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Non ci sono eroi per caso

Adriano Sofri


Questo articolo è apparso su la Repubblica  del 30 maggio

C'è una gran discussione sugli intellettuali torinesi nel ventennio fascista. Fra due fuochi. In alto, ci sono, vivi e vigili, alcuni protagonisti della storia: Alessandro Galante Garrone, Norberto Bobbio. Appena nel gennaio scorso è morto uno molto importante, che si era fatto dimenticare, Aldo Garosci. Di sotto, vivissimi e distratti, ci sono i giovani, che non hanno idea della cosa di cui si parla, del Partito d'Azione, del giuramento professorale di fedeltà al fascismo. La questione generale è la viltà e il coraggio degli intellettuali. L'occasione è l'uscita del libro di Angelo d'Orsi, La cultura a Torino fra le due guerre (Einaudi). C'è qualcosa di strano nell'esplosione del "caso". Intanto, perché a lanciarlo è La Stampa, con un'anticipazione e un articolo del bravo Alberto Papuzzi (che però non ha ancora letto il libro).

La confezione fa pensare a rivelazioni, e scandalose. Ne uscirebbe travolto il "mito" degli intellettuali torinesi antifascisti, dei quali La Stampa era stata il domicilio prediletto. Un sottotitolo dice: "Gobetti, intransigente sul piano politico, è pronto a dialogare su quello culturale. E Leone Ginzburg scrive sulle riviste di Ojetti". Non vuol dire niente: l'apertura culturale di Gobetti (che muore già nel '26) è proverbiale quanto la sua intransigenza morale, e la collaborazione al Pegaso di Ojetti, rivista ufficiale ma ricca di interventi indipendenti, vale come scoprire che Leone Ginzburg prese un tram in regime fascista. Ma il sommarietto suona, al lettore ignaro, e a dispetto di d'Orsi, come la rivelazione di qualche oscura compromissione perfino di Ginzburg, cioè di uno degli uomini più nobili che l'Italia abbia mai vantato fra i suoi.

Così inaugurata, la discussione diventa una vera campagna grazie al fiuto del Foglio, che fa del libro un nuovo scossone nella dissacrazione che dovrebbe riportare il passato nazionale a una misura meno retorica e meno definita; con un di più di piacere per Il Foglio, rispetto alla generale revisione, perché si tratta di mettere ad altezza d'uomo, e anche più giù, le statue già traballanti degli azionisti piemontesi. (Da subito si compie, nella discussione, una riduzione della cultura antifascista all'azionismo). Era già successo, in modo scanzonato e doloroso insieme, con l'intervista (benedetta, io penso) di Bobbio a Buttafuoco, e poi Il Foglio - nel quale sono così di casa che non so se i revisionisti dell'anno prossimo rinfacceranno più me a Ferrara o Ferrara a me - ha una vera specializzazione in sopraluoghi torinesi, come testimonia l'attenzione di Marina Valensise alla necroscopia della Einaudi, già prima dello studio colossale di Luisa Mangoni (Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni '30 agli anni '60, Bollati Boringhieri).

Mentre si moltiplicano gli interventi, lo stesso d'Orsi li rincorre con le sue rettifiche su Repubblica, sul Foglio, su Liberazione, sul Corriere: facendo pensare, sia detto con la simpatia e l'apprensione dello spettatore, a quei giocolieri cinesi che corrono da un piatto girevole sul bastoncino all'altro, per evitare che si fermino e crolli tutto. Quasi tutti dichiarano di non aver letto il libro, e la discussione riceve un'impennata quando Montanelli, che dichiara di non averlo finito, esprime con una formidabile franchezza da coetaneo la gioia per il ridimensionamento finalmente avvenuto dei maestri piemontesi dal dito teso, Corte di Cassazione dell'antifascismo ecc.

Guardavo crescere tutto ciò a bocca spalancata, e intanto leggevo il libro, e adesso ho finito di leggerlo. L'ho trovato interessante, pieno di notizie e attento al pullulare di fenomeni minori pubblicistici, accademici, artistici rispetto ai grandi quadri più visitati, Gramsci e Gobetti e la Frassinelli e l'Einaudi e Gualino e la Fiat. Forse obietterei a d'Orsi il rischio di offuscare, nella congerie di documenti ed episodi, la loro diversissima qualità, un effetto da pagine gialle. (In cambio, non mi sarei spinto a rimproverargli, come ha fatto con lucida ma terribile severità Bobbio sulla Stampa di sabato, di aver invertito il rapporto fra vittima e persecutore: che d'Orsi tutt'al più ha dato per scontato). Nel libro non ho trovato né rivelazioni scandalose né toni scandalizzati: anche i pochi episodi "piccanti" non so, la lettera "fascista" di Antonicelli a Cian del '29, che d'Orsi aveva già pubblicato, non sono così clamorosi. (Citerò quel che mi disse nel 1988 Carlo Dionisotti: "Feci la tesi con Vittorio Cian, un nazionalista fanatico e poi fascista, nemico giurato di Benedetto Croce: Cian era l'uomo più distante dalle mie predilezioni. Peraltro con me fu sempre generoso e disinteressato. Quando nel 1929 alcuni studenti firmarono una lettera di plauso al discorso di Croce in Senato contro i Patti Lateranensi, e furono arrestati e "ammoniti", Cian intervenne a mia insaputa per far ignorare la mia firma. Quell' "ammonizione" bastò a costringere Franco Antonicelli a rinunciare alla carriera diplomatica che fino ad allora si era figurato").

Dunque sono stato stupito, alle poche ultime righe del libro, della sproporzione brusca fra il fitto e prosaico testo e una morale conclusiva posticcia e pronunciata a voce piuttosto alta ("abdicando all'elemento essenziale che identifica l'intellettuale, ossia la capacità critica, e il dovere di testimoniarla, pronto a gridare sui tetti le verità che egli stesso scopre o altri mormorano ai suoi orecchi"). D'Orsi mostra bene che la vita culturale torinese degli anni '20 e '30 era complicata e piena di scambi e anche di compromissioni. Mostra che gli intellettuali si divisero in un gruppo di antifascisti rigorosi fino all'eroismo, un gruppo opposto di fascisti convinti e fervidi, e una vasta maggioranza mediana fluttuante e opportunista: una "zona grigia" (concetto di cui in generale penso che si vada abusando fino alla banalizzazione: grigia è la vita). Ma anche questa complicazione e torbidezza è ovvia, direi, così come la distinzione rispetto a un più solido e intrattabile antifascismo operaio.

Uno dei capitoli di questo scandalo fortunoso riguarda attori ebrei. Fabio Levi ha ricordato le rimozioni o le reticenze del dopoguerra nei confronti di rinnegamenti o eccessi di prudenze nella comunità, ma ha anche lui ammonito a non rendere le vittime corresponsabili della persecuzione. Che fra gli ebrei, prima delle leggi razziste, ci fossero verso il fascismo gli stessi atteggiamenti di adesione, di avversione, di disimpegno, che fra i non ebrei, anche questo è sia noto che ovvio: l'antifascismo ebraico non era una specie di precedente necessario e quasi etnico dell'imminente antisemitismo fascista. Sono note le tragedie come quelle degli "ebrei fascistissimi" Ovazza, o Arturo Foà (morto poi ad Auschwitz) o, fuori dal Piemonte, di un uomo di genio come Formiggini, l'editore dei "Classici del ridere", fascista e suicida nell'anno delle leggi razziste, il 1938. Ma per gli ebrei piemontesi c'è un punto speciale: la loro peculiare fedeltà al Risorgimento, e un attaccamento alla cittadinanza italiana provato nella partecipazione alla prima guerra, e influente nelle scelte del dopoguerra. L'ha giustamente ricordato Alexander Stille, autore nel 1992 di Uno su mille (Mondadori). Ne avevamo parlato qui, discutendo della Lettera a un amico ebreo di Sergio Romano, a proposito delle opinioni giovanili di un grande storico come Arnaldo Momigliano; e sullo stesso punto il ruolo degli ebrei nel risorgimentale Partito d'azione, la parte di primo piano degli ebrei piemontesi e italiani nella Grande guerra, si leggano le osservazioni piene di orgoglio e sarcasmo di Vittorio Foa nelle lettere dalla prigione fascista. Il Risorgimento è del resto la questione cruciale per Gramsci e per Gobetti e per Ginzburg, la chiave dell'"antifascismo esistenziale", e dell'idea orgogliosa dell'"altra Italia". La pretesa fascista all'eredità risorgimentale nelle forme più fesse del nazionalismo sabaudo alla De Vecchi, o in forme più fervide, a loro modo mazziniane e garibaldine, si misurò con l'eredità risorgimentale democratica (e europeista e federalista) rivendicata dagli antifascisti. Nell'interpretazione del Risorgimento davvero le due Italie cercarono il proprio opposto diritto di cittadinanza: questione singolarmente riaperta nell'Italia di oggi, in cui bisogna tutti rifarsi la carta d'identità. (Avete sentito il giuramento di fedeltà alla Lombardia).

Proverò a distinguere alcuni titoli della questione impropriamente detta azionista e della sua strana attualità. Il primo riguarda gli eroi. Quelli che misero nel conto di perdere la vita, e andarono avanti. I primi nomi (non certo i soli) sono quelli di Piero Gobetti e di Leone Ginzburg. Della loro prodigiosa precocità, intelligenza e cultura si resta ogni volta sbalorditi e ammirati - e un po' vergognosi, in tempi di mediocre longevità. Geniale com'era, Gobetti, ricorda d'Orsi, voleva che si salvasse "la dignità prima che la genialità", e propugnava, nel 1922, una "compagnia della morte". "Eroicismo alfieriano" di uno di ventun anni, che si dichiarava pronto a morire, e neanche venticinquenne morì. Così piccola può farsi la distanza fra eroicismo ed eroismo. A uomini come loro non si trovano macchie, e solo questa può essere una spiegazione del fastidio che eventualmente ispirino. Di altri, giovani che primeggiavano negli studi e nel gioco dell'intelligenza, che frequentavano ambienti favoriti per censo e per cultura, non si potrebbe dire che avessero messo sul serio nel conto del loro antifascismo iniziale il sacrificio della vita e la prova delle torture. Spesso lo svelamento delle loro cospirazioni a cielo aperto fu così svelto da farli finire dentro prima che si fossero chiesti se erano disposti a rischiare la galera. La galera fu la loro scuola, spesso l'affrontarono con una mirabile dignità. A loro d'Orsi applica l'espressione "per caso". Essa è appropriata, e insieme insopportabile. Non sembri un cavillo, ma quando si parla di "caso" bisogna invertire il prima e il poi.

Non voglio dire che niente succede per caso. Dico che quando qualcuno si trova d'improvviso in una situazione estrema, il suo modo di affrontarla decide se si sia trattato di un caso o di una scelta, per così dire. Non ci si uccide per caso in galera, per timore di cedere alle violenze, come fece, tradito, Umberto Ceva. Non si sta nella galera fascista per dieci anni con dignità coraggio e ironia, per caso. Questo tema degli "eroi per caso" porta lontano dalle strade segnate.
Traggo un primo esempio dal Doppio diario di Giaime Pintor (Einaudi). Pintor (1919-1943) è un altro di geniale precocità, e di morte giovane: per caso? Quando il Doppio diario uscì, nel 1978, Franco Fortini scrisse con gran durezza dell'aria di privilegio e di chiusura che traspariva da quei testi. Luigi Pintor reagì aspramente al moralismo di Fortini. Lo richiamo perché è una prova dell'esistenza di dissensi espliciti e coinvolgenti che non hanno aspettato venti di revisionismo per soffiare, e hanno opposto persone affini politicamente e perfino amiche. E lo ricordo anche perché la stessa aura da ragazzi viziati che fece scattare la risentita critica di Fortini sembra a me la qualità più rivelatrice e commovente della scelta finale di Giaime Pintor. Il quale aveva tenuto gelosamente a serbare una sua autonomia intellettuale e personale, frequentando amici nei quali l'impegno politico antifascista (e per alcuni comunista) aveva già vinto sulle vocazioni culturali o artistiche. Pintor era diventato un giovane ufficiale, cui legami di parentela consentivano anche durante la guerra un servizio leggero, che gli lasciava il tempo di frequentare attivamente la casa Einaudi a Torino, o lo portava in Francia e in Germania in veste e in modi di vita diplomatici.

Finché il giovane ha ancora ventidue anni, non sente che la guerra è una tempesta troppo enorme, troppo travolgente perché il desiderio di padroneggiare il proprio destino personale debba resisterle. Pintor è a questo punto come chi raccolga tutto quello che ha e lo bruci, per prender posto nella storia del mondo con i suoi coetanei. "Prolungare un soggiorno a Torino, mentre la maggior parte dei miei coetanei divide la sorte comune". E' un impulso insieme morale e fisico: è il proprio corpo che si vuol gettare nella fornace. "Davanti a me è l'ultima possibilità di vivere fisicamente questa guerra e il rimorso maturato nelle ore di inerzia mi consiglia di tentare, anche se l'esito è quasi disperato, prigionia o morte violenta".

Per un momento, Pintor pensa di realizzare questo dovere facendosi mandare sul fronte orientale, russo, o nei Balcani. Prepara una domanda: "Sarei lietissimo di continuare a svolgere le mie attuali funzioni presso un Comando o una Unità tedesca operanti al fronte Orientale". E' il 29 agosto 1942. Nel maggio 1943 scrive: "Mi è mancato l'episodio essenziale della guerra". A novembre, da Napoli, deciderà di prender posto nelle prime formazioni partigiane, e morirà passando le linee, a Castelvolturno, saltando su una mina. Per caso? Per caso, due giorni prima, ha scritto la lettera-testamento al fratello Luigi, "nel caso che non dovessi tornare"? "Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari. C'era in me un fondo troppo forte di gusti individuali, d'indifferenza e di spirito critico per sacrificare tutto questo a una fede collettiva. Oggi sono riaperte agli italiani tutte le possibilità del Risorgimento".

Accosterei la scelta morale di Pintor di tradirsi, di decidere un momento in cui non ci si può concedere il lusso di disporre della propria vita individuale, alla scelta più inquietante fra quelle che distinsero i giovani intellettuali europei allo scoppio della Prima guerra. Ci furono allora gli interventisti entusiasti per nazionalismo e gli interventisti per speranza democratica, i neutralisti per pacifismo o per internazionalismo, gli imboscati e i renitenti: e ci furono quelli che, illesi dal nazionalismo e dal militarismo, decisero che dovevano andare per seguire il destino della loro generazione, che non potevano restare mentre gli altri partivano. Sentirono cioè la stessa cosa che avrebbe sentito Pintor: che la guerra destituiva il diritto a un destino personale e lo mutava in una meschinità o in una viltà. (Senza volere sto ricantando la canzonetta: e se non partissi anch'io sarebbe una viltà). Il "destino unico, per tutti", gli uomini capaci "di appoggiarsi l'uno all'altro, di vivere e di morire insieme anche senza saperne il perché" cui Renato Serra si unì, per morire sul Carso goriziano nel 1915. La Grande Guerra vide cadere sui fronti opposti dell'Europa anche questi poeti, professori, scienziati, che erano andati come si va a morire, piuttosto che a uccidere.

Tutto ciò sta dentro le paroline "per caso". Farò un altro nome, Willy Jervis, un intellettuale, ma ingegnere e dirigente d'azienda (la Olivetti di Ivrea), dunque meno notato negli studi sulla cultura. Quando viene il momento, nell'autunno del '43, Jervis ha 42 anni, una moglie e tre figli che adora, e decide di prendere il suo posto. E' mosso dalla fede religiosa - è un cristiano valdese - e può mettere a frutto il suo talento di organizzatore di uomini e di provetto alpinista. Viene catturato dalle SS; il 5 agosto 1944 lo ammazzano e poi lo impiccano, sfigurato. Sarà riconosciuto solo grazie alla sua Bibbia, ritrovata per terra con delle parole incise sulla copertina nera: "Avrò fede fino all'ultimo. Penserò sempre a voi". Ecco che una dignità eroica viene mostrata da un uomo che non aveva scelto per sé l'impegno politico. E', si potrebbe dire, il contrario di quello che succede a intellettuali impegnati o militanti politici che alla prova del fuoco arretrano o, addirittura, si rinnegano. E' triste quanto ovvio riconoscere che per tradire un esercito bisogna essersi arruolati. L'Ovra reclutava - e in che numero! - le sue spie fra i militanti antifascisti caduti nelle sue mani, con le brutalità e col denaro. Le persone non impegnate, "qualunque", non hanno compagni da tradire. L'intellettuale "impegnato", il militante, firma con la propria coscrizione volontaria il rischio della propria caduta morale.

Sto parlando già di un altro ingegnere, anche lui dirigente d'azienda, cattolico fervente, che non sarebbe entrato in una storia della cultura né della politica dei suoi anni, se non fosse stato sequestrato per 47 giorni e ammazzato, nel luglio del 1981: Giuseppe Taliercio. Era il direttore del Petrolchimico di Marghera, aveva moglie e cinque figli. A lui non era neanche capitato di arruolarsi in una guerra. Gli capitò solo di esserne prigioniero. E si seppe che rifiutò di "collaborare" in qualsiasi forma coi suoi carcerieri e di farsi tramite delle loro richieste. Tenne un contegno mite e inflessibile. La Chiesa cattolica ne ha fatto ora un suo martire. Ne fui angosciato e colpito, allora, come da poche altre lezioni. I suoi sequestratori si erano creduti un giorno pronti a morire per la causa, poi avevano ammazzato per la causa, e presto l'avrebbero disertata alla rinfusa. L'ingegner Taliercio non aveva votato la propria vita a una causa che non fosse, quando "per caso" ci si trovò, la propria fede, la propria dignità, l'esempio che volle lasciare alla sua famiglia. Un'impressione non dissimile avrebbe fatto l'"eroe borghese" Giorgio Ambrosoli, uno di cui, quando se ne fu consumato il sacrificio annunciato, si seppe che aveva avuto simpatie monarchiche.

Spero che, detto ciò, si capisca perché resto così affezionato agli azionisti. Nei venti mesi della guerra partigiana morirono, di Giustizia e Libertà, in 4.500, e fra loro la più alta proporzione di dirigenti: non per avventurismo, per moralità. Gente da tempi d'eccezione. Magari parleremo un'altra volta delle viltà, dei compromessi e delle meschinità dei tempi normali, quando non si rischia la vita, ma un passaggio in televisione, o un grado di carriera

 

 

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