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“Filosofia e critica della tecnologia”

Gianni Vattimo con Ennio Galzenati

 

Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet:
www.emsf.rai.it



Gianni Vattimo è nato a Torino nel 1936. Allievo di Luigi Pareyson, si è laureato nel 1959 a Torino. Ha studiato ad Heidelberg con Karl Löwith e Hans Georg Gadamer, il cui pensiero ha introdotto in Italia. Dal l964 professore incaricato e dal 1969 ordinario di Estetica a Torino, dal l982 è ordinario di Filosofia teoretica presso la stessa università. Ha insegnato come Visiting Professor in varie università degli Stati Uniti. È stato direttore della "Rivista di estetica"; membro di comitati scientifici di varie riviste italiane e straniere; socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino. Svolge un'intensa attività di editorialista per il quotidiano torinese "La Stampa", per "L’Espresso" e per "El Pais".

Nelle sue opere, Vattimo ha proposto una interpretazione dell'ontologia ermeneutica contemporanea, che ne accentua il legame positivo con il nichilismo, inteso come indebolimento delle categorie ontologiche, tramandate dalla metafisica e criticate da Nietzsche e da Heidegger. Un tale indebolimento dell'essere è la nozione-guida per capire i tratti dell'esistenza dell'uomo nel mondo tardo-moderno e - nelle forme della secolarizzazione, del passaggio a regimi politici democratici, del pluralismo e della tolleranza - rappresenta anche il filo conduttore di ogni possibile emancipazione.

Questi i titoli delle opere pubblicate:

Il concetto di fare in Aristotele, Giappichelli, Torino, 1961; Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Edizioni di Filosofia, Torino 1963; Ipotesi su Nietzsche, Giappichelli, Torino, 1967; Poesia e ontologia, Mursia, Milano 1968; Schleiermacher, filosofo dell'interpretazione, Mursia, Milano, 1968; Introduzione ad Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1971; Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano, 1974; Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1980; Al di là del soggetto: Nietzsche, Heidegger e l'ermeneutica, Feltrinelli, Milano, 1981; La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985; Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari,1985; La società trasparente, Garzanti, Milano, 1989; Etica dell'interpretazione, Rosenberg & Sellier,Torino, 1989; Filosofia al presente, Garzanti, Milano, 1990; Oltre l'interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 1994; Credere di credere, Garzanti, Milano, l996. Ha curato: (con p. a. rovatti) Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1983; (con j. derrida) Diritto, giustizia e interpretazione: annuario filosofico europeo, Laterza, Roma-Bari, 1998. Vattimo, inoltre, cura un annuario filosofico a carattere monografico edito da Laterza (Filosofia '86 e seguenti).



Parlando di filosofia e critica della tecnologia, che è naturalmente un prodotto recente della riflessione filosofica, quanto è necessario risalire all'indietro per riconsiderarne i termini?

Io credo che, sebbene nel Settecento esista già una problematica di questo genere all'inizio della prima rivoluzione industriale, quello che a noi interessa, per la sopravvivenza dei temi nel pensiero contemporaneo, è la discussione che si sviluppa tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. Sono stati determinanti, secondo me, gli anni della belle époque e l'epoca della Prima guerra mondiale, in cui l'impatto della razionalizzazione tecnica del lavoro industriale comincia ad avvertirsi anche negli strati più ampi della società. Gli studiosi di scienze e discipline umanistiche e i filosofi danno voce ad un disagio generalizzato, che è percepibile, per esempio, nei film dell'epoca dell'espressionismo, ad esempio in Frankenstein.

A mio avviso, la demonizzazione della vita razionalizzata della civiltà industriale comincia ad avere un'influenza sulla filosofia alla fine dell'Ottocento, in una discussione che sembra molto astratta e molto lontana da questi temi: quella che si svolge, soprattutto nella cultura tedesca, sulla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito. Grandi nomi, come quelli di Dilthey, Rickert e Windelband, sono interessati alla stessa tematica, che sembra, come dicevo, di tipo strettamente gnoseologico.

Nelle università i filosofi, gli storici, i filologi, i letterati, gli storici della letteratura si trovano ad avere rapporti con gli scienziati positivi, i chimici, i fisici, i biologi, e ne subiscono la sfida sul piano della razionalità del loro lavoro. Il secondo Ottocento, infatti, è anche l'età del positivismo, una filosofia che rivendica, tra le altre cose, il modello dei saperi positivi delle scienze come la fisica o la chimica per ogni tipo di sapere: si tratta di far passare allo "stadio positivo", come dicevano i filosofi positivisti, tra cui Comte, anche il sapere sull'uomo, il sapere sociologico, psicologico e persino la morale.
Il tentativo di applicare il modello delle scienze della natura ai saperi che concernono l'uomo può inizialmente apparire un problema metodologico, sebbene già in Comte non sia così. Per Comte si tratta di razionalizzare, finalmente in modo stabile, la convivenza umana, che soffre di contrasti tra fedi, tra convinzioni non provate, tra atteggiamenti irrazionali; si tratta insomma di far raggiungere anche alle scienze umane lo stadio positivo.

Alla fine dell'Ottocento, l'organizzazione razionale, tecnica comincia a diffondersi in tutti gli ambiti della società. Intorno alla Prima guerra mondiale, essa si accentua ulteriormente, perché l'economia di guerra esige una razionalizzazione della produzione molto più intensa. Già alla fine dell'Ottocento, comunque, questo impatto della tecnologia sulla società si avverte come il tentativo di ridurre anche l'uomo ad un meccanismo calcolabile, prevedibile, totalmente organizzato, ciò che più tardi Th. W. Adorno chiamerà "l'organizzazione totale".

In che senso la discussione intorno alle differenze tra scienza della natura e scienze dello spirito può essere collegata al disagio per l'impatto della tecnologia sull'organizzazione della vita che si afferma alla fine dell'Ottocento?

Le scienze dell'uomo, che i filosofi chiamano "scienze dello spirito", sembrano essere caratterizzate dal fatto che hanno a che fare con movimenti liberi, non prevedibili, non calcolabili, non riducibili a leggi generali di comportamento. Le leggi, nel comportamento umano, sono ad esempio leggi morali, non leggi scientifiche che permettono di classificare e di spiegare i fenomeni umani come se si trattasse della caduta dei gravi, dell'acqua che bolle o del funzionamento di un motore. Questa disputa, apparentemente metodologica, coinvolge personaggi come Dilthey, ma è individuabile anche nella riflessione del primo Croce.

Il problema della storia ha a che fare proprio, secondo me, con lo spirito della cultura a cavallo dei due secoli, che comincia a sentire il problema dell'organizzazione totale della società. Si rivendica l'originalità delle scienze dello spirito, nei loro metodi, nei loro modi di costruirsi rispetto alle scienze della natura, perché in realtà ci si vuole ribellare al dominio della tecnologia, della razionalizzazione sociale complessiva e dell'organizzazione totale della società. In Dilthey, per esempio, questa questione dà luogo alla teorizzazione del fatto che le scienze dello spirito non funzionano secondo la spiegazione, non spiegano cioè i fenomeni che studiano, non li classificano come esempi di una legge generale.

Dilthey contrappone alla spiegazione la comprensione, il Verstehen, o, possiamo anche dire, l'interpretazione, cioè l'incontro, in qualche modo simpatetico, con fenomeni che sono visti nella loro unicità: un fatto storico non ci interessa perché realizza leggi generali, quello che ci interessa nei fenomeni storici è la loro unicità, ma l'unicità non può essere oggetto di una spiegazione scientifica generale, può essere oggetto soltanto, come diceva Dilthey, di un atto di comprensione. Questo, naturalmente, pone però una quantità di problemi circa la scientificità delle discipline umanistiche, della filologia, della storia, della psicologia, perché sembra che queste discipline non possano formularsi con proposizioni oggettive, universalmente accettabili e dipendano piuttosto dalla capacità intuitiva dello storico di interpretare, di immedesimarsi con l'altro.

A partire dai primi anni del nostro secolo, attraverso il mondo delle avanguardie, filtra uno spirito polemico molto forte nei confronti di questa organizzazione totale. Che cosa pensa di questo fenomeno?

A mio avviso, questo spirito polemico riguarda soprattutto dell'espressionismo. Uno degli schemi interpretativi che si usano spesso, anche se secondo me è molto generico, afferma che l'arte del tardo Ottocento, lo stesso impressionismo, è ancora guidato da un proposito di analisi quasi scientifica della sensazione visiva. Da questo punto di vista, anche terminologicamente, l'espressionismo sembrerebbe sostenere finalità opposte. Nell'espressionismo e, in genere, nelle grandi avanguardie storiche del primo Novecento come il cubismo, il dadaismo e il surrealismo, si esprime la volontà di partire dall'interno e manifestare fuori, piuttosto che lasciarsi imporre un ordine oggettivo dal mondo e riprodurlo, magari con procedimenti analitici particolarmente raffinati per renderlo nel modo migliore. Perfino il cubismo, che per certi aspetti potrebbe sembrare uno sforzo di rendere la formazione dell'oggetto con la pittura, di far vedere come si forma la nostra sensazione visiva delle cose, in realtà è un'aggressione dello spirito all'esterno; è cioè una sorta di suddivisione, di scomposizione; l'imposizione dell'interno sull'esterno, come la rivolta dello spirito contro le catene della forma, dei linguaggi ereditati, delle convenzioni pittoriche.

Del resto, questa interpretazione dell'avanguardia che sto esponendo non è originale; la si trova già in un'opera fondamentale per lo spirito di quell'epoca, Spirito dell'utopia (Geist der Utopie) di Ernst Bloch, scritto e pubblicato nel 1918. In quest’opera, secondo me, si esprime quello che potremmo chiamare lo spirito dell'avanguardia del primo Novecento, che è anche, a mio parere, quello che ispira la filosofia nel suo lavoro intorno alla problematica delle scienze della natura e delle scienze dello spirito ed è anche profondamente collegata alla rivolta contro l'imposizione dell'organizzazione tecnologica della società. Quello individuabile nell’opera di Bloch, mi sembra perciò un filo conduttore interessante perché contiene l'idea che lo spirito non può essere meccanizzato, spiegato, ridotto entro leggi generali, e afferma anche un principio di unificazione della cultura del primo novecento. Non è tanto ovvio, infatti, affiancare Dilthey e l'avanguardia espressionistica; adottando tale filo conduttore, invece, questa cultura ci si presenta nei suoi nessi e nelle sue affinità.

Persino la relatività einsteiniana è stata ricondotta da alcuni studiosi alla cultura del primo novecento. Su questa interpretazione non intendo soffermarmi, ma anche in questa direzione è probabilmente possibile considerare la cultura del primo Novecento come una sorta di ribellione al positivismo, contro il pericolo dell'organizzazione totale della società.

Temi concernenti il disagio nei confronti dell’organizzazione tecnologica della società si ritrovano anche nell'esistenzialismo e nella fenomenologia?

Certo. Pensiamo per esempio alla riflessione di Heidegger in Essere e Tempo, opera del '27, maturata però a partire dagli anni '10. In una memoria autobiografica, Heidegger allude allo spirito degli anni '10 come dominato dalla ripresa di Kierkegaard, di Nietzsche, di Dostoevskij, personaggi che hanno in comune l'esistenzialismo, l'accentuazione, persino eccessivamente patetica, del dramma della libertà dell'uomo, accentuazione che diventa tanto più significativa quanto più si afferma in un mondo dove invece l'organizzazione sociale tende a diventare sempre più razionalistica e meccanizzata. Heidegger, che ricorda gli anni tra il '10 e il '20 come dominati da queste figure, nel 1927 scrive Essere e tempo, in cui si afferma l'idea che la nostra filosofia e, in genere, la nostra cultura ha dimenticato l'Essere, non ha cioè più consapevolezza di che cos'è il senso dell'essere.

Abbiamo una quantità di campi di conoscenza, le scienze con i propri linguaggi specifici, che nel linguaggio di Husserl - maestro di Heidegger - si definivano "le ontologie regionali", ambiti in cui si applica un certo sistema di criteri per affermare il vero e il falso: l'ontologia regionale della fisica è diversa dall'ontologia regionale della sociologia, ma in tutti gli ambiti abbiamo dei criteri per distinguere ciò che vale in un certo campo e ciò che non vale (si veda al riguardo H. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica). Ci sono quindi moltissimi criteri di questo tipo, ma si è perso, secondo Heidegger, il senso complessivo di che cosa chiamiamo "è"; abbiamo dimenticato il senso di questo termine perché abbiamo ridotto l'essere all'oggettività.

L'effetto della rivoluzione scientifica moderna, interpretata coerentemente dal positivismo dell'Ottocento, porta a questa idea conclusiva: "è" solo ciò che è verificato secondo metodi rigorosi, scientifici; soltanto questo è l'essere nel senso pieno. Ma allora, secondo Heidegger, se identifichiamo l'essere con ciò che è oggettivamente dato e verificabile ne consegue, prima di tutto, che non possiamo più pensare alla nostra esistenza in termini di essere, perché non siamo mai un tutto già dato, siamo fatti di ricordi del passato, di esistenza nel presente e soprattutto di proiezioni verso il futuro. Se dunque parliamo dell'essere solo in termini di datità obiettivata e verificata metodicamente, non possiamo più parlare neanche dell'uomo come dell'essere, perché rischiamo di non capire la temporalità dell'essere, di non capire quanto conti, nel nostro modo di essere, la proiezione verso il futuro, che dal punto di vista della datità verificata non è nulla.

Parlare di essere solo in termini di oggettività ha, secondo me, conseguenze eticamente insostenibili. Se non possiamo più parlare dell'essere dell'uomo, perché il nostro modello di essere è quello della datità oggettiva, ciò non ha solo delle conseguenze conoscitive preoccupanti, ma ha soprattutto conseguenze morali, politiche e sociali drammatiche. Predisponiamo cioè l'essere dell'uomo a diventare oggettività manipolabile nell'organizzazione totale della società. In Essere e tempo non è chiaramente individuabile un elemento che diventa sempre più evidente nelle opere successive: l'esigenza heideggeriana di ricordare l'essere non è ispirata conoscitivamente. Le scienze sono fondatissime e lavorano benissimo: hanno conseguenze tecnologiche, inventano nuovi macchinari, insomma funzionano. Quello che non funziona è la loro conseguenza sociale e applicativa nella nostra vita, se non abbiamo un senso dell'essere che non sia identificato con l'oggettività.

In Essere e tempo, quindi, le ragioni che muovono Heidegger nel cercare di ricordare l'essere non sono dunque semplicemente teoretiche: dobbiamo sapere meglio cosa significa essere perché così funzionano meglio le nostre forme di sapere, dobbiamo ricordare il senso dell'essere perché altrimenti useremo la scienza e la tecnologia in termini anti-umani, in termini distruttivi della nostra umanità. Anche Husserl, il maestro di Heidegger, riprende nel 1936, dopo Essere e tempo, la propria riflessione originaria attraverso La crisi delle scienze europee, che descrive tale crisi in termini analoghi a quelli che propongo di ritrovare nello spirito dell'avanguardia, nella disputa su scienze della natura e scienze dello spirito della fine dell'Ottocento e nell'approccio heideggeriano al problema dell'essere.

Per Husserl, la crisi delle scienze è dovuta alla separazione in campi specialistici dei vari saperi scientifici e delle loro applicazioni tecnologiche in modi di applicazione che rendono impossibile per l'uomo il collegamento con il proprio mondo vitale. Si tratta perciò nuovamente di un problema etico, esistenziale e non soltanto di una migliore organizzazione dei saperi. Husserl non dice che le scienze sono in crisi perché non funzionano e non ritiene che abbiano bisogno di una migliore fondazione per diventare più scientifiche. Si potrebbe dire che hanno bisogno di una migliore fondazione per diventare più umane. La conclusione dell'opera husserliana è di due tipi: una, più idealistica, afferma che, per non perdere il collegamento delle forme di sapere con la vita, bisogna che il soggetto, che è il soggetto del sapere scientifico, rivolga lo sguardo più intensamente su di sé e capisca i propri modi di funzionamento, comprenda di essere soltanto l'incarnazione di una soggettività umana trascendentale uguale in tutti. In questo esito idealistico del discorso husserliano, si ritrova il Soggetto di cui avevano parlato gli idealisti.

L'altra conclusione è costituita dall'idea della Lebenswelt, del mondo della vita: la verità di cui la filosofia va in cerca e con cui dovrebbe cercare di rimediare alla crisi delle scienze, intesa come crisi della vivibilità delle scienze moderne e della loro applicazione tecnica, è ritrovare il mondo della vita vissuta. Il mondo della vita vissuta, come criterio di riferimento, può essere poi facilmente tradotto anche in termini etici; si tratta di utilizzare le scienze e la tecnologia senza perdere di vista un contesto vitale entro cui sia vivibile la nostra esistenza. Pensiamo, ad esempio, a certe applicazioni odierne della scienza: si è parlato della possibilità di costruire l'uomo scimmia per farne un deposito di organi di trapianto.

Ammesso che esista scientificamente questa possibilità, la sua realizzazione non dovrebbe dipendere solo, secondo una prospettiva husserliana o heideggeriana, dalla sua fattibilità, ma dovrebbe dipendere dalla compatibilità di questa realizzazione col nostro vivere collettivo: chi avrebbe il coraggio di costruire un uomo scimmia? Chi lo andrebbe a trovare tutte le mattine per dargli il cibo? Non ci sarebbe la possibilità che l'uomo scimmia con lo sguardo ci facesse comprendere che in realtà non è una scimmia, ma un uomo che chiede di non essere adoperato come un deposito di organi? La vivibilità complessiva dei risultati delle scienze preoccupa filosofi come Husserl o come Heidegger. Soprattutto attraverso esempi concreti, non è difficile rendersi conto di cosa vuol dire evocare il mondo della vita, la Lebenswelt, in questa critica della crisi delle scienze europee.

Può spiegarci che cosa è accaduto, all'interno del positivismo, in rapporto a questi temi? A suo avviso è possibile intendere la tradizione neopositivistica come una tradizione acriticamente apologetica delle scienze, del modello scientifico e della razionalizzazione tecnologica della società?

La questione del positivismo mi sembra importante perché il Positivismo ed il suo epigone nel Novecento, il neopositivismo, che è stato anche chiamato Neoempirismo, sembrano costituire l'unica voce filosofica in contrappunto alla critica della tecnologia della scienza. La filosofia novecentesca è una filosofia prevalentemente anti-scientista, anti-scientifica, in parte perché, in quanto filosofia, trova difficoltà a organizzare i propri discorsi nel linguaggio della scienza, a dimostrarsi scientificamente. Quindi in qualche modo, quasi per necessità, i filosofi erano nemici degli scienziati, perché, se avevano ragione gli scienziati, quello che affermavano i filosofi difficilmente poteva essere oggetto di prova o di falsificazione sperimentale, per esprimerci in termini popperiani.

Gli unici filosofi che guardano alla scienza con particolare attenzione e in atteggiamento di disponibilità partecipe sono i positivisti dell'Ottocento e i neopositivisti o i neoempiristi del Novecento. Questa scuola ha avuto il suo centro nel mondo anglosassone. Anche i tedeschi, che hanno lavorato intorno a queste tematiche, hanno gravitati nell'orbita della cultura anglosassone. Wittgenstein, ad esempio, che era austriaco, si trasferì in Inghilterra già prima dell'avvento di Hitler, e lo stesso Circolo di Vienna, per ragioni politiche, ha poi dovuto trasferirsi negli Stati Uniti.

In relazione alla seconda domanda vorrei ricordare che nel Positivismo originario c'è un'ispirazione di tipo largamente morale e umanistica. Basterà pensare, per esempio, a Comte, il quale aveva costruito la sua "legge dei tre stadi" in vista di un esito socio-politico, non soltanto nella prospettiva di un mero consolidamento del potere della scienza. Certo trasformare anche la morale e la sociologia in saperi positivi significa applicare il modello delle scienze della natura alle scienze umane, ma d'altra parte questo modello, quando viene applicato nelle scienze umane, si carica di un significato che non è puramente teoretico, ma politico: Comte voleva produrre un modello di società diverso da quello caotico, ancora inficiato dalla presenza di una quantità di moventi irrazionali, sia di carattere teologico che di carattere metafisico, che è quello in cui viviamo. Nel positivismo, vi era quindi un'ispirazione sociale, etica, politica, che non si perde neanche nel positivismo del Novecento.

Certo Popper ha sempre rifiutato la qualifica di neopositivista, ed è giusto che sia così, nel senso che la definizione più appropriata per lui è forse quella di razionalista critico; tuttavia, va rilevato che tra i filosofi che non sono diventati puri logici o puri matematici, Popper è quello che ha dialogato più attivamente con la tradizione epistemologica e anche scientistica della filosofia otto-novecentesca. Ebbene, in Popper, accanto all'interesse per la logica della scienza, c'è un interesse per la società aperta: uno dei suoi libri più famosi è intitolato La società aperta e i suoi nemici, che non è un trattato di epistemologia, ma, per così dire, di democrazia. Popper, cioè, intende rivolgere la sua ricerca concernente la logica della scienza, che riguarda la tematica della falsificabilità delle proposizioni scientifiche piuttosto che la loro verifica positiva con l'esperimento, ad un discorso di tipo largamente etico-politico.

Anche nella stessa tradizione neoempiristica o strettamente neopositivistica, a cui Popper certamente è appartenuto ma con cui ha avuto profonde affinità, l'interesse per l'etica e per la politica non è così marginale e remoto come potrebbe sembrare: anche chi assume la scienza come modello ha interesse ad una trasformazione della società e non intende quindi limitarsi all'accettazione acritica delle conseguenze sociali della tecnologia.

In relazione alle conseguenze sociali della tecnologia, è impossibile non fare riferimento alla Scuola di Francoforte. Può parlarcene?

I motivi della riflessione dei francofortesi mi sembrano quelli di cui abbiamo parlato finora. Nel pensiero europeo, la scuola di Francoforte è stata molto attuale e ha avuto molto seguito negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Ci appare quindi come un prodotto filosofico molto recente, e con cui dobbiamo fare i conti, ma le sue motivazioni restano fondamentalmente quelle che ho già delineato, cioè la rivolta avanguardistica della Kultur, potremmo dire con i termini di certi filosofi primo-novecenteschi, contro la Zivilisation, ovvero della cultura contro i meccanismi della civilizzazione che sono diventati oppressivi.

La parola totale Verwaltung, l'"organizzazione totale" è un termine diventato classico attraverso la filosofia di Adorno, che afferma l'idea che la razionalizzazione tecnologica della società comporti quasi naturalmente un rischio di totalitarismo politico. Questa tematica è stata molto presente nella cultura europea degli anni Sessanta. Credo che il Sessantotto, l'anno della contestazione giovanile, avesse sviluppato una critica radicale della tecnologia, che oggi è stata ereditata da alcuni filoni dell'ambientalismo e dell'ecologismo, in cui la tecnica è considerata naturalmente orientata a produrre strutture politiche totalitarie, oltre al fatto di tendere a consumare le risorse con estrema rapidità. Ovviamente, Adorno non aveva ancora esperienza dell'inquinamento atmosferico, dell'esaurimento delle risorse non rinnovabili così come l’abbiamo oggi e quindi quest'ultima tematica può considerarsi del tutto originale e nuova.

Ancora riguardo ad Adorno, occorre riflettere sul fatto che egli pensa alla società tecnologica come a una società motorizzata, non tanto nel senso in cui, oggi molto più di allora, siamo assediati dalle automobili, ma nel senso di un grande meccanismo mosso da un motore centrale. Questa idea di Adorno si ritrova anche in alcuni grandi romanzi come quello di Orwell 1984 e quello di Huxley Brave New World (Il nuovo mondo). Sostanzialmente, l’idea è che quando la società si organizza in modo saldamente tecnico, ci troviamo di fronte ad una specie di gran sistema di ingranaggi che girano tutti mossi da un centro unitario: per esempio la propaganda del regime nazista, con la radio di Goebbels che dà ordini a tutti. Secondo l'idea di pubblicità centralizzata di Adorno, noi viviamo in una società non tanto diversa da quella nazista. Come lì c'era una propaganda politica, oggi siamo dominati totalitariamente dalla pubblicità delle merci e siamo altrettanto poco liberi di quando Goebbels o Mussolini ci dicevano dalla radio cosa pensare e fare.

Questo modello, secondo me, non è già più il modello della tecnologia avanzata in cui viviamo noi oggi; del resto, già l'idea della radio poteva condurre anche Adorno ad una riflessione ulteriore; oggi, per esempio, se noi accendessimo la radio e sentissimo la voce di Goebbels potremmo, con un piccolissimo movimento, passare su un'altra modulazione di frequenza, e sentire invece delle canzoncine dialettali. Quando perciò la tecnologia diventa prevalentemente una tecnologia della comunicazione piuttosto che una tecnologia del motore, la paura nei confronti di questo mondo tecnologico sembra potersi riassorbire in una visione della società come scambio di comunicazione, piuttosto che in una visione della società come grande meccanismo mosso da un unico motore centrale.

Per concludere, può indicarci qual è, a suo avviso, un’immagine più attinente dei rischi collegati alla società tecnologica e quali aspetti dovrebbe oggi privilegiare la riflessione filosofica sulla tecnologia?

In un saggio di Sentieri interrotti intitolato L'epoca dell'immagine del mondo, Heidegger ripercorre la storia della scienza tecnica moderna interpretandola come costruzione di un'immagine del mondo che dipende da colui che costruisce l'immagine. In qualche modo, cioè, la tecnologia tende ad essere la costruzione del mondo sulla base dei progetti del soggetto; anche lo scienziato che fa esperimenti non guarda solo cosa succede, ma provoca degli eventi per confermare o smentire certe proposizioni; il tecnologo che produce macchine prosegue questa stessa vocazione tecnologica della scienza e così il mondo diventa sempre più l'immagine del mondo che noi ci facciamo e che noi costruiamo attivamente con la tecnica, piuttosto che una cosa data davanti a noi.

Nella nostra epoca, però, le cose sono andate così avanti che l'immagine del mondo non è più una; piuttosto, ce ne sono molteplici. Ed è precisamente questo che accade nella società della comunicazione. Viviamo in una società di intensa comunicazione in cui ci sono tanti giornali, tante stazioni televisive e questi enti di comunicazione parlano anche di loro stessi; nel leggere i giornali, molto spesso troviamo che alcune delle notizie riguardano le loro vicende: il giornale è stato comperato dal tale gruppo che produce dentifrici e noi possiamo essere messi in guardia sul fatto che le notizie che riguardano i dentifrici su quel genere di giornali dovrebbero essere prese cum grano salis, perché in esse interviene l'interesse del padrone della catena di fabbriche di dentifrici, che è anche proprietaria del giornale. La molteplicità delle agenzie di informazione nel nostro mondo, che forse è sempre esistita ma non così largamente come oggi, è diventata così esplicita che noi oggi sappiamo di vivere in un mondo di interpretazioni, non in un mondo di realtà date. Questo fa sì che la potenza totalizzante dell'informazione porti con sé una sorta di antidoto interno e che noi non prendiamo più troppo sul serio l'informazione che ci viene fornita.

Non sono solo le élites a sapere che la TV mente; tutti sanno benissimo che per sapere ciò che succede si devono comprare almeno tre giornali di orientamento diverso, si devono guardare programmi televisivi differenti, si deve comporre la visione della realtà in una babele informativa che ha certamente delle caratteristiche preoccupanti, nel senso che ci si può sentire confusi, ma che ha anche un'intrinseca componente liberante, emancipatoria. Credo che questa sia la nuova situazione con cui ha a che fare la riflessione filosofica sulla tecnologia.

Lo spirito in qualche modo soffia dove vuole. Nella società contemporanea, la paura che i filosofi e gli avanguardisti artistici del primo Novecento nutrivano nei confronti della tecnologia può essere ampiamente ridimensionata, anche se non del tutto superata, se per esempio ci assicuriamo che il pluralismo dell'informazione sia davvero tale, che per esempio non ci siano troppi canali televisivi posseduti dalla stessa impresa, o che non ci sia una sola informazione di Stato. Ma è bene cercare di spingerci nella direzione della babele, piuttosto che difenderci da essa, perché non dobbiamo eliminare la pluralità dei linguaggi, ma piuttosto moltiplicarla. Forse, se ci spingiamo in questa direzione, molte delle ragioni per cui nel nostro secolo la filosofia ha giustamente diffidato della tecnologia potrebbero essere eliminate o addirittura rovesciarsi in positivo.

 

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