non può dubitare), che ha rivoluzionato sia la sfera privata che quella pubblica.

Sono stato in una cittadina del Michigan con un gruppo industriale italiano per l’inaugurazione di una piccola fabbrica da cento posti di lavoro. E’ stato necessario aprirla per servire un grande cliente americano. Il governatore del Michigan, di sua iniziativa e senza che ne sapessimo nulla, ci invita per esprimere un ringraziamento ufficiale, per avere creato cento posti di lavoro in Michigan, all’imprenditore italiano al quale dona una targa con inciso il ringraziamento. Egli ci presenta i suoi principali collaboratori stimolandoci a chiamarli per ogni necessità. Se penso a tutte le sofferenze e mascalzonate che ho dovuto subire quando mi sono impegnato per creare del lavoro vero in Calabria, mi vengono i brividi.

E’ in questo contesto che possiamo riprendere i cinque punti indicati dal consigliere di Reagan nel 1981. L’America ha sistemato la questione con l’OPEC e questa è stata alta politica. L’America ha sistemato la questione del Giappone e questa è stata soprattutto una involuzione del Giappone stesso, dove una società ancora in buona parte feudale non ha saputo superare le sfide sociali, culturali ed istituzionali della modernità. L’America ha riacquistato forza e dignità nei confronti di tutto il mondo e questo è frutto della grande politica di Reagan soprattutto nei confronti dell’URSS e poi dei suoi successori Bush e Clinton. Ma poi, nel quadro di questi grandi fattori, la rinascita economica è frutto soprattutto del grande lavoro interno individuale, che ha visto impegnati tutti i settori della società americana.

Ne parlo, in una lunga affascinante conversazione, con Blinder, (brillantissimo economista, Università di Princeton, già vice-presidente del Consiglio dei Governatori della Federal Reserve, vice presidente del G7) e con Penzias, premio Nobel della fisica nel 1978 e, da alcuni anni, "venture capitalist" in società high tech" nella Silicon Valley. Devo dire che Blinder concede poco o nulla alla politica reaganiana ed agli spiriti vitali rianimati da questa politica. Su questo punto le nostre posizioni sono divergenti. Ma per il resto l’analisi di Blinder è molto convincente. Nei primi anni ’80 l’industria tradizionale americana è molto appesantita e poco competitiva. Nel sistema imprenditoriale il tasso di innovazione è bassissimo. Sono gli anni in cui in Senato il progetto di legge National Technology Innovation Act viene illustrato con le seguenti parole: "la tecnologia e l’innovazione industriale sono essenziali per il benessere economico, ambientale e sociale dei cittadini degli Stati Uniti… L’innovazione industriale negli Stati Uniti è forse rimasta indietro rispetto ai precedenti storici e alle altre nazioni industrializzate… Non esiste una politica nazionale intesa a favorire l’innovazione tecnologica ai fini commerciali e pubblici". Ma la vera frustata venne, secondo Blinder, dal dollaro fortissimo. La politica monetaria e creditizia della Fed di Volker, che temeva che la politica reaganiana fosse inflazionistica e che, per anticipare tale rischio, aveva portato i tassi a livelli assai alti, aveva spinto il dollaro (soprattutto a causa del grande afflusso di capitali internazionali che si riversavano sul dollaro attratti dagli alti interessi) a valori insensati, soprattutto nei confronti dello yen. Questo mise l’industria manifatturiera americana con le spalle al muro, non tanto per la difficoltà di esportare quanto per l’inondazione del mercato interno con merci estere il cui acquisto era favorito dal fortissimo dollaro. Questo spinse l’industria americana ad una ristrutturazione profonda, non solo del tipo taglio e dimagrimento, ma anche di vero e proprio cambiamento. Si abbandonarono vecchie metodologie e se ne adottarono di nuove, si ridisegnarono prodotti, si abbandonarono vecchi prodotti e se ne introdussero di nuovi. Non solo si ridussero i costi, ma si aumentò la flessibilità e quindi la produttività e la qualità. E questo ha permesso ai settori tradizionali americani di ricuperare competitività. Ma la ristrutturazione portò anche molti gruppi ad una azione di deindustrializzazione parziale dell’America e di industrializzazione soprattutto dell’Estremo Oriente. Le trasformazioni dell’economia americana verso un’economia sempre più di servizi, di ricerca, di progettazione, di finanza (secondo l’indirizzo strategico che mi illustrò nel 1981 il consigliere di Reagan) prese corpo attraverso la grande ristrutturazione degli anni ’80, ponendo così le basi per l’esplosione della "new economy" dei nostri giorni.

L’economista non è quasi mai portato ad introdurre nelle proprie analisi la variabile manageriale. E Blinder non fa eccezione. E’ Penzias, premio Nobel per le ricerche di astronomia, ma con i piedi tanto per terra da diventare "venture capitalist" ad introdurre questa variabile. In realtà in quegli anni - egli dice - si è realizzato anche un grande miglioramento del management americano, il che corrisponde anche alla mia esperienza. Del resto è del 1982 quel grande libro di W. Edward Deming: "Out of the Crisis", che vuole contribuire a far uscire l’America dalla crisi partendo dalla premessa che: "la causa principale della malattia dell’industria americana e della conseguente disoccupazione, è il fallimento del "top management" a dirigere… solo una trasformazione profonda dello stile del management americano e dei rapporti tra governo e industria, possono porre un freno al declino e ridare all’industria americana la possibilità di ritornare a guidare il mondo". Si innesta qui l’effetto rinnovatore dei "take over" ostili con il metodo del "leverage". Confesso che quando questa ondata partì, ero preoccupato ed ostile. Mi dispiaceva vedere grandi gruppi che conoscevo e stimavo dagli anni ’60, che erano stati campioni di buon management assaliti, conquistati, fatti a pezzi, rivoltati da cima a fondo da degli oscuri avventurieri. Non mi rendevo conto, come mi rendo conto ora con l’evidenza dei consuntivi, che quei gruppi erano invecchiati, si erano impigriti e non erano più campioni di management, sicché quegli oscuri avventurieri che li assalivano, nel fare i propri affari, assolvevano alla positiva funzione di ridare dinamismo alla parte più statica dell’industria americana.

E’ ancora Penzias che, in relazione al processo di cambiamento del management americano, che si realizza nel cuore degli anni ’80, sottolinea un altro aspetto molto importante. In quegli anni, dice Penzias, si stabilirono in America numerose imprese giapponesi, che avevano accumulato conoscenze, esperienze e metodologie molto serie sul fronte del management della qualità, sviluppate in Giappone da grandi studiosi americani della qualità, ed in primo luogo da Deming. Il management della qualità si sviluppò, dice Penzias, quasi per caso in USA, sull’emulazione del modello giapponese. Ci troviamo tutti d’accordo sull’importanza di questo passaggio. Ma non fu, dice Blinder, uno sviluppo quasi casuale. Fu al contrario uno sforzo molto consapevole e prolungato, che coinvolse il management americano, le migliori scuole di management, i grandi centri professionali. Concordo totalmente con Blinder. A metà degli anni ’80 la rinascita del management americano è caratterizzata dalla grande sfida con il management giapponese sui temi della qualità e di tutte le metodologie connesse. Il management americano ha capito che gran parte del successo giapponese era proprio legato al management della qualità ed alle metodologie connesse e vuole impadronirsene. E ci riesce. Oggi i temi della qualità sembrano spariti dalla lavagna, ma sino a dieci anni fa ne occupavano più della metà. E, aggiunge Penzias, sono spariti solo perché sono stati interiorizzati e largamente applicati con successo.

Ma è probabile che quello che dice Blinder sia vero. Senza la frustata del dollaro sopravalutato, negli anni ’80, e la conseguente accentuazione della sfida della competizione giapponese ed europea, tutto ciò sarebbe rimasto, in buona parte, sulla carta. Così come grande importanza assume la politica creditizia. Per fronteggiare la recessione dei primi anni ’80, gli interessi reali furono portati praticamente a zero e furono mantenuti a questo livello per circa un anno e mezzo, il che favorì un grande accumulo di risorse finanziarie nell’economia privata che, accompagnato dalla politica di riduzione fiscale, creò la premessa necessaria per finanziare la ristrutturazione e la ripresa della crescita (operazione che non è riuscita in Giappone, proprio perché avviata qui molto tardivamente, quando ormai il Giappone era caduto in una vera e propria deflazione). Nel frattempo si mettono all’opera, anche se non immediatamente percepibili, gli effetti delle nuove tecnologie e delle strategie dell’innovazione nelle quale tutto il paese è impegnato, sostenute e diffuse dai grandi centri di ricerca e da una formidabile rete di "venture capital", il denaro dei pensionati che va alla ricerca dei giovani, che, dopo una lunga incubazione, è diventato un aspetto essenziale del rinnovato capitalismo americano che sta ritrovando, dopo anni di lungo travaglio, un nuovo profilo all’insegna delle nuove tecnologie, del venture capital, della gestione molto più flessibile, creativa e responsabile dei grandi complessi, del dinamismo dei posti di lavoro, della diffusione della cultura e dell’approccio imprenditoriale. Sono questi i fattori, certamente evocati e favoriti dal contesto generale, che rimettono in moto la produttività americana. E, come ha scritto Krugman: "la produttività non è tutto, ma, nel lungo periodo, è quasi tutto". La prima volta che ho letto l’espressione "New Economy" è stata nel citato libro di Deming del 1982. Con questa espressione Deming intendeva semplicemente dire che non ci si rendeva neanche conto di quali salti di produttività si potessero realizzare con le nuove tecnologie, con le nuove metodologie organizzative e con un impegno creativo e non gerarchico delle persone E’ così che quell’economia americana che, con Nixon aveva sperimentato il controllo dei prezzi e che nel corso degli anni ’80 aveva imposto le quote all’importazione di vetture giapponesi, si rimette veramente on "the right track".

Secondo Blinder, nel 1996 l’economia americana è in "perfect shape".- Dopo di allora inizia un periodo magico che va al di là di ogni previsione ed attesa. Sino a qual momento, dice Blidner, possiamo parlare di perfetta politica economica e finanziaria. Dopo di allora dobbiamo parlare anche di "luck", di fortuna. Tra i fattori chiave di quest’ultima fase egli cita, in particolare, i seguenti:
- L’evoluzione della tecnologia che spinge continuamente verso il basso i prezzi al consumo;
- Le nuove tecnologie che portano ad una grande accelerazione della produttività in tutti i settori, in misura non ancora conosciuta, non ancora misurata, non ancora percepita appieno. I grandi accordi di lavoro, ad esempio, non riconoscono ancora questo grande incremento di produttività, il che contribuisce a tenere il costo del lavoro basso;
- La diminuzione ulteriore del costo dell’energia;
- La forza del dollaro;
- Gli effetti benefici del riequilibrio del bilancio federale.

Forse è anche fortuna, ma è una fortuna duramente conquistata da tutta l’America, all’insegna dei suoi antichi valori, ai quali io voglio aggiungere un altro valore centrale, quello della professionalità e della meritocrazia. Nel corso di questi decenni in cui ho osservato l’America tanto da vicino, anzi nell’interno della quale ho lavorato, io ho dato anche una mia risposta, forse semplicistica, alla difficile domanda del perché, alla lunga, l’America, supera sempre, brillantemente, i suoi periodi più difficili. La mia risposta è che non ho mai visto un Paese dove, a tutti i livelli, la professionalità è così dominante e guida tutte le scelte, e dove essa viene così correttamente, anzi generosamente retribuita.

E’ vero. A Louisville, nel Kentucky, nel maggio scorso quattro poliziotti sparano 22 colpi contro un giovane negro disarmato di 18 anni, ricercato per furto d’auto, Desmond Rudolph. Grande e giusta tensione per la morte del giovane. Ma poi la crisi si stempera. Ma ora, a marzo 2000, proprio mentre mi trovo in America e sto visitando questa città sempre fonte di tante tensioni, il capo della polizia premia "al valore" i due poliziotti per tale azione. Ed il sindaco, bianco, licenzia subito il capo della polizia. E’ un fatto grave. Tanti fatti gravi di questo tipo avvengono ogni giorno in un grande paese. Ma oggi girando per la magnifica Chicago, vedo gente di tutte le razze e classi "play together, listen to music together, eat together" come dice la guida. Lontani sono i tempi (anni ’60) dei grandi cruenti scontri sociali. Tutto è rinnovato profondamente nell’"hardware" e nel "software". Cerco il mio vecchio albergo che pure era allora famoso. Non c’è più. Come non ci sono più tanti altri edifici, sostituiti da altri edifici più belli. Molto più belli. Il più vecchio edificio di Chicago è del 1837, sei anni dopo l’arrivo di Tocqueville in America. Ed ogni volta si cambia per il meglio. E’ vero; a Seattle è in corso, in questi giorni, un lungo e doloroso sciopero degli ingegneri della Boeing, sino a poco fa aristocrazia della classe tecnica. Reclamano e vogliono un aumento di paga perché gli operatori della "nuova economia" sono pagati troppo e, per giunta, fanno lievitare i prezzi delle case a livelli impossibili. E’ la stessa cosa che troverò anche a San Francisco, dove ci sono interi quartieri che sono proibitivi per chi non "navighi" nella nuova economia. Ma a Chicago non percepisco questa differenziazione tra la nuova e la vecchia economia. Le nuove tecnologie e metodologie organizzative si sono inserite ovunque: nei taxi, nei restaurant, negli hotel, nei musei, nei meravigliosi negozi del "magnificent mile". E contribuiscono a rendere la vita più facile, più gradevole per tutti. Ho camminato a lungo negli stupendi negozi del "magnificent mile". Non esiste al mondo altra strada che contenga tanti negozi così belli, così ricchi, così ben gestiti. Nessuno può capire cosa è la distribuzione di beni di consumo oggi, senza passare molto tempo in questa strada. Io posso dedicare alla stessa solo una giornata e mezzo, durante la quale imparo tante cose e mi diverto. Gli italiani dell’abbigliamento sono bene rappresentati, ma potrebbero fare molto di più. Il direttore di un famoso negozio mi spiega il problema con queste parole: " E’ importante che tutti i fornitori italiani capiscano che negli affari oggi la parola chiave è "You are either quick or you are dead!" (oggi o si è veloci o si è morti). In Italia l’attitudine è spesso quella di rispondere: "prenderemo cura delle cose non appena possibile" . Queste due culture degli affari sono antitetiche e ciò rende più difficile per molti fornitori italiani operare con successo in USA". E mi fa l’esempio di un ottimo fornitore italiano che però è discontinuo nelle consegne e ai suoi e-mail risponde dopo quattro giorni, anziché in giornata. "Se va avanti così dovrò lasciarlo, dice con rammarico". Tutto dunque è veloce, immediato, fremente. Tutto diventa nuova economia se è gestito con le nuove metodologie, compreso il "friendly Art Institute". Così come si è diffuso, ad ogni livello, l’approccio imprenditivo, chiaro segnale che buona parte del reddito personale è, ad ogni livello, legato all’iniziativa personale. Come quando entrando il sabato sera in dieci persone in una "steack house" senza prenotazione e con ben poche speranze di trovare posto, troviamo, in pochissimo tempo, un eccellente tavolo, grazie ai cento dollari dati all’anziano cameriere.

Ci saranno sicuramente problemi nei rapporto tra la vecchia e la nuova economia e tanti valori della nuova si sgonfieranno come neve al sole. In fondo sino a poco fa i nostri figli facevano la fila ai negozi di orologi "swatch". Ora hanno smesso. Ma tutti quelli con cui parlo pensano che Santo Greenspan farà, ancora una volta, il miracolo di evitare che la crisi faccia troppo male. In fondo è dal 1987 che Greenspan fa miracoli. L’amico con cui ne parlo è un economista empirico che fa di mestiere il "Fed watcher" cioè l’osservatore sistematico della Federal Reserve e dei suoi comportamenti e che emette utili rapporti sulla stessa. E’ anche un buon conoscitore dell’Italia e mi dice: " se Greenspan operasse in Puglia potrebbe fare concorrenza a Padre Pio. Ma per fortuna è a Washington, dove conduce una superba politica monetaria a vantaggio di tutto il mondo".

Io ero a Wall Street il 19 e 20 ottobre 1987 e vissi quella crisi con l’ansia di chi era responsabile di una società di fondi di investimento che gestiva molte migliaia di miliardi di risparmi di piccoli e medi risparmiatori. E ricordo come fosse ora il momento in cui sugli schermi apparvero le parole di Greenspan: daremo al mercato tutto il denaro di cui ha bisogno. Fu il punto di svolta e di salvezza. E dopo di allora ho sempre seguito con grande attenzione la Fed di Greenspan e non riesco a ricordare un singolo errore od una singola intempestività di questa istituzione, sino al modo esemplare con cui essa ha gestito l’ultima pericolosissima crisi finanziaria internazionale degli anni 97-98, nella quale vennero a coincidere tante crisi diverse. Credo che Greenspan sia il più lucido cervello economico dopo Keynes, e che possa contare su una organizzazione di altissimo livello professionale. Ed è evidente che il loro contributo all’America trionfante di oggi è stato decisivo.

Temo che a qualcuno questo mio scritto possa apparire apologetico. Ma non lo è. Conosco se non tutte, molte delle cose che non vanno anche in America e nelle sue città. Ma il mio obiettivo era solo di riflettere sulle ragioni di fondo che hanno ricondotto l’America a pezzi degli anni ‘70 "on the right track" e non anche di discutere se la società americana sia o meno il migliore dei mondi possibile. Era quindi proprio del mio tema far affiorare soprattutto i fattori positivi. So anche che per molti Europei l’America rimane quella definita da Freud nel 1909: "L’America è gigantesca, ma è un gigantesco sbaglio". Rispetto questo giudizio, ma non lo condivido. In ogni caso non è di questo che volevo discutere, ma solo dello strepitoso cambiamento positivo degli ultimi 25 anni. La mia è, dunque, solo una testimonianza ed una riflessione su un paese che ho amato e che amo, che ho frequentato a lungo, che mi ha insegnato che cosa è la professionalità e perché, alla lunga, nel mondo moderno, vince solo la professionalità. Io ho sofferto per il decadimento del sogno americano, perché sapevo che questa decadenza era un impoverimento per tutti noi. Ed ho gioito nel vedere il sogno americano rinascere piano piano, pur con tutte le diversità del caso, nel corso degli anni ‘80 e ’90, sino all’America trionfante dell’inizio del nuovo millennio, contraddicendo tante previsioni di decadenza irreversibile, enunciate da grande parte degli intellettuali americani sino ancora quasi alla soglia degli anni ’90.

Certamente, come sempre, nella storia delle nazioni, nuovi pericoli e nuove sfide incombono anche sull’America trionfante dell’inizio del nuovo secolo e millennio. Ma non è facile, invero, vedere quali siano e da quali parte essi possano provenire. Discutendo questo punto, Blinder si è chiesto: da dove possono venire i nuovi pericoli per l’economia americana? Onestamente non riusciamo a vederlo. Ma poiché sappiamo che essi ci sono e che verranno, possiamo solo affermare che i nuovi pericoli verranno da una direzione che non riusciamo oggi a vedere né immaginare.

Sono totalmente d’accordo. Le nuove sfide ed i nuovi pericoli verranno, ma da fronti, per ora, imprevedibili (forse proprio dalla spaccatura tra new economy ed old economy o, forse, dall’eccesso di domanda interna che ha portato ad un indebitamento netto delle famiglie americane e ad una crescita molto rapida del tradizionale squilibrio della bilancia commerciale, o, forse, dalla crisi tra Cina e Taiwan). Ma una cosa credo di sapere : quando i nuovi pericoli verranno l’America sarà, ancora una volta, sola nell’affrontarli, con determinazione e professionalità, perché come scrisse Gilbert K. Chesterton, al termine di un suo viaggio negli Stati Uniti negli anni ’20: "L’America è l’unica nazione al mondo fondata su un credo". Ed il cuore di questo credo è la fede nella capacità degli individui di modellare il proprio futuro: "You can make it".


 

 

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