Le braccia della Dabbraccio
Angelica Alemanno
Era il 1958 quando Renato Castellani diresse il film Nella città
l'inferno, interpretato da due grandissime, Anna Magnani e Giulietta Masina, forte dramma
carcerario che anticipava formalmente le scelte stilistiche mantenute anche in seguito dal
regista nelle sue opere televisive: nonostante la tematica di impegno dichiaratamente
sociale, il film non aveva però la carica drammatica che si attribuì ad
altre sue opere, soprattutto quelle della cosiddetta "trilogia della povera
gente", più vicine alla poetica del neorealismo: "Sotto il sole di Roma"
(1948), "E primavera" (1949) a cui collaborò Zavattini e "Due soldi
di speranza" (1952).
E con un precedente simile, ci saremmo aspettati davvero un grosso lavoro di
reinterpretazione della vicenda, se non dal punto di vista del testo -
riscritto per il palcoscenico da Dacia Maraini senza alcuna forzatura, anche se già
perfettamente adatto ad una drammatizzazione teatrale, data la sostanziale unità di luogo
della sceneggiatura - almeno dal punto di vista registico. Diretto da Francesco Tavassi,
l'adattamento di Dacia Maraini della sceneggiatura cinematografica di Suso Cecchi
DAmico Nella città linferno è stato di recente portato in scena
al Teatro Valle di Roma.
E a Roma è ambientata anche la vicenda, per essere precisi nel carcere delle Mantellate,
un ordine monastico di domenicane impegnate nel recupero delle donne disadattate, un luogo
chiuso e claustrofobico. Il regista Francesco Travassi afferma che la Maraini conosce bene
la situazione carceraria grazie ad una scrupolosa inchiesta che svolse negli anni 60
proprio allinterno dei carceri femminili da Trieste a Palermo:
Scrve Dacia Maraini: "[
] le due protagoniste agiscono in un microcosmo,
in
una forma di convivenza forzata, manifestano gioie, sentimenti, amicizia, dolori, odi e
amori in forma esasperata cossicché dove cè dramma cè anche commedia e dove
cè commedia cè anche tragedia. Quattordici attrici, quattro attori, due
celle ed un corridoio che talvolta si scompongono per creare un grande spazio comune"

Lo spettacolo inizia con larrivo nel carcere di una giovane donna
(Simona Cavallari) che pur dichiarando subito la propria innocenza è costretta, per
lingenuità di alcune sue dichiarazioni atte a proteggere un uomo - che si rivelerà
ben presto il vero colpevole - a rimanere ospite del convitto. E già, perché di vera
ospitalità si tratta, visto che lambiente di reclusione che ci viene mostrato è
simile più ad un colorato collegio per attempate signore che ad un penitenziario. La
scenografia di Alessandro Chiti si sforza di dare movimento a uno spazio che non ha nulla
di claustrofobico, di triste e ossessivo, ma al contrario offre una visione tanto
particolareggiata quanto poco realistica.
Ma aspettiamo, illudendoci che non sia il realismo formale che si cerca, quanto quello
interiore, di una condizione tragica profonda. Scopro invece che la messa in scena offre
in modo particolarmente evidente la differenza tra ciò di cui si vorrebbe dare una
rappresentazione e ciò di cui si dà solo una goffa caricatura.
Fa la sua comparsa sulla scena il personaggio di Egle (Mariangela Dabbraccio) la
detenuta più problematica, la cattiva tra le cattive che però - contrasto
ritenuto forse efficace - è anche la bella delle belle: femme fatale vissuta,
piena di saggezza di strada, che prepara la giovane novizia Lina (Simona Cavallari)
allarte del cinismo e alla femminilità quale strumenti di riscatto sociale, quella
femminilità di cui lei è maestra e padrona. Non è un caso che proprio lironia
dovrebbe essere il tratto distintivo di uneroina nera, capace di sdrammatizzare la
disperazione con distacco e fatalismo, unEgle verace, napoletana.
La DAbbraccio però esaspera il proverbiale gesticolare partenopeo assumendo a
tratti le sembianze di una baiadera, se non addirittura quelle di una vigilessa,
sbracciandosi, imprecando, in un continuo metti-e-leva del suo spolverino di seta blu. Il
suo napoletano corretto si perde in un ritmo forsennato e monocorde che
rischia di trascinare la recitazione di tutte le altre interpreti le quali, cadendo nella
trappola, si assuefanno al ritmo della protagonista.
Peccato, giacché il testo offrirebbe diversi spunti per virare lo spettacolo in una
direzione almeno tragicomica. Invece non cè una pausa, uno sguardo, che riescano a
catalizzare alcun pathos drammatico, tantomeno ad amplificare il controtempo di una
battuta comica. E come se non bastasse, ad assecondare questo dispendio denergia, i
movimenti scenografici sono funzionali solo ed esclusivamente ad adattare il punto di
vista dello spettatore a quello della DAbbraccio, che compiacendosi della sua
posizione di privilegio non risparmia neanche ossessivi ammiccamenti al pubblico,
terminando ogni movimento in una posa plastica tutta esteriore.
Non si tratta di cattiva recitazione, che si sarebbe comunque tollerata maggiormente, ma
di un volontario svuotamento registico di qualunque conflitto - fisico e verbale - a
favore di una edulcorata e stucchevole offerta carnale. Ci si potrebbe perfino sentire
offesi da questo tipo di rappresentazione, ove più che mai il femminile dovrebbe essere
punto di vista e non punto voyeuristcamente guardato.
Le tredici attrici che interpretano il ruolo delle compagne di Egle fanno fatica a
svincolarsi da unaurea di assoluta improbabilità: pulite pettinate, persino con
collant e tacchi alti; lunica cosa che riusciamo ad apprezzare sono le musiche
originali di Giacomo Zumpano, che emergono dalle profondità della scena attraverso le
mani di una gitana silenziosa ma per questo, forse, più credibile di ogni altro
personaggio.
La giovane Cavallari appare sulla scena, e ancor più accanto alla pro-rompente
Dabbraccio, esile, indifesa, e perfettamente in parte, fin quando, cambiata nel
costume, ma non nella sostanza, dovrebbe tornare in carcere da donna provata, vissuta. Ma
il regista lha voluta lasciare completamente piatta, schiacciata dal suo stesso
sorriso disarmante, senza sfumature, senza contraddizioni.
Il problema allora mi sembra uno solo: ogni dettaglio su cui cade il nostro sguardo, ogni
gesto, ogni espressione, rimangono lontani, tutto è assolutamente esteriore.
"Ri-costruito" senza unautentica spinta creativa, senza innovazione, tutto
quello che avviene sulla scena, aspirando ad altro da quello che appare, ci lascia solo il
desiderio di una tragicità mancata, di unironia persa, di un tempo bruciato. Ed
ecco Marietta (Yvonne Dabbraccio), il terzo polo dialettico su cui dal secondo atto
verte il conflitto dellazione. La giovanissima ed ingenua aspirante a un matrimonio
promesso al di là delle sbarre si risolve in due lunghe treccine nonostante lo sforzo
dellinterprete, questa volta eccessivo, di esprimere la drammaticità della propria
condizione.
Cosè che ci fa resistere per quasi due ore di spettacolo? Lattesa di un nodo
drammatico forte, convincente, vivo: non basta la storia della ragazza madre che ha
abbandonato il giovane figlio nel Tevere, non bastano le narrazioni di Lina sul mondo
esterno che infrangono le ingenue speranze di Marietta, non basta neanche la scena madre
di Egle che quasi alla fine dovrebbe smascherare la profonda anima redenta di una donna
che in realtà non crede alla propria immagine. "No: non è possibile, non è colpa
mia se sei diventata così, no: non è possibile, non è colpa mia, non è colpa mia
!!" Ma quellimmagine che ha convinto Lina a vendersi, quellimmagine che
dovrebbe esprimere con sarcasmo la rabbia e la forza della disperazione, non ha convinto
nessuno di noi spettatori.
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