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Il "Dio modesto" di Masaki Iwana


Josè Luis Sànchez-Martìn

 

Tra le evidenti diversità che separano e spesso collocano agli antipodi la nostra cultura "occidentale" da quella che genericamente chiamiamo "orientale", la più profonda, indecifrabile e incomprensibile per noi è certamente quella con il Giappone. Sarà per l'isolamento che in passato il Giappone mantenne dal resto del mondo per secoli, sarà per la sua quasi maniacale rielaborazione culturale e il suo approfondimento filosofico d’ogni aspetto della vita, anche il più piccolo o apparentemente trascurabile, sarà per le caratteristiche uniche di quella loro particolare versione del Buddismo, lo Zen, che per di più convive con una più antica e molto diversa forma di pensiero filosofico-religioso, lo Shintoismo, sarà per chi sa quante altre ragioni ancora, ma sta di fatto che se dalla Cina o dall'India possiamo dire che ci separa una diversità, dal Giappone dobbiamo dire che ci separa una vera e propria estraneità.

Ed è proprio per questo che se ci avvicina con la dovuta umiltà e senza la solita arroganza ed etnocentrismo occidentali, la cultura giapponese, sia nella sua classicità sia nelle sue manifestazioni contemporanee, può esercitare un fascino e un’attrazione profondi, inquietanti e irresistibili. Sono queste le emozioni che inevitabilmente suscita in noi un fenomeno culturale, la danza Butò, nato in Giappone negli anni 60' e che dagli inizi degli anni 80' influenza profondamente il panorama mondiale della danza e di un certo teatro, con un impatto paragonabile soltanto a quello del TanzTheater della tedesca Pina Bausch.

Il padre indiscusso della danza Butò, nata sul finire degli anni '50, è stato l'allora giovane danzatore moderno Tatzumi Hijikata (1928-1986). Spinto dalla disoccupazione e dal clima deprimente e opprimente in cui si trovava il Giappone del dopoguerra, un paese umiliato dalla sua sconfitta e disorientato e confuso dalla perdita d'identità culturale imposta dall'occupazione americana, Hijikata decide di reagire e di prendere le distanze sia dalla cultura tradizionale, codificata e cristallizzata da secoli, sia dalla cultura occidentale, colonialista e decadente. Comincia così a collaborare con giovani artisti che condividono le sue stesse inquietudini, provenienti da varie discipline, e a mettere a punto una propria concezione della danza e del corpo, che va contro tutto quello che è il Giappone del momento.

Dopo molte sperimentazioni in performance improvvisate e senza titolo, nel 1959, all'interno della sezione dedicata ai nuovi talenti dall'Associazione Danza del Giappone, Hijikata presenta il rivoluzionario "Kinjiki" (Colori Proibiti), un pezzo senza musica che si svolge interamente al buio e tratta un tema assolutamente provocatorio: l'omosessualità. Nasce così una nuova danza che Hijikata chiama "Ankoku Butò" (La Danza delle Tenebre) e che sarebbe stata destinata a cambiare per sempre la concezione non solo della danza e del corpo, ma quella della usufruizione stessa dell'esperienza artistica. Infatti, quella performance negava radicalmente la dimensione estetica e intellettuale, per richiedere allo spettatore un livello di ricezione completamente fisico ed emotivo.

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Goda Nario, lo studioso che per primo scoprì e sostenne Hijikata, in un’intervista rilasciata a Maria Pia D'Orazi ricorda così quell'evento: "Dovevamo semplicemente percepirne l'atmosfera, la densità emotiva. Un ragazzo scappava nell'oscurità mentre un uomo lo inseguiva. Potevamo sentire il rumore dei loro passi e l'affannarsi del loro respiro." Lo spettacolo offriva "soltanto delle condizioni, ma i sentimenti, la situazione e il dramma stesso venivano costruiti dal pubblico: il dramma si svolgeva all'interno di noi stessi (...) Se tutto fosse stato comprensibile, si sarebbe trattato di una comprensione intellettuale. Invece, siccome non riusciva a vedere bene, il pubblico fu costretto a sentire con tutto il corpo."

Hijikata incontra allora un altro giovane danzatore, Kazuo Ono, riconosciuto come l'altro padre coofondatore del Butò, col quale stabilisce un sodalizio che getta le basi filosofiche, teoriche e pratiche per la formazione di un movimento di danzatori che abbraccia almeno tre generazioni, accomunate non da uno stile, da una estetica o da una tecnica, ma da una poetica e da una concezione del mondo che prima di tutto è una concezione del corpo come luogo dell'identità, delle metamorfosi, dell'erotismo incontenibile, dell'assenza, come luogo della libertà.

Negli ultimi dieci anni, con il solito decennio di ritardo rispetto al resto dell'Europa tipico di un paese provinciale senza una politica culturale, anche l'Italia ha scoperto la danza Butò. E non solo come spettatrice delle inquietanti performance, ma anche e soprattutto come allieva. In particolare, uno dei più interessanti e intensi danzatori della terza generazione, Masaki Iwana, frequenta l'Italia assiduamente, più o meno da dieci anni, proponendo con continuità densi e faticosi seminari seguiti da danzatori e attori con impegno e curiosità. Recentemente, è passato da Roma per presentare il suo ultimo spettacolo e condurre due lunghi workshop. Abbiamo approfittato per rivolgergli alcune domande, ma prima di proporvi le sue risposte, ci sembra doveroso fare almeno una sommaria presentazione della sua storia.

Masaki Iwana nasce a Tokyo nel 1945. Dopo una scomoda esperienza come attore moderno, nel 1974 abbandona definitivamente la parola, diventa danzatore e viene riconosciuto nella cosiddetta "scuola di Butò", creando da subito una propria linea individuale di ricerca che lo porterà a presentare dal 1979 al 1984 una serie di 150 spettacoli sperimentali da solista, basati sulla nudità e l'immobilità, che gli varranno ampi riconoscimenti per la sua originalità e la potenza della sua presenza e che lo porteranno ad essere invitato in Europa. Infatti, nel 1983, in coincidenza con l'inizio di una nuova fase della sua ricerca che comporta anche un'approfondita dimensione filosofica, viene chiamato dal festival di Avignon e comincia la sua fortunata carriera a livello internazionale, che lo porterà, dopo il successo parigino della creazione "Namanari", primo suo spettacolo in cui indossa un costume, ad esibirsi in tutta Europa (Scozia, Germania, Inghilterra, Finlandia, Romania, Russia, ecc.).

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Dal 1985 al 1996 Iwana crea 12 spettacoli da solista, tra cui "Awai" (Bi-Duality), "Ugetsu" (Pioggia di Luna), "Susahi" (Vestito d'Acqua) e "Hikari no niku" (Corpo di luce), ognuno dei quali comporta l'approfondimento di un diverso concetto filosofico e una tappa di un nutrito percorso di sperimentazione delle capacità espressive del corpo. Consacrato definitivamente come uno dei più importanti e originali esponenti della terza generazione del Butò, viene invitato a presentare le sue performance in più di 20 paesi e conduce circa 450 workshop, molti dei quali, a partire dal 1990, vengono tenuti in Italia. E' da quell'anno che comincia a dividere la sua residenza tra Tokyo e Parigi, dove crea un centro di ricerca dal nome "Butò Hakutokan" (La Maison du Butò Blanc).

Iwana continua fino ad oggi la sua costante attività di pedagogia, ricerca e produzione di performance sui più diversi temi, antichi e moderni, orientali e occidentali, sempre però concepiti come tramite per un discorso in profondo legame con il nostro presente e le nostre inquietudini. Tra le ultime produzioni possiamo ricordare "La Legende de Giselle" (1994), "Yomotsu Hirasaka" (Il pendio fra la vita e la morte, 1995), "Bushitsu to no mitsuyaku" (L'unione con le sostanze, 1995), Jokanaan (Giovanni, dove si congiunge la luce, 1997) e Lowly God (Il Dio modesto, 1998), presentato recentemente a Roma nella nuova versione preparata per "Tokyo 2000".

La serata romana, al teatro Furio Camillo, consisteva in due parti molto diverse tra loro. Iniziava con un'improvvisazione strutturata realizzata da 18 allievi "veterani" che negli anni hanno seguito le proposte pedagogiche di Masaki e s'intitolava "Butò Experience: Piante, Oggetti ed Esseri Umani ubriacati dall'odore del sangue". In pratica, un saggio di fine seminario che mostrava soprattutto la difficoltà per un europeo di appropriarsi di una così complessa e lontana disciplina. Il tema da sviluppare dato dal maestro la dice già lunga su questa difficoltà: "Lasciare che il corpo sia una 'cosa'. Evitare la celebrazione di quell'emozione che viene da un'idea. Estrarre dal proprio corpo lo spirito delle 'cose' e non le loro forme. Allora un'emozione reale e un demone possono sgorgare dal nostro corpo che diventa le 'cose' stesse."

La seconda parte consisteva in un assolo di Massai di una cinquantina di minuti sul tema del "Dio modesto", su musiche di Hirokazu Hiraishi. Inizialmente coperto da una specie di impermeabile, che fa appena intravedere la sottostante nudità, con i lunghi capelli sciolti, in uno spazio vuoto appena illuminato da qualche faro, Masaki Iwana porta immediatamente il pubblico al di fuori della percezione consueta dello spazio e del tempo, ma anche al di fuori della comprensione razionale e dell’attesa narrativa. La tensione emotiva e sensuale che si crea ci fa precipitare nelle zone arcaiche del sacro, guidati da una specie di sciamano che si trasforma continuamente in esseri sconosciuti. Siamo colpiti in un modo inconsueto che coinvolge il corpo e non l’intelletto.

Tolto l'impermeabile, praticamente nudo, a eccezione di un nastro che gli copre i genitali e gli corre verticalmente sul torso fino ad avvolgergli il collo, Masaki è ancora più potente nella sua sensualità ambigua, che a volte lo scaraventa in momenti di scatenato e quasi violento erotismo e che ci fa tremare con un senso di timor panico, ci disorienta, ci confonde, ci spaventa. Si ha il sentore della follia, del pericolo, della minaccia. E tutto questo succede perché davanti a noi accade qualcosa alla quale non siamo né abituati né preparati: l’esperienza di un corpo in libertà. Qualcosa che è praticamente impossibile da raccontare, che si può solo sperimentare.

Si può dire che il Butò nasce come una risposta contro la società giapponese moderna?

Negli anni a cavallo tra i 50' e i 60', il Giappone era immerso nella confusione, sopprattutto dal punto di vista culturale, per questo molti artisti reagirono e cercarono di cambiare le cose, di trasformarle. La reazione più immediata fu certamente quella di andare contro lo stato delle cose, contro quella società, ma questa è una considerazione molto parziale, giacché il Butò più che andare contro la cultura tradizionale o contro la confusione è nato oltrepassarle, per superarle, ha un atteggiamento globale che vuole trasformare, non distruggere. E' vero che negli anni in cui nacque la danza Butò il livello di confusione e di stallo era tale che gli artisti reagirono fortemente e vollero cambiamenti veloci e radicali, per questo il Butò delle origini è molto forte, pieno di erotismo e di violenza, ma ciò è legato alla situazione di quel momento.

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C'è un rapporto del Butò con la tradizione, magari con quella più antica d'origine contadina?

La cultura giapponese è di origine contadina e quindi anche il nostro buddismo e shintoismo si rivolgono a questa condizione, così come le nostre forme tradizionali di danza come Kabuki e Noh provengono da antiche danze contadine. In questo senso anche il Butò ha una certa tendenza ha rapportarsi con le forze e gli elementi della natura, ma quello che è importante è che il Butò è, nel senso esatto del termine, una danza contemporanea, non per via di un preciso stile o di un tipo di movimento, ma perché guarda sempre verso il presente. Invece Kabuki e Noh sono tradizionali, cioè ripetono un'eredità trasmettendosi da padri in figlio gli stessi movimenti e le stesse tematiche. Quindi anche se si potessero trovare degli elementi in comune tra queste arti tradizionali e il Buto, ciò che conta è che l'approccio è completamente diverso.

Le arti tradizionali giapponesi sono fortemente codificate. Il Butò cerca la libertà?

Anche qui bisogna distinguere. Da una parte ho sentito molte volte Hijikata, il padre del Butò, dire ai suoi danzatore o allievi che non esiste la libertà: lui rifiutava l'improvvisazione, aveva creato un suo codice ed era molto severo su questo. Una volta l'ho visto picchiare una danzatrice perché aveva fatto qualcosa di troppo libero. Dall'altra parte siamo in molti, a partire dall'altro coofondatore del Butò, Kazuo Ono, a cercare e rispettare la libertà, ovviamente ognuno a modo suo.

La parola libertà ha suggerito in molti che per fare il Butò non è necessario un allenamento rigoroso del corpo, che chiunque può fare Butò...

E' un equivoco generato dal fatto che Hijikata, trovando che i danzatori classici sia della tradizione occidentale che di quella giapponese avessero un corpo molto flessibile, molto allenato, ma che la loro mentalità fosse molto rigida e ristretta, raccolse dalla strada dei vagabondi e dei barboni che trovava molto affascinanti. Quello che spesso si ignora è che dopo queste persone sono state severamente allenate. Non è possibile fare della vera danza, del vero Butò se non si è molto preparati e allenati nel corpo, nella mente e nello spirito. Pensare di poterlo fare è pericoloso, ed è il contrario della libertà.

Date le differenze culturali e soprattutto la concezione occidentale che separa nettamente il corpo dalla mente, è possibile per un europeo fare della danza Butò?

Se non avessi almeno una speranza non potrei condurre tutti i seminari che mi vengono richiesti ma, parlando onestamente, lo trovo molto difficile. Gli europei vogliono sempre risposte chiare e categoriche, sì o no, giusto o sbagliato, vogliono capire immediatamente tutto, al più presto possibile. Noi giapponesi invece abbiamo per cultura un approccio diverso, rispettiamo il tempo, sappiamo che bisogna aspettare per avere delle risposte, è come per il whisky, che ha bisogno di essere lasciato invecchiare e decantare a lungo perché diventi un liquore. La risposta è inclusa in questo tempo, ne deriva da esso.

Le sue performance di danza hanno una forte componente teatrale, questo ha a che fare con il suo personale approccio al Butò?

Il mio percorso ha subìto molti cambiamenti nel tempo. Ho cominciato come attore, attore moderno, ma avevo molte difficoltà a esprimermi con le parole, quindi ho deciso di cercare di lavorare col corpo. All'inizio ero molto limitato per cui il mio atteggiamento era ieratico. Con lo sviluppo delle capacità del corpo ho sviluppato anche le capacità di espressione in senso globale, utilizzando allora, come nel teatro, anche idee e concetti. Questa libertà probabilmente coinvolge una dimensione che potrebbe essere chiamata anche teatrale.

Il tipo di performance che realizzo in questo periodo, come "Il Dio modesto", nasce da brani di danza che io destrutturo tramite l'improvvisazione mentre li eseguo, facendo incontrare il passato, la danza come l'avevo concepita, e il presente, cioè il modo in cui la sto eseguendo in quel momento sulla scena. Questo implica un percorso di emozioni che cambiano di volta in volta e che proprio per questo mi possono sorprendere. Forse anche questo ha a che vedere con il teatro e con il mio passato di attore.

Qual è la caratteristica più importante che manca secondo lei ai danzatori e agli attori occidentali che seguono i suoi seminari?

Molto spesso il corpo è allenato, anche molto allenato, ma in rapporto a dei concetti, per cui non è veramente libero, vogliono sempre definire qualcosa con il corpo o con le azioni. E' questa libertà del corpo forse l'elemento che più sento mancare.

Per noi è molto difficile capire cosa significa la libertà del corpo, potrebbe spiegarcelo?

Questa è una di quelle domande, molto importanti per me, la cui risposta non è immediata, si ottiene nel tempo. Ne potrei parlare a lungo ma in realtà non so definire a parole ciò che è o non è il corpo. Parlando in senso generale, posso dire che il corpo ha molto più volume e valore, molta più capacità e potenzialità di quanto non sia concepito dalla consapevolezza e dall'intelligenza; ma molto spesso la gente pensa che il corpo debba essere controllato dall'intelligenza, e questo è il problema principale, probabilmente.

Quando il corpo è libero dall'intelligenza, dal pensiero, dall'intelletto, allora è libero. La prova che il corpo è molto più capace di quanto se ne abbia consapevolezza sta in quelle situazioni di alto pericolo o di panico, come durante un terremoto o un incendio, in cui la paura e l'istinto escludono l'intelletto o l'intelligenza e lasciano il corpo agire in libertà, per cui il corpo svolge prestazioni sorprendenti che mai avremmo pensato di poter realizzare in condizioni "normali".

Come definirebbe l'improvvisazione, così importante nella sua danza?

Improvvisare viene molto spesso inteso come fare quello che vuoi, quello che ti pare, in totale libertà. Ma non è così, perché prima di tutto il nostro corpo, noi stessi, siamo molto limitati e quindi possiamo fare solo ciò di cui siamo capaci, ciò che ci permettono i nostri limiti. Per questo è così importante allargare questi limiti, allenando molto rigorosamente il corpo e lo spirito. Allargarli anche al di là dei comportamenti e dei condizionamenti culturali e sociali. Forse è questo diventare profondamente un essere umano spogliandosi dai condizionamenti sociali e culturali che il pubblico sente come "animalesco".

Secondo, in ogni momento di una performance mi trovo davanti a molte condizioni, molti elementi, che includono me stesso, il mio comportamento, le mie emozioni, il pubblico, l'atmosfera che si crea, lo spazio, la musica, e io sono obbligato ad agire continuamente in rapporto a questi elementi, non decidendo, il che implicherebbe un pensiero e quindi un limite, ma scegliendo, immediatamente, il che è il modo più dinamico di agire, anche se può comportare degli errori, che comunque, connessi a quella libertà del corpo, fanno parte naturale della performance.

 

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