Il libro dei sogni
Chiara Lico
Cè una piramide. È lì per caso, cera già da prima. Non
si sapeva dove metterla e allora meglio non toccarla, a qualcosa potrà servire. Ci sono
sedie che vanno e che vengono. Le spostano loro, i ragazzi. Seduti a terra, le trascinano.
È lunico modo, perché non possono camminare, "chi per un incidente, chi
perché è nato così". Ci sono due valigie che testimoniano le andate e i ritorni, i
viaggi. Le esperienze. E poi cè lei, la protagonista: larte, che entra in
scena ora a passo di danza, ora recitando poesie.
La scenografia è tutta qui. Non una lampada, non un tavolino, non un bicchiere. Niente. E
quando il sipario si alza, i versi di Flaiano fanno una finta e infilzano a tradimento,
proprio come quella luce rossa che domina su tutto. E poi restano lì, sospesi in un tempo
battuto a ritmo di filastrocca: "Il gioco è questo: cercare al buio qualcosa che non
cè. E trovarlo". Con la danza, con la poesia. Nel teatro.

Codiretto da Pino Cormani e da Thomas Otto Zinzi e coreografato, per le
parti ballate, da Rossana Longo, Il libro dei sogni, in scena al Teatro San
Raffaele di Roma dal 27 aprile all8 maggio racconta il tema della disabilità
attraverso le parole di due volontari - i registi, anche attori - e, soprattutto,
attraverso la vita quotidiana di dieci ragazzi disabili - il corpo di ballo Il cerchio
e il centro - trascorsa in una casa-famiglia. A dividersi la scena sono due facce di
una stessa esistenza: quella monotona diurna difficile ingiusta, e laltra: quella
che non si vede, desiderosa di esprimersi, di combattere, di essere libera. E quando
questo inconscio emerge, lo fa attraverso la danza, realizzando se stesso in una
dimensione del tutto onirica che trova in brevi frammenti di gioia il riscatto a lunghi
periodi di dolore. Poco importa se domani sarà tutto uguale daccapo e poco importa se di
nuovo la noia avrà la meglio, perché con larte - questo è il messaggio - si ha la
fortuna di riuscire a evadere anche dalla prigione peggiore.
Il libro dei sogni è uno spettacolo di teatro, su questo non ci piove. Ma a dir
così, non sembra di dire abbastanza. Forse perché le parti di prosa sono limitate
rispetto a quelle ballate, forse perché la poesia, persino quella di Dante, vuole accanto
a sé i Carmina Burana per lInferno e Mozart per il Paradiso. O forse perché si
percepisce che tutto, in questa pièce, è dato dallincontro-scontro di danza e
teatro. E che proprio dalla loro fusione nasce quellequilibrio sottile che ne
caratterizza i ritmi e allo stesso tempo ne rende impossibile una definizione canonica.
"Potrei chiamarlo un concerto di danze", spiega la coreografa
Rossana Longo, anche ideatrice dello spettacolo. "Perché tutto, qui, si ricongiunge
nella potenza del ballo. O, se vogliamo, dellarte, modo privilegiato per realizzare
i sogni ". Longo, che insegna al Centro Studi di Danza classica e moderna, racconta
di aver contattato i registi e di aver proposto loro di adattare elementi di prosa alle
coreografie da lei già realizzate. "In realtà, il tema dello spettacolo non era
stato assolutamente pensato, in precedenza: avevamo solo le parti di danza e da quelle è
nato tutto. Insomma, è stata la recitazione che si è plasmata sulla musica e non
viceversa".

Unesperienza nuova, all'interno del genere. Soprattutto per i ballerini, abituati a
esprimersi con il corpo e non con le parole. Patrizia Laurino, prima ballerina, diplomata
al Balletto di Roma, precedenti esperienze in teatro e in televisione, qui rappresenta una
ragazza difficile, dal carattere forte e determinato. Che quando balla, però, esce da sé
e trova la sua vera dimensione. "Credo che il pubblico sarà colpito nel vedere dei
danzatori che allimprovviso recitano: è un vero e proprio rovesciamento di canoni
già dati".
Eppure, questo "enigma", questa "scommessa", questo mosaico
darte costruito a braccio non è un musical, non è un recital e non è una commedia
musicale. Su questo, i due attori-registi sono irremovibili. Pino Cormani e Thomas Zinzi,
quarantanni ciascuno e unamicizia nata quando, scritturati da Lucio Chiarelli,
recitarono assieme in Qualcuno volò sul nido del cuculo, e poi approfondita
"perché alla base cè la stessa visione dellarte, una vera e propria
affinità mentale".
Cormani e Zinzi non cercano definizioni esaurienti. Non credono ce ne possano essere, pena
il contraddire un modo di concepire il teatro, che loro oggi portano avanti con il Progetto
Miniere, "simbolo, anche nel nome, della volontà di scavare, di andare a fondo,
oltre le apparenze". Proprio come avviene in questultima opera, che li ha visti
inventare giorno dopo giorno un copione mai scritto. "Dal punto di vista della regia,
credo sia questa la parte più innovativa dello spettacolo: lassenza totale di un
canovaccio al quale far riferimento" spiega Cormani, che racconta: "Io e Thomas
avevamo chiaro solo largomento da trattare. Ma le battute sono nate sul palco, a
contatto con ballerini che non avevano mai recitato prima. Noi spiegavamo i contenuti
delle scene da provare e chiedevamo loro di improvvisare. Dai singoli caratteri venivano
fuori reazioni differenti rispetto a uno stesso argomento. Prova dopo prova, quelle
improvvisazioni si sono andate cristallizzando in battute mai messe per iscritto."
Un esempio di scrittura scenica, insomma. Che anche nel trattare un tema delicato come
quello della disabilità e delle difficoltà obiettive incontrate da chi partecipa di
questa realtà, non esita a regalarsi un registro ironico e pungente ("quantè
bello lassessore, quantè bravo lassessore", anche se di fatto non
sente suoi i problemi di cui si dovrebbe occupare) o attuale, puntando l'attenzione su una
tivù che regala inclemente guerre e disperazione o anche solo noia. Uno spettacolo di
denuncia, quindi? "No" risponde Thomas Zinzi, "vorrei che una volta chiuso
il sipario, sorgessero nelle persone milioni di domande. Sarebbe il regalo più grande:
significherebbe essere riusciti a insinuare il dubbio, la riflessione. Che poi è il fine
ultimo del teatro".
Sicuramente di questo teatro, che sceglie la periferia per raccontare
lincomunicabilità ma che sta attento a definizioni troppo stringenti perché,
"non importa dove si fa teatro, se quello che ne emerge è la centralità del suo
ruolo. Se mai cè una limitazione che larte in genere deve fuggire, è quella
sua interiore, la sola a non permettere allemozione di esprimersi".
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