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I pro e i contro delle nuove "classi"

Giancarlo Bosetti

 

"Classi di laurea". Nel gia’ complicato dizionario del mondo accademico entra questa nuova espressione che si aggiunge a "corsi di laurea", "facolta’", "dipartimenti" e via speculando sulle distinzioni tra i vari livelli dell’organizzazione universitaria. Una cosa e’ certa: le classi di laurea si dividono in due categorie, quelle di laurea breve e quelle di laurea specialistica, secondo che parliamo del titolo assegnato dopo il triennio o dopo il quinquennio. E un’altra cosa e’ certa: le classi di laurea specialistica sono per il momento 104, non una di piu’ e non una di meno. Lo stabilisce un decreto che, se tutto va come previsto, dovra’ essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale tra un mese e mezzo. Il che significa che le nuove classi entreranno in funzione per le universita’ piu’ scattanti nel nuovo ordinamento gia’ dal prossimo anno accademico. E per la maggioranza da quello successivo.

Le "classi" non vanno confuse con i "corsi". Che differenza c’e’? Che i corsi di laurea possono essere di numero indefinito quante le cattedre abilitate ad accettare tesi di laurea, mentre il numero delle "classi" e’ definito da questa lista ministeriale la quale circoscrive tutto lo scibile dentro un perimetro vasto ma insuperabile. In teoria tu puoi laurearti in "epigrafia bizantina" o in "storia dei grandi alberghi", ma a condizione che quel corso venga ricondotto a una "classe", poniamo, di storia medievale o di storia e conservazione dei beni architettonici oppure di storia contemporanea o di progettazione e gestione dei sistemi turistici. E a seconda della classe che sceglierai il tuo corso di studi dovra’ contemplare i requisiti minimi fissati dalle liste di materie indicate nelle schede ministeriali per ciascuna classe. La novita’ e’ che il nuovo ordinamento lascia un maggiore spazio all’autonomia dei singoli atenei e delle singole facolta’, ma proprio perche’ lascia loro un maggiore margine di iniziativa, definisce il corredo minimo di "crediti", ovvero di esami, di cui quel corso di studi deve essere dotato.

La logica di questo nuovo assetto la spiega Guido Martinotti, sociologo urbano e prorettore della nuova universita’ milanese della Bicocca: "Proprio perche’ c’e’ autonomia, bisogna garantire alle famiglie, agli studenti, ai datori di lavoro che se uno si chiama medico ha studiato certe cose. Si tratta di stabilire dei minimi, dei parametri, dei corsi obbligatori uguali per tutti, per avere un titolo valido per ciascuna disciplina, per ciascun filone di studio. Quando gli atenei decidono di attivare un corso di studi sono liberi di determinarne il titolo, ma dichiarano quale e’ la classe che intendono attivare e sono obbligati a seguire i vincoli della singola classe". Ogni titolo di classe di laurea ha dunque una sua scheda, che comprende due parti: la prima indica il profilo formativo che ciascun corso di studi deve avere, nel senso che ogni universita’ dovra’ indicare a che cosa serve quel corso, quali sono i suoi obiettivi formativi, la seconda stabilisce un numero minimo di crediti necessari all'interno di una determinata rosa di materie per i corsi fondamentali.

Un’altra novita’ di questo ordinamento per "classi" e’ che nuovi corsi di laurea possono essere realizzati sulla base di accordi tra diverse facolta’, purche’ ciascuna riempia con le sue strutture le materie necessarie a soddisfare i minimi richiesti. Spiega Martinotti: "Per esempio una classe di scienze informatiche puo’ essere attivata sia da ingegneria che da varie discipline scientifiche (economiche, matematiche, statistiche etc.) oppure una classe di scienze turistiche puo’ partire da economia, da sociologia o da lettere. La classe di giurisprudenza e’ piu’ tignosa, ma potrebbe essere attivata anche da una facolta’ di economia come gia’ avviene".

Quando si parte? Martinotti e’ tra quelli che non vedono le ragioni per tardare di un anno. "Gia’ da molto tempo se ne parla, gli studenti hanno letto le novita’ sui giornali e molti se le aspettano dal prossimo anno accademico." Lo storico Nicola Tranfaglia, altro coautore della riforma che insegna all’Universita’ di Torino, e’ anche lui tra quelli che pensano di cominciare subito: "La mia facolta’ cambia faccia gia’ dall’anno prossimo, alla sola condizione che entro fine di giugno si riesca a fare uscire il decreto. E’ fondamentale che il ministero spinga per tagliare i tempi. A Torino sei facolta’ su dodici sono in grado di cominciare. Il Senato accademico ha dato via libera a chi vuole iniziare. Naturalmente per procedere bisogna fare modifiche ai regolamenti universitari e poi bisognera’ gestire il passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento. Il che vuol dire che, dove si comincia, dal prossimo autunno gli studenti non potranno iscriversi al primo anno dei corsi quadriennali, che andranno a esaurimento".

Per Tranfaglia a complicare le cose sono le resistenze delle corporazioni accademiche. "Il passaggio al nuovo ciclo rappresenta una forte innovazione. Non ci sara’ piu’ una definizione centralistica delle tabelle che dettano tutto lo schema del corso di studi. Decidono le singole universita’, semplicemente garantendo alcuni requisiti, ovvero una parte dei crediti, senza i quali il titolo di studio non verra’ riconosciuto. Le proporzioni della liberalizzazione sono 2/3 a 1/3. Il 66% dei crediti e’ fissato dal decreto e dalle schede delle classi di laurea, il 34% e’ deciso dalle singole strutture didattiche. Le decisioni autonome su quel 34% dovranno essere prese insieme ai rappresentanti degli studenti. Molte facolta’ hanno messo insieme commissioni didattiche che sono paritetiche, meta’ docenti e meta’ studenti".

Secondo Tranfaglia il peso delle corporazioni si e’ gia’ fatto sentire nella definizione della lista delle classi di laurea specialistiche. "Il loro numero poteva essere molto minore. Con ciascuna classe, molto generale, si poteva fare un numero indefinito di lauree specialistiche. Che bisogno c’era di fare tante classi di storia, antica, medievale, moderna etc., ne bastava una sola, dentro la quale si potevano attivare tutte le specializzazioni possibili e immaginabili. Si sente il peso della nostalgia dei vecchi ordinamenti centralistici, dopo 160 anni non e’ facile cambiare mentalita’. Gli accademici sono in gran parte anziani; l’eta’ media degli ordinari e’ di 62 anni, quella degli associati di 58. Non e’ solo questione di eta’ anagrafica, e’ che hanno fatto tutta loro carriera nel vecchio"

Una delle novita’ che rompono i vecchi equilibri e provocano reazioni di resistenza ce la spiega, da un altro punto di vista, un presidente di corso di laurea - il Dams di Lettere e filosofia della Terza Universita’ di Roma - Franco Ruffini, che insegna storia del teatro e dello spettacolo, dopo una movimentata carriera cominciata con la fisica, proseguita poi con la semiologia e la drammaturgia, insegnata e praticata in veste di autore: "Il nuovo ordinamento implica a mio avviso l’abolizione della titolarita’ dell’insegnamento. L’autonomia riconosciuta ai singoli atenei, che fisseranno di loro iniziativa una parte dei crediti nei corsi di studi allo scopo di caratterizzare meglio sul mercato didattico la propria offerta in competizione con le altre, comportera’ che non sara’ piu’ consentito a chi non ha studenti, perche’ il suo corso non e’ richiesto, di continuare implacabilmente nel proprio insegnamento. Non e’ questione di giudizio sulla qualita’ dell’insegnamento ma sulla qualita’ del servizio che si eroga. Per le discipline fondamentali di un corso di laurea non c’e’ questo problema.

"Esempio: al Dams, con il vecchio ordinamento se ho un insegnamento specializzato in teoria e storia dell’attore il suo titolare sceglie un tema per il corso monografico e nessuno gli puo’ dire niente, ma con il nuovo ordinamento il consiglio di facolta’ gli puo’ chiedere di modificarlo, dicendogli: va bene, mi fai 20 ore sulla storia dell’attore, ma altre 40 ore me le fai in un altro settore di questo campo disciplinare: drammaturgia, regia etc. Nel campo dello spettacolo e della comunicazione c’e’ forse una maggiore interazione tra le discipline, ma in altri campi questa richiesta di servizio didattico in funzione della domanda e degli indirizzi decisi dall'ateneo creera' degli arroccamenti. Pensiamo a filosofia: qualcuno che insegna da sempre filosofia morale dell’illuminismo a cui la facolta’ chieda di parlare di esistenzialismo potrebbe prenderla male. C’e’ una inevitabile divaricazione tra la ricerca della eccellenza e le esigenze del mercato. Questa riforma ci costringe a sbloccare una situazione stagnante".

Giacomo Marramao e’ stato tra i piu’ polemici nei confronti della prima bozza del progetto di riordino delle classi di laurea: "Era anacronistico il modo come veniva trattata la classe di filosofia, bisognava sganciarla dall’area umanistica in senso stretto e renderla autonoma con possibilita’ di orientarsi verso le letterature, la filologia o le scienze sociali, giuridiche, naturali. E poi la filosofia era addirittura scomparsa dal triennio di base. Adesso gli errori piu’ gravi sono stati corretti e ora le linee generali della riforma sono accettabili, ma ci sarebbe voluto molto piu’ coraggio. Rimane un problema: lo spirito della riforma premia molto la quantita’, poco la qualita’. L’obiettivo centrale del nuovo assetto voluto da Berlinguer e poi Zecchino era quello giusto di sanare un livello insostenibile di mortalita’ universitaria, vale a dire il tasso bassissimo di laureati rispetto agli iscritti, ma si e’ trascurato il problema dei livelli piu’ alti e dell’eccellenza. Le prestazione di una universita’ si misurano non solo in numero di laureati ma anche in qualita’ degli studenti licenziati e qualita’ degli insegnanti. Il paradosso e’ che con lo schema attuale la Normale di Pisa e’ considerata un polo improduttivo e avra’ meno finanziamenti degli anni precedenti, con il rischio di proseguire la tendenza in atto che le classi dirigenti italiane si formeranno in scuole superiori straniere, americane, francesi o tedesche".

Luciano Modica, rettore dell’Universita’ di Pisa, matematico, e’ il presidente della conferenza dei rettori. Nonostante il peso della carica, e l’enormita’ delle grane che, abbiamo capito a questo punto, finiranno sugli uomini che guidano gli atenei italiani, Modica e’ relativamente tranquillo: "Si capisce che ci sono resistenze all’applicazione del nuovo ciclo. Non e’ tanto importante partire subito quanto partire bene. Ciascuno nella sua disciplina, siamo tutti un po’ conservatori. E ci sono anche resistenze degli studenti che sono diffidenti sui due livelli di laurea e si chiedono quanto varra’ davvero la nuova laurea triennale".

Per Modica il nuovo sistema fondamentalmente risponde a una logica di adeguamento alla realta’. Una volta chiariti molti equivoci sulle nuove "classi" avremo di fatto la fine di quella "burletta", per cui la tesi di laurea doveva fingere di essere comunque una ricerca nuova e originale. "Il triennio avra’ anche lui una prova finale, ma non necessariamente una tesi, potra’ essere semplicemente una relazione, un progetto, una prova pratica. Invece la laurea specializzata richiedera’ un lavoro davvero originale nei limiti del possibile". Questa e’ la indicazione generale. Naturalmente le singole universita’ potranno anche decidere di alzare il livello della prova richiesta dopo il triennio. E sara’ un po’ il mercato a decidere che cosa funziona meglio.


 

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