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Jesus Christ Superstar


Josè Luis Sànchez-Martìn

 

Mentre la Repubblica Italiana dichiara ormai da anni a gran voce di avviarsi definitivamente a diventare una democrazia moderna ed europea a tutti gli effetti, vale a dire politicamente laica, culturalmente poliedrica e fondata sul rispetto dei valori della pluralità e della concreta libertà di pensiero politico, culturale e religioso, al momento, sulla scia dell’"effetto Giubileo", nella realtà dei fatti l'Italia sembra più che mai un paese a regime teocratico con un’unica onnipresente religione di stato.

Ogni parola, ogni mossa, ogni evento che veda coinvolto il Papa e la Chiesa Cattolica, anche il più banale o di routine, ha un'eco enorme su tutti i mezzi di comunicazione, in particolare sulla televisione. Oltre alle interminabili dirette dei discorsi, delle aperture delle Porte Sante, degli incontri con le corporazioni o le categorie, dei concerti, delle messe, delle Via Crucis; oltre ai dettagliatissimi servizi su ogni tappa di ogni viaggio in Italia o all'estero, c'è anche il dilagare di programmi giornalistici sui luoghi sacri, sulle vie sacre, sulle tradizioni sacre, sui pellegrinaggi sacri, così come il proliferare di "fiction", nuove o replicate, sulla vita di Santi, Sante e Beati o ambientate in conventi e monasteri.

In ogni "talk show" che si rispetti, di qualunque argomento si parli, c'è sempre almeno un vescovo, alcuni sono diventati delle vere e proprie "star" televisive, che dettano sentenza su tutto e su tutti. Ampio spazio acritico o blandamente critico è stato dato alle dichiarazioni di un esponente della Chiesa secondo il quale la nazione Italia dovrebbe difendersi immediatamente dal subdolo e pericoloso dilagare dell'Islamismo, il cui clandestino scopo principale sarebbe quello di destabilizzare e corrompere l'identità culturale del paese, in particolare delle donne.

Nel programma di restauro e valorizzazione del vasto patrimonio culturale italiano, che in molti casi versa in gravissime condizioni di abbandono e degrado, è stata data la precedenza "giubilare" a molte chiese, conventi e monasteri minori che per reale dimensione artistica dovrebbero essere in fondo alla lista delle priorità, rispetto a molti monumenti e tesori "pagani" o a carattere non religioso di maggiore importanza storico-artistica. Nell'assegnare gli scarsissimi fondi dedicati alla produzione culturale negli ultimi tempi, sia quelli regolari ed esigui - l'Italia è uno dei paesi europei che investe di meno in questo settore - che quelli straordinari e un po' più sostanziosi in occasione dell'Anno Santo, sono stati usati criteri che dichiaratamente favorivano e favoriscono i progetti e le manifestazioni che abbiano un rapporto con tematiche "giubilarmente" religiose.

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Così i musicisti, i compositori, i drammaturghi, i poeti, i cori, le compagnie di danza e quelle di teatro, gli organizzatori di eventi, di rassegne e di mostre, si sono messi in linea con i criteri dei finanziamenti o degli interessi delle istituzioni, producendo o accogliendo una sterminata quantità di Vite di San Francesco, di Cristo e dei Santi, patimenti di Parsifal, storie di Angeli, concerti di musiche sacre antiche e moderne, Passioni cantate, Giovanne D'Arco danzate e declamate, Genesi illustrate, storie di Suore canterine, mostre di Icone e di Arte Sacra e quant'altro rientrasse nel dettame del gradimento ufficial-clerical-popolare.

Sembra quindi che quella società che dovrebbe essere laica, che non vuol dire essere contro nessuno ma al contrario a favore di tutti perchè è di tutti, si stia invece più che mai identificando con quella Cattolica. Ne è stato un curioso esempio la coincidenza sullo stesso palcoscenico, lo stesso giorno, il primo maggio, in calcolata e risolta successione nel tentativo di renderli un unico evento, della messa che il Papa ha celebrato insieme a centinaia di sacerdoti per incontrare i lavoratori del Giubileo e del mega concerto rock che i sindacati confederati dedicano ogni anno ai lavoratori, in particolare ai giovani. Una strana commistione questa, tra l'agire sussurrato e profondamente religioso di un Pontefice "Superstar" e l'esibizione fragorosa e profondamente profana di amatissime "Rockstar".

Il periodo pasquale appena trascorso non poteva sfuggire a questo clima, anzi è per definizione quello che più vi si adatta. Per questo ci sembra che, per metterci in linea coi tempi che corrono, sia d'obbligo parlare di uno spettacolo che pretende di essere un evento quasi epocale, tra sacro e profano, tra divino e rock, e che forse non a caso è arrivato a Roma proprio con la Pasqua: la nuova produzione italiana del musical "Jesus Christ Superstar".

La composizione originale scritta da Tim Rice e musicata da Andrew Lloyd Webber nel 1970, autori dei più famosi musical degli ultimi decenni, tra cui "Cats", "Evita" e "Sunset Boulevard", nasce dal delicato ma riuscito incontro di due generi teatrali che sembravano addirittura antitetici. Il primo di questi generi è riferibile alla tradizione della "Sacra Rappresentazione" della vita di Gesù o "Passion Play" come viene chiamata dagli inglesi, che ha le sue origini nel medioevo un po' ovunque in Europa e che da un lato deriva dalla drammatizzazione o musicalizzazione dei Vangeli e della liturgia della messa e dall'altro è il risultato della voglia di partecipazione del popolo a una forma di teatro che dia una immagine concreta e identificabile del Mistero che è alla base della propria religione; infatti "Mistery Play" o "Miracle Play" sono altri modi con cui in Inghilterra chiamavano e chiamano queste rappresentazioni all'aperto che ancora oggi si svolgono davanti alle cattedrali e che coinvolgono anche centinaia di persone.

La più famosa, da tempi immemorabili, è quella della città di York, il cui manoscritto è il più antico e integro arrivato ai nostri giorni. Un soggetto quindi che, al di là dell'ovvia importanza teologica, tocca dimensioni molto profonde del sentire religioso popolare e la cui rappresentazione nel tempo era stata quasi esclusivamente gestita o regolata dalla Chiesa, comunque sempre riferita all'approccio colto e dichiaratamente sacro, sia dal punto di vista del testo, affidato a poeti o a prelati, sia dal punto di vista musicale, che ha trovato il suo momento più alto nelle "Passioni" composte da J. S. Bach.

In "Jesus Christ Superstar", questa tradizione si sovrappone a un tipo di spettacolo apparentemente incompatibile perchè ritenuto in se stesso frivolo e profano: il musical. Genere americano per eccelenza, il musical ha le sue prime radici in Europa in quel teatro musicale in uso soprattutto nel Settecento, a carattere popolare e con temi in genere leggeri e fantasiosi, in cui i dialoghi recitati servivano a far progredire l'azione fra i momenti lirici espressi con il canto e la musica. In Germania si chiamava Singspiel e il capolavoro del genere è "Il Flauto Magico" (1791) di Mozart. In Inghilterra c'erano le "Ballad Opera" che includevano melodie popolari e musiche e arie tratte da altri lavori. Il primo esempio fu la "Beggard's Opera" (L'opera del mendicante, 1728), di John Gay, che comprendeva, fra l'altro, musiche di Handel e Purcell. Benjamin Britten nel 1948 ne trasse un rifacimento, ma già nel 1928 la coppia Bertolt Brecht-Kurt Weill ne avevano tratto la famosa "Opera da tre soldi".

L'"Opéra-Comique" è la versione francese del genere, e anche musicisti italiani come Cherubini e Donizzetti ne diedero eccellenti esempi. La Zarzuela è l'equivalente nel teatro musicale spagnolo, che nasce nel seicento con il compositore Juan Hidalgo, il quale si valse addirittura della collaborazione di Calderòn della Barca. Per l'Italia possiamo fare riferimento all'Opera Buffa, in particolare a quella napoletana.

In realtà, il genere musicale europeo, nato a metà dell'Ottocento come evoluzione di quelli precedentemente elencati, che ha avuto la maggior influenza sul teatro musicale americano è l'Operetta, rappresentazione suntuosa con grandi scenografie e vistosi costumi, che alterna brani recitati, brani cantati ed eleganti scene danzate. In Francia diventa pungente e satirica con temi sentimentali piccolo-borghesi. In Austria è caratterizzata da una gaiezza spensierata, occupandosi di improbabili aristocratici e diplomatici astro-ungarici. Ma quella più importante nella nascita del musical americano è la particolare versione inglese dell'Operetta, le cosiddette "Savoy Operas" della famosa coppia Gilbert & Sullivan, spesso a carattere esotico ("Mikado", "I Gondolieri", "Il Granduca"), facili da cantare ma non per questo di minore qualità compositiva, molto popolari allora, quando venivano proposte al Savoy Theatre di Londra, ma ancora oggi molto rappresentate e amate.

Sarebbe lungo fare la storia del musical americano, ma possiamo dire sommariamente che nasce dalla spinta e dall'influenza di queste tradizioni europee e si definisce definitivamente come "americano" nell'incontro con la musica Jazz, ad opera di grandi e sofisticati compositori come Berlin, Porter e Gershwin. Dopo i primi decenni del Ventesimo secolo, decade verso la Rivista e lo sfoggio di scene, costumi e di statuarie e succinte signorine. Ritrova vigore soprattutto come genere cinematografico, in cui le danze e i balletti sono veri e propri protagonisti, grazie anche a straordinari interpreti come Fred Astaire, Gene Kelly, Ginger Rogers, Judy Garland, Cyd Charisse, Donald O'Connor e tanti altri.

Questa spinta della danza torna sul palcoscenico e ha il suo culmine in quello che molti considerano il musical più completo e riuscito di tutti i tempi: "West Side Story", musicato dal grande Leonard Berstein e coreografato in modo superlativo da Jerome Robbins, che nel 1961 firmò anche la regia della nota versione cinematografica assieme a Robert Wise. Il genere, sia sul palcoscenico che sullo schermo, verrà ancora rinnovato dal geniale coreografo e regista Bob Fosse, di cui basterebbe citare il pluripremiato "Cabaret" del 1972, con Liza Minelli. Ma la vera svolta che lo porterà ai giorni nostri così come lo conosciamo, il musical la avrà nell'incontro con un nuovo stile di musica: il Rock.

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La spinta rivoluzionaria del '68, la cultura giovanile che diventa protesta potente e di livello internazionale in grado d'influenzare il mondo, la qualità dei compositori ed esecutori che si cimentano con quella musica che sembra più di qualsiasi altra essere "contemporanea", sono alcune delle condizioni che permettono la nascita di tre anomali e magnifici "musical" in chiave rock: "Hair" (1968), pamphlet contro la guerra del Vietnam nato in un teatro-cantina di New York ma diventato subito un successo mondiale e che ha avuto una seconda giovinezza grazie al film di Milos Forman del 1979; "Tommy" (1969), scritto da Peter Townshend ed eseguito insieme al gruppo "The Who", una delle formazioni rock più aggressive e sofisticate del periodo, considerato da molti come la prima Opera Rock e nato come registrazione discografica. "Tommy" dovrà aspettare diversi anni prima di andare sulle scene e diventare poi nel 1975 un film visionario e precursore del linguaggio dei migliori video-clip, con la regia di Ken Russell e con interpreti del calibro di Eric Clapton, Elton John e Tina Turner. Terzo nel tempo ma non nella qualità, "Jesus Christ Superstar" del 1970.

Forse con più proprietà rispetto al pur straordinario e pioneristico "Tommy", in cui tutti i personaggi della versione discografica erano interpretati dalla sola voce del cantante degli "Who", Roger Daltrey, alla sua nascita "Jesus Christ Superstar" fu definito dagli autori una Opera Rock. Sebbene non sia sbagliato considerarlo un musical, insieme ai più evidenti elementi del rock ha infatti molte delle caratteristiche dell'Opera: una overture che contiene i temi principali che poi saranno sviluppati, la mancanza di dialoghi o parti parlate sostituite da veri e propri recitativi cantati, "arie" e "duetti" che sono sì delle canzoni, ma composte in modo che invece di essere estranee o distanziate dalla trama narrativa ne costituscono invece il nucleo drammatico ed emotivo.

Le voci sono distribuite secondo un criterio operistico e fa da contraltare agli elementi rock una base sinfonica che non nasconde nella sua ispirazione elementi melodici dell'opera, in particolare quella italiana, Verdi e soprattutto Puccini. I testi di Rice sono di una grande potenza poetica, semplici e diretti come si addice al migliore rock, e le musiche di Webber, sofisticate e semplici al tempo stesso, amplificano questa potenza rendendola anche vibrantemente narrativa e soprattutto profondamente emotiva. L'intreccio dei temi trattati e dei temi musicali può essere definito perfetto e la sfida di trovare un equilibrio tra il rispetto per i contenuti teologici e tradizionali da una parte e l'interpretazione moderna, personale e musicale dall'altra, è vinta in modo impeccabile.

La chiave di lettura principale, questione delicata per ovvi motivi, è quella di presentare Gesù, carismatico e portatore di un messaggio, in quanto uomo. Infatti così sembra essere considerato e amato dagli altri protagonisti, Giuda e Maria Maddalena. Non ci sono miracoli o meraviglie divine e il massimo dell'intensità emotiva è raggiunta quando Egli incontra, impotente e sopraffatto, una moltitudine di malati e bisognosi che da Lui vorrebbe la soluzione di tutti i problemi, o ancor di più quando, davanti alla prospettiva delle sofferenze che lo aspettano, comincia ad avere dubbi sul senso del suo sacrificio. Inoltre, il tradimento di Giuda e delle autorità ebraiche è letto come politicamente necessario per evitare che le conseguenze dell'azione e del verbo di Gesù, che possono essere interpretate come una incitazione alla ribellione, non comportassero la sanguinosa repressione del popolo da parte dell'impero romano, che in quel momento occupava Israele.

Giuda, che forse è quello che ama di più Gesù, ribaltando così in qualche modo la lettura facile del cattivo-traditore, davanti all'inaspettato corso degli eventi che lo porterà all'atroce fine raggiunge la consapevolezza di essere anche lui una vittima, necessaria al compimento di un piano più grande di tutti e per questo anche incomprensibile. Una lettura che nulla toglie alla dimensione religiosa, ma che permette anche a un laico di ritrovarsi in quelle intensità umane e in quei dubbi. Inoltre il titolo suggerisce anche un'ulteriore lettura, quella di una moderna favola rock proiettata sullo sfondo mitico del Cristianesimo, in cui una "Star" viene prima acclamata e idealizzata per poi essere abbandonata e rinnegata dai suoi stessi fan, fino alla distruzione finale.

Nato, sulla scia del successo di "Tommy", come registrazione discografica, dopo un anno, in seguito alle vendite allora record di due milioni di copie in venti settimane, viene allestito come musical in tournée per gli Stati Uniti e poi a Broadway. Acclamato dai giovani, viene accusato e duramente attaccato da predicatori e uomini di chiesa, che lo considerano blasfemo e pericoloso. In ogni caso comincia il suo successo internazionale e viene allestito finalmente a Londra, patria degli autori, dove resta in cartellone fino al 1980, dopo 3.358 repliche e due milioni di spettatori, diventando all'epoca il musical più longevo delle scene inglesi, superato poi da "Cats", degli stessi autori.

Nel 1973 il regista Norman Jewison, lo stesso che è oggi sugli schermi con "Hurricane", trae un film dal musical. Girato nel deserto della Palestina, è semplicissimo nei mezzi utilizzati, il deserto appunto, con il fascino delle sue rocce, della sabbia, delle caverne, del vento e di qualche antico rudere con qualche impalcatura. La povertà dei mezzi usati è inversamente proporzionale alla potenza delle immagini e alla capacità di coinvolgere profondamente qualunque spettatore, pur dichiarando subito che si tratta di una "sacra rappresentazione" laica, quando all'inizio vediamo arrivare in pieno deserto un autobus malandato dal quale scendono gli attori e scaricano i pochi e semplici costumi e gli oggetti che verranno utilizzati.

Sono tutti giovani vestiti in modo molto informale, secondo i gusti degli anni '70, che si salutano e abbracciano prima di cominciare la "rappresentazione", nel cui clima ci immerge subito il rituale della vestizione di Gesù. Jewison usa magistralmente i mezzi cinematografici per addentrarsi nelle pieghe della storia e nell'anima dei personaggi, realizzando un capolavoro unico per intensità emotiva, interpretativa e di originalissima adesione all'andamento melodico e ritmico delle musiche, che come già aveva fatto il musical originale, ha cambiato per sempre il modo di intendere il genere.

Ed è proprio questo grande film che viene saccheggiato a piene mani, e malamente scopiazzato e banalizzato, dalla nuova produzione italiana di "Jesus Christ Superstar". Quello che cerca di spacciarsi per un evento culturale di grande importanza artistica, con la complicità dei mezzi di comunicazione che gli offrono ampio spazio e rilievo, è in realtà una delle più ruffiane operazioni commerciali degli ultimi anni. Infatti, nella produzione del "Teatro della Munizione", vige un'impostazione che deliberatamente distrugge la tensione narrativa e drammatica della composizione teatrale originale, a favore di una duplice condizione di banale e facilissima usufruizione commerciale: da una parte si assiste nient'altro che a un sempliciotto e addomesticato concerto rock, lo prova il fatto che tutto è predisposto perchè alla fine di ogni brano, per tutta la durata dello spettacolo, indipendentemente dalla carica drammatica o emotiva, scocchi immancabilmente l'applauso con urli e fischi da stadio, il che, per una regia seria e consapevole di mettere in scena la storia più tragica dell'immaginario occidentale, dovrebbe essere una vergogna e non un vanto; dall'altra, tramite delle coreografie che al meglio sembrano da saggio di fine corso, si ricrea l'atmosfera di un varietà televisivo da domenica pomeriggio, in cui rientra perfettamente la presenza di un "primo ballerino", non previsto né giustificato però dalla drammaturgia originale.

Evidentemente non è un caso che il coreografo Roberto Croce vanti soprattutto lavori e collaborazioni in ambito televisivo. Questa duplice atmosfera, da concertino rock e da varietà televisivo, viene accentuata e spesso sostenuta da un utilizzo delle luci che ne ricalca le modalità, come le forti coloriture assolutamente ingiustificate dal punto di vista del racconto, intermittenze e sincronizzazioni con la musica, utilizzo di stroboscopiche, ecc. A questo bisogna aggiungere l'altra fondamentale caratteristica di tutta l'operazione, il ricalco pedissequo e quasi perverso del film di Jewison. A cominciare dal manifesto, di stile cinematografico e che nella metà inferiore reca un'immagine che non è dello spettacolo ma la stessa o una molto simile a quella del manifesto del film.

Proseguendo poi alla scelta degli interpreti, che sembrano fisicamente le controfigure di quelli dei film e che imitano nota per nota, gesto per gesto. Fa impressione vedere come persone con facce da Giovanni, Giorgio, Mario, sguazzino per due ore nell'autocompiacimento di credersi John, Peter, George, cantanti e attori americani che interpretano i personaggi della storia. Certo, tutto questo non è da imputare alle "maestranze", ma ai fautori dell'operazione, produttore, regista, coreografo e direttore musicale, che così hanno voluto le cose. Va detto, infatti, che l'intero corpo di ballo, incluso il "primo ballerino", nonchè l'orchestra, è d'ottimo livello, sprecato, e che alcuni dei cantanti riescono a cavarsela. Ci piace segnalare, tra quelli del corpo di ballo/coro, il danzatore Marco Bebbu, che si distacca per la sua forte e costante presenza teatrale.

Ovviamente, un discorso a parte va fatto per i due protagonisti stranieri, ambedue americani e di colore, che sono il vanto della produzione: Carl Anderson nella parte di Giuda e Amii Stewart in quella di Maria Maddalena. Anderson è stato il Giuda della prima produzione americana a Brodway del '71 e della ripresa del '92, recitando in tournée in più di 50 città, nonchè protagonista nello stesso ruolo nel film di Jewison. Ha vinto diversi premi internazionali e può vantare collaborazioni con artisti Jazz, Soul e Pop come Nancy Wilson, Stevie Wonder, Mark Isham, Maynard Ferguson, Patti Labelle, Herbie Hancock, Wayne Shorter e Joe Zawinul.

Amii Stewart ha vinto nel suo paese diversi premi per le partecipazioni a musical importanti e dopo essere stata per anni una delle regine internazionali della Disco Music, è approdata in Italia, partecipando più volte a San Remo e collaborando con musicisti del calibro di Ennio Morricone, per il quale ha inciso il disco "Pearls: Amii Sings Morricone". Questi due grandi artisti sono molto al di sopra di tutta l'operazione e quando prendono la parola, cantata, per un momento ci trasportano in quello che avrebbe potuto essere il musical, ci commuovono, dandoci per un istante il senso del tragico e dell'umano di cui l'opera è intrisa. Viene voglia allora di chiedere di smontare le inutili scenografie anche esse copiate dal film e il mediocre e inutile impianto luci, di far andare via gli altri con le loro scopiazzature fasulle, di mandare a casa i ballerini inutili e di lasciare soli Anderson e Stewart a raccontarci con la musica le emozioni intense di una grande storia e di una grande opera.

Vi consigliamo di spendere le quasi 70.000 lire che costa un biglietto di platea al Teatro Olimpico comprandovi la videocassetta del film e il doppio disco della colonna sonora. Potrebbe anche avanzare qualcosa.


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