Rashomon a Palermo
Antonio Carioti
Di sicuro c'è solo che lo hanno assolto. Ma una persona totalmente
ignara di vicende italiane che leggesse i commenti dedicati dalla stampa alle motivazioni
della sentenza Andreotti, recentemente pubblicate a Palermo, si troverebbe di fronte alla
situazione descritta in "Rashomon", il film capolavoro di Akira Kurosawa:
verità opposte e inconciliabili sui medesimi fatti.
C'è la verità dei colpevolisti: la corte ha confermato l'assunto
dell'accusa, secondo cui il celebre imputato fu complice della criminalità organizzata,
ma ha assolto il senatore a vita per ragioni di formalismo giuridico, reputando
insufficienti le prove raccolte dai pubblici ministeri. E c'è la verità degli
innocentisti: i giudici hanno demolito sistematicamente tutte le testimonianze dei pentiti
contro Andreotti e lodato il suo impegno contro la mafia, facendo emergere tutta
l'assurdità di un processo costruito su un teorema ideologico.
Del resto era così anche prima che uscissero le motivazioni della
sentenza. A un lato della barricata si collocava la rivista "MicroMega", con un
dossier intitolato amaramente "La mafia non esiste" (n. 5/99): dopo averlo
letto, l'unica conclusione possibile era che il collegio giudicante fosse in malafede,
tanto schiaccianti parevano gli elementi a carico dell'imputato assolto. Sul versante
opposto c'era il libro di Lino Jannuzzi "Il processo del secolo" (Mondadori),
contenente articoli già pubblicati sul "Foglio" e sul "Giornale": vi
si dipingeva un Andreotti non solo innocente come un agnello, ma addirittura vittima di un
complotto ordito da magistrati e politici di sinistra con l'aiuto di criminali
"pentiti" solo a parole.
Un esempio per capire. Vito Di Maggio (da non confondersi con il killer
mafioso "collaboratore di giustizia" Balduccio Di Maggio) è un testimone
incensurato. Ha sostenuto di aver visto nel 1979, quando era barista in un albergo di
Catania, Andreotti salire su un'auto in compagnia del noto boss Nitto Santapaola.
Secondo Marco Travaglio, assiduo e battagliero collaboratore di
"MicroMega", si tratta di "un onesto cittadino", che ha subito gravi
persecuzioni e angherie per il civismo e il coraggio di cui ha dato prova in tribunale.
Quasi un martire della giustizia.
Se si legge il libro di Jannuzzi, invece, si apprende che Vito Di
Maggio sostiene di aver visto Andreotti su una Thema, quando quell'auto non era ancora in
commercio, nel giorno del suo onomastico (san Vito è il 28 giugno). Peccato che in quella
data, nel 1979, il politico democristiano, all'epoca capo del governo, stesse partecipando
a un vertice internazionale in Giappone.
Insomma, non è facile farsi un'idea attraverso i resoconti dei
giornalisti, quasi tutti abbastanza schierati. Tanto più che l'atteggiamento dei mass
media è stato influenzato in modo evidente dal clima politico. Ai tempi
dell'incriminazione, quando infuriava la bufera di Tangentopoli, sembravano non esserci
dubbi sulla colpevolezza di un leader assurto a simbolo della corrotta "Prima
Repubblica". Con l'andar tempo, anche grazie all'accorta condotta dell'imputato,
l'incredulità nei confronti delle accuse si è fatta sempre più strada.
Ad ogni modo, chi abbia ascoltato con una certa continuità le udienze
chiave del processo, meritoriamente trasmesse da Radio radicale, ha finito probabilmente
per condividere le conclusioni del collegio giudicante. Per quanto discutibili fossero le
frequentazioni e le alleanze politiche di Andreotti in Sicilia, in aula non è stata
portata alcuna prova solida del suo presunto legame organico con Cosa nostra. Le
deposizioni dei "pentiti" sono apparse vaghe, lacunose, spesso contraddittorie.
Quasi mai la difesa si è trovata in reale difficoltà su elementi penalmente rilevanti.
Il castello accusatorio era debole sul piano dell'interpretazione
storica, poiché è quanto meno azzardato sostenere che il potere di Andreotti, uomo di
fiducia del Vaticano e braccio destro di Alcide De Gasperi in età giovanissima, avesse
fatto un salto di qualità decisivo con l'approdo nella sua corrente delle tessere
siciliane di Salvo Lima, nel 1968. E a questa debolezza non è stato posto rimedio con
riscontri capaci di confermare i racconti dei "pentiti" sui presunti incontri
con diversi capi di Cosa nostra.
Resta il nodo politico costituito dalle connivenze tra mafia e potere.
I giudici ad esempio ritengono che Andreotti abbia mentito circa i suoi rapporti con gli
esattori Nino e Ignazio Salvo, che afferma di non aver mai frequentato. Ma la conoscenza
di simili personaggi, per quanto censurabile, non è reato: in caso contrario centinaia di
esponenti dell'establishment siciliano dovrebbero finire in carcere. E per condannare
Andreotti sarebbe bastata la stretta amicizia, da sempre di pubblico dominio, con
l'altrettanto chiacchierato Lima.
Forse bisognerebbe finirla con le inchieste penali condotte sulla base
di valutazioni politiche sorrette solo dalle testimonianze di mafiosi incalliti, di cui si
è avuto un altro esempio in Calabria con il processo al socialista Giacomo Mancini. In
quel caso, ben ricostruito da Ottavio Rossani nel libro "La parola dei pentiti"
(Rubbettino), ci fu una discutibile condanna in primo grado, seguita poi da un'assoluzione
con formula piena, ben più confortante per l'imputato di quella ottenuta da Andreotti.
Al tempo stesso, però, non si può accettare la logica di chi, come
Jannuzzi, oppone alle ipotesi accusatorie i suoi "controteoremi" di gran lunga
più forzati, per accreditare l'idea che l'Italia abbia subito, agli inizi degli anni
Novanta, una sorta di golpe giudiziario pilotato da Botteghe Oscure.
Gian Carlo Caselli ha fallito nel tentativo di trovare le prove della
colpevolezza di Andreotti, ma i legami tra la politica e Cosa nostra non sono certo una
sua invenzione. Proprio Jannuzzi, nel suo libro del 1986 "Così parlo Buscetta"
(SugarCo), rimproverava al maxiprocesso di Palermo, istruito da Giovanni Falcone, di non
aver affrontato il nodo "delle questioni politiche e degli equilibri che la politica
ha determinato e determina anche nell'ambito della criminalità organizzata".
"Se Buscetta - proseguiva Jannuzzi - parlasse di meno dei cattivi
Corleonesi e più dei moderati e dei loro collegamenti politici, e se avesse fatto qualche
centinaio di nomi in meno di piccoli e medi trafficanti di droga e almeno qualche nome di
politico, i timidi tentativi di lotta alla mafia farebbero qualche progresso
sostanziale".
Più tardi, come tutti sanno, il superpentito Tommaso Buscetta avrebbe
fatto anche "qualche nome di politico", ma non sembra proprio che Jannuzzi abbia
apprezzato quella svolta nel senso da lui stesso auspicato. D'altronde, a nessuno può
essere negato il diritto di cambiare idea.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |