Problemi attuali delletica
Paul Ricoeur con Renato Parascandolo
Questa intervista fa parte dellEnciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche, unopera realizzata da Rai-educational in collaborazione con
lIstituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dellUnesco,
del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio
dEuropa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme despressione
e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel
suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Professor Ricoeur, ci può fare uno schema dell'etica di Aristotele?
Credo che dovremmo scegliere l'Etica nicomachea, - perché abbiamo due o tre trattati di
etica di Aristotele, ma questo è il più completo, il più noto e il suo testo più
sicuro e meglio studiato. E' un'opera che comincia con l'orientare il lettore verso un
fine che è lo stesso dello scrittore, dell'autore, Aristotele. Ciò che hanno in comune,
ciò cui mirano entrambi è la felicità, la realizzazione di una vita felice. Tutti gli
uomini vi tendono e Aristotele non si preoccupa di dimostrarlo, ma ammette che tutti la
perseguono con le azioni i pensieri e i sentimenti. A partire da questo dato egli si
interroga su come tale scopo possa essere "ragionevolmente" conseguito. Non dico
"razionalmente", perché c'è forse una ragione morale che non è identica alla
ragione scientifica. Ne discuteremo più avanti.
Aristotele intanto comincia con lo stabilire quel che si deve intendere con azione umana.
E' importante che ci sia un problema morale perché l'uomo è un soggetto che agisce, che
soffre, che può fare delle scelte ragionevoli. Tutto il problema dell'etica è di mettere
in rapporto la capacità di scegliere che è in ciascuno, con la ricerca della felicità
che ciascuno persegue. Quali sono gli elementi intermedi? Aristotele li chiama virtù. Ma
la parola "virtù" ha - oggi - nel nostro linguaggio una cattiva reputazione.
Perciò preferirei tradurlo con "perfezioni", cioè i modi di fare bene quello
che si fa. Quindi egli classifica le virtù secondo i campi in cui si può essere
perfetti, in cui si può essere i migliori e si può giudicare sé stessi come i migliori,
perché si è ottenuto un buon risultato. Egli ripercorre in fondo le virtù conosciute ai
suoi tempi, introdotte nell'educazione con la lettura dell'Iliade, dell'Odissea, dei
tragici, degli oratori.
Vi si ritrovano: la temperanza, che è il buon uso dei desideri, dei piaceri e dei dolori,
la magnanimità, il coraggio, la giustizia, di cui parleremo più a lungo, l'amicizia - il
libro forse che preferisco dell'Etica nicomachea. Compiuto l'intero percorso si termina
là dove si era cominciato, con la ricerca originaria della felicità. E abbiamo il gran
libro decimo dell'Etica nicomachea, in cui si mette a confronto la vita contemplativa con
la vita pratica, perché in fondo, quando scrive quel libro, Aristotele non è lui stesso
nella pratica, ma parla sulla pratica, dunque è un'opera del pensiero teoretico sulla
pratica. E il libro si conclude appunto con la teoria del rapporto tra teoria e pratica.
Si sa che un concetto fondamentale dell'Etica nicomachea è quello di giusto mezzo. Che
cos'è il giusto mezzo?
E' l'apporto principale di Aristotele, questo. Noi ci troviamo davanti a una molteplicità
di virtù: ne abbiamo a seconda delle classificazioni, quattro, sette, otto. Che cos'hanno
in comune? Qui c'è un problema per il filosofo, è qui che il filosofo compie un lavoro
di riflessione distinto sia dal senso comune sia da quello che fanno i poeti. Aristotele
ha scoperto - e in ciò consiste il suo apporto filosofico - che tra tutte le virtù c'era
almeno questo tratto comune: di trovare tra due estremi un giusto mezzo. Parlerò prima
degli estremi, perché è assai più facile parlare degli estremi. Prendiamo per esempio
il coraggio. Il coraggio sta tra due estremi: l'uno è la temerarietà, il rischiare la
propria vita inutilmente, l'altro è la viltà, l'aver paura. Il coraggio sta tra i due.
Vorrei dire a questo punto che anche la parola "giusto mezzo" non ha buona
reputazione, perché si dice che è una forma di compromesso; ma l'idea di Aristotele è
che il giusto mezzo è ciò che è più difficile da trovare, perché è un punto di
equilibrio estremamente fragile in realtà - e spero che la nostra discussione ci
permetterà di ritrovare questo problema, più tardi, in situazioni contemporanee in cui
è appunto tra due posizioni estreme che è estremamente difficile trovare il giusto
mezzo. Credo che ci sia un testo di Aristotele in cui si dice che il giusto mezzo è una
cresta, un vertice, non già una specie di palude in cui si affondi.
Allora non si tratta di senso comune o di conformismo?
No, il giusto mezzo è ciò che è più difficile da trovare.
Sappiamo che con i sofisti, con Socrate, con Platone era cominciata una riflessione
sulla politica e sull'etica. Ma qual'è la novità che troviamo in Aristotele?
Lei ha ragione: bisogna ricollocare Aristotele in una corrente, anzi sullo sfondo
delle tre più importanti correnti di pensiero. Innanzitutto i filosofi presocratici. Ma
Aristotele in quest'opera non entra in discussione con loro; lo fa nella Metafisica
anziché nell'Etica. I sofisti poi sono molto più importanti, perché erano stati
educatori dei giovani intellettuali avidi di potere, cui i sofisti insegnavano a ottenere
il successo mediante un abile uso del linguaggio. Platone si era opposto vigorosamente ai
sofisti, proponendo un'idea della giustizia del tutto opposta all'abilità, al successo.
C'è un (suo) detto famoso: meglio essere giusto che avere successo, quando l'alternativa
si pone in questi termini. Per Aristotele, quindi, è Platone il vero termine di
confronto, Platone, che era il suo maestro. Aristotele è stato suo discepolo per
diciassette anni. Platone aveva proposto del problema morale, in particolare della
giustizia, quest'idea: che il bene, le forme del bene sono, esattamente come gli oggetti
matematici, degli oggetti assoluti, che ci precedono, che hanno una realtà propria, sono
insomma delle idee, idee in senso platonico.
Mentre Aristotele ha voluto avvicinare il bene all'uomo, mostrando che era contenuto
innanzitutto nella sua aspirazione alla ricerca della felicità e inoltre nelle strutture
della sua azione. Perciò credo che l'apporto di Aristotele qui è di aver articolato le
virtù con l'azione umana. La nozione di prassi, che poi ha avuto così grande fortuna con
Marx, è nata con Aristotele. La prassi è l'azione, il luogo del bene e del male. E tutte
le "perfezioni", che chiamiamo virtù, sono delle forme, che lui chiama
abituali, delle disposizioni generali - nell'azione - in rapporto a situazioni tipiche,
come il pericolo per il coraggio, la tentazione degli eccessi in ordine al piacere e al
dolore corporale ecc.
C'è un rapporto in Aristotele tra l'Etica nicomachea e la Poetica?
Si può vedere meglio il rapporto nell'altro senso: della Poetica in rapporto all'Etica:
il tratto comune, se così si può dire, è appunto l'azione. Perché, qual'è l'oggetto
della Poetica? E' l'imitazione creatrice, da parte dei poeti, di azioni notevoli, che
conducono gli uomini migliori alla sventura, mediante una sequenza terribile dell'azione
che sta appunto sotto il segno dell'eccesso dell'hybris. Per tornare alla sua domanda, la
poetica è la contropartita dell'etica. Perché, che ci dice l'etica? Ci dice che è
praticando la virtù che l'uomo consegue la felicità. E la poetica allora fornisce degli
esempi inventati, le grandi finzioni narrative, una specie di laboratorio del pensiero per
combinare, nelle maniere più diverse, quattro termini: il bene, il male, la buona e la
cattiva sorte. Ogni tragedia è un itinerario diverso, che appunto mette in scena - è il
caso di dirlo - il rapporto dell'azione con la felicità e l'infelicità, attraverso la
virtù e il vizio.
In Platone, come in Socrate, troviamo l'identità del vero col bene. In Aristotele
quell'identità è rotta. Quali sono le differenze tra Socrate e Aristotele?
Socrate resta un enigma per tutti i commentatori, perché, siccome non ha scritto
niente, lo conosciamo solo attraverso Platone, qualche passo di Aristotele, un po' di
Senofonte e (attraverso) i sarcasmi di Aristofane. Ma qual'è il vero Socrate? In ogni
caso sembra proprio che di fronte ai sofisti che insegnavano in fondo un uso perverso del
linguaggio per ottenere il successo, - perciò a Platone non piacevano i sofisti, di cui
oggi si tenta la riabilitazione, per Platone i sofisti sono proprio questo: l'uso perverso
del linguaggio ai fini del successo sociale e politico, - bene, di fronte a tutto ciò
Socrate oppone un intellettualismo estremamente forte. E' nell'uso della ragione che
risiede il principio stesso del bene. L'uomo non è cattivo di sua volontà, ma per
mancanza di conoscenza, di educazione intellettuale, diciamo di cultura intellettuale.
Da questo punto di vista Aristotele rappresenta un correttivo molto importante, perché
prende la categoria di azione in un senso assai più largo. La struttura dell'azione
comporta per lui, oltre agli aspetti intellettuali, che chiama deliberazione, in cui
ritroviamo l'elemento socratico, anche il desiderio. Perciò chiama assai spesso la virtù
un desiderio ragionato, un desiderio sensato. C'è dunque in Aristotele un rapporto assai
più stretto con il contenuto profondo del desiderio e si capisce, perché è presente in
lui l'aspirazione alla felicità che viene dalle viscere stesse dell'uomo desiderante. E
il problema per Aristotele è di introdurre l'elemento della razionalità in questa
aspirazione fondamentale. E' una nota molto diversa dall'intellettualismo di Socrate. Ma
credo che si debba rendere giustizia a entrambi: non c'è da fare una scelta, non hanno
gli stessi avversari.
Si potrebbe dire che Socrate risponde ai sofisti, mentre Aristotele risponde a Platone,
dunque risponde alla risposta che Platone aveva dato ai sofisti. C'è un gioco assai
complicato di correttivi, di aggiustamenti, e non si può prendere un pensiero in blocco
al di fuori del rapporto dialogale con i suoi contemporanei - e anche con i suoi
predecessori - perché in fondo Aristotele è sempre in discussione con Platone e quindi
anche con Socrate e i sofisti, e talvolta con i presocratici.
Se lo scopo dell'etica per Aristotele è la felicità intesa come felicità
individuale, in che nesso sta la responsabilità civile del cittadino di fronte alla
società e, in genere, agli altri con l'ideale etico della felicità, visto che talvolta
ci si trova a dover sacrificare la propria felicità al bene comune?
Non bisogna mai dimenticare che per Aristotele c'è tra etica e politica un nesso
assai stretto, ma per coglierlo dobbiamo tornare al concetto di azione, di prassi che è
il mobile centro di tutto il suo pensiero. L'azione, l'azione vera è quella che ha luogo
in pubblico, nell'agorà, nella discussione pubblica per la gestione della città. C'è un
testo, proprio all'inizio dell'Etica nicomachea, in cui dice addirittura che l'etica è
una parte della politica, perché la politica, per usare il linguaggio moderno di Hannah
Arendt, è lo spazio pubblico di manifestazione delle azioni umane. Di conseguenza è per
astrazione che certe virtù si possono considerare appartenenti, come diremmo oggi, alla
vita privata. Ma per un greco, a cui quell'opera era destinata, non c'era la separazione
tra vita pubblica e vita privata, che è un prodotto dell'individualismo moderno.
L'uomo greco, l'uomo - almeno - cui si rivolge Aristotele, è, integralmente, un
cittadino. Non esiste per lui la nostra opposizione di privato e di pubblico. Ne abbiamo
una traccia nelle virtù stesse: parecchie virtù sono pubbliche e la più importante è
la giustizia, di cui si parla nel quinto libro, poiché la giustizia consiste nel lottare
contro gli estremi del voler avere troppo in termini di profitti e nel voler avere meno in
termini di oneri, di oneri fiscali per esempio. Il giusto mezzo è la legge che lo
incarna, la legge della città, che distribuisce i profitti, gli onori, dunque i bene
comuni. La linea di demarcazione tra etica e politica è estremamente flessibile. Siamo
noi moderni che abbiamo fatto della morale un affare privato e della politica un affare
pubblico regolato da criteri diversi.
Aristotele distingue tra le virtù. Alcune le chiama "etiche" altre
"dianoetiche" tra cui spicca la phronesis. Perché?
Senza fare della filologia, bisogna però tenere presente un fatto elementare:
"etica" viene da una parola greca che vuol dire "costume", ma che ha
un omonimo che vuol dire "carattere": ethos ed ethos. Le virtù che Aristotele
ha preso in esame nel primo libro, come la temperanza, il coraggio, la magnanimità, la
giustizia, si possono chiamare virtù del carattere, perché fanno parte delle
disposizioni ordinarie di un uomo nell'azione. Ciò che si giudica in etica non è ogni
azione singolarmente presa, ma una disposizione ad agire in un certo senso. Ma Aristotele
si pone un secondo problema e si chiede pure qual'è la virtù che si applica alla
deliberazione messa in opera dalle virtù. Si può dire che ci troviamo qui di fronte a
una virtù di secondo grado, al problema della phronesis e Lei ha fatto bene a conservare
la parola greca, perché è imbarazzante tradurla. I latini l'hanno tradotta con
prudentia, ma la parola "prudenza" ha per noi un senso molto molto diverso: ci
vuole prudenza per strada, nell'idea di prudenza c'è l'idea di precauzione, c'è qualcosa
di (un po') frigido, mentre per Aristotele è una parola estremamente forte, perché è
veramente la saggezza pratica in circostanze particolari, in circostanze determinate.
Potrei spiegarmi in questi termini: Aristotele ha incontrato il problema della
deliberazione nel libro appunto che precede l'enumerazione delle virtù, nel libro terzo,
in cui si parla della praxis e della poiesis, su cui forse torneremo. Lì esprime un'idea
assai limitata del ruolo della deliberazione e, in un certo senso, della ragione, che
consiste per lui soltanto nel calcolare bene i mezzi, una volta posto il fine. Se uno fa
il medico, ebbene, per essere un buon medico deve saper purgare, somministrare medicine o,
al contrario, tagliare; se uno fa l'architetto, deve saper costruire case. Come dice
Aristotele, non si delibera sui fini ma sui mezzi. Nel libro sesto invece, in cui parla
della prudenza, di quella famosa prudenza che è la saggezza pratica, ciò che viene messo
in questione sono proprio i fini. In rapporto al perseguimento della felicità, si deve
fare il medico? si deve fare l'architetto? Perciò, le dico, siamo di fronte a una virtù
di secondo grado, perché rimette in causa i fini, che non erano affatto in discussione
quando si diceva che c'è deliberazione soltanto sui mezzi e non sui fini.
Qui si delibera intorno ai fini. E' ciò che fa un adolescente, che anche noi facciamo in
tutti i momenti importanti della nostra vita, quando prendiamo una decisione per la nostra
carriera, quando facciamo la scelta di quello che si dice in termini moderni un progetto
di vita, un programma di vita. Qui c'è una deliberazione che investe veramente il
rapporto tra i fini e la felicità e non più soltanto quello tra i mezzi e i fini. Alla
fine di quel sesto libro c'è un capoverso che continua a stupirmi, perché dice: in
definitiva, (ciò che è) più importante della phronesis, della saggezza, è il
phronimos, l'uomo saggio, perché è lui, direi, il suo gusto, il suo tatto morale che gli
permette in una data situazione di riconoscere in che senso si può agire bene o male. E
Aristotele confronta a questo punto la phronesis con la sensazione, con l'aisthesis, che
ci mette in contatto con le cose singole.
Si può dire che la phronesis ci mette in rapporto con le situazioni singole, a partire
dalle grandi scelte di vita, che sono esse stesse ordinate alla felicità. Si può dire
della phronesis che essa circola dal basso in alto: in alto c'è l'idea che ci facciamo
della felicità, in mezzo le diverse virtù con cui la perseguiamo, e in basso le singole
azioni. La phronesis è quest'arte di accordare tutti i livelli, dunque un'arte morale.
E appartiene alla vita contemplativa o alla vita pratica?
Alla vita pratica. Si può dire che è la grande virtù della vita pratica, ma colui
che pratica questa virtù non lo sa. Colui che ne fa la teoria è il filosofo. Perciò
Aristotele non conclude con la vita pratica, ma con la vita contemplativa, perché non
c'è che l'uomo contemplativo che sia capace di confrontare dei generi di vita, come la
vita pratica, appunto - che per lui è la stessa cosa che la politica - con la vita
speculativa che gli è propria.
Un ruolo importante nell'Etica nicomachea è ricoperto dalla categoria dell'amicizia,
come categoria etica.
Le ho detto poco fa che provo una specie di affinità, che ho una predilezione per
questo libro. In primo luogo mi permetta di dire che la parola ha per noi un senso assai
più ristretto che non avesse per i Greci, perché per noi l'amicizia è un rapporto di
intimità con pochissime persone, con pochissimi amici. Aristotele, d'altronde, non dice
che si debbano avere molti amici, ma che l'opposto dell'amico è il nemico. Quando si
tiene presente questa opposizione, si vede che si tratta di qualcosa di assai più largo
di un rapporto preferenziale con una cerchia di amici eletti, si tratta bensì del
rapporto sociale stesso. E' l'amicizia, potremmo dire, che permette di vivere insieme
nella città. Perciò credo che non si debba opporre l'amicizia alla politica, perché il
rapporto sociale è una specie di estensione alla città tutta quanta, di quel nucleo di
amicizia che sperimentiamo effettivamente verso coloro che abbiamo scelti come amici. E'
evidente che da un lato bisogna prendere l'amicizia in un senso più lato di
"amicizia" nella sua accezione moderna, ma dall'altro, se si dice che è lo
stesso rapporto sociale, bisogna aggiungere che questo rapporto sociale è limitato agli
eguali, quindi esclude gli schiavi, esclude gli stranieri. Direi quindi che l'amicizia è
selettiva più dal punto di vista politico che dal punto di vista delle scelte
individuali.
A questo punto come bisogna valutare l'affermazione di Aristotele, per cui gli schiavi
non sono degli esseri umani?
E' un fatto di cultura. Ogni epoca è segnata da un suo retaggio. Aristotele non ha
mai detto di aver inventato la morale. Egli dà una struttura razionale a ciò che gli
sembra essere il meglio di ciò che è stato già elaborato, come dicevo, dai poeti, dagli
oratori, dai tragici. Ma egli vive in una società schiavista - questo è un fatto -
perciò non siamo contemporanei di Aristotele. Noi non possiamo pensare, dunque, la
philia, l'amicizia, senza estenderla a tutti gli uomini. Ma bisognerebbe dire, non per
giustificare Aristotele, ma per ricordarsi quanto questo problema fosse difficile, che la
schiavitù non è stata abolita che alla metà del secolo XIX. Lo stesso cristianesimo non
era riuscito a mettere fine alla schiavitù per secoli e secoli. C'è dunque in Aristotele
qualcosa che non coincide con la morale del nostro tempo, con la modernità.
Possiamo dire che la morale moderna è cominciata con la riflessione di Kant sull'uomo
considerato come fine in sé? Quali sono i rapporti - se ce ne sono - tra Aristotele e
Kant?
Mi sta molto a cuore questo rapporto tra Aristotele e Kant e sarei piuttosto
dell'opinione di quelli che non intendono opporli. Credo che Aristotele ci proponga una
morale - che è stata chiamata teleologica, perché fa posto al telos, al fine, alla
finalità, al perseguimento della felicità - che Kant non ha soppresso, poiché la prima
frase dei Fondamenti della metafisica dei costumi dice che tra tutte le cose - quaggiù o
in un altro mondo - che si possono considerare buone senza restrizione c'è una volontà
buona. Egli usa qui la stessa parola "buono" di Aristotele. Ciò che introduce
di nuovo è un criterio della moralità, la regola universale. Questa regola non
appartiene più al mondo di Aristotele, ma si potrebbe ridurre l'opposizione, dicendo che
il criterio di universalizzazione è semplicemente un test, una prova contro la
falsificazione dei buoni sentimenti, la generosità, la pietà e simili che nascondono,
sotto le apparenze della compassione, dei profondi egoismi.
Kant apporta la perentorietà di un criterio: ciò che non soddisfa al principio di
universalizzazione non appartiene alla sfera morale. Io direi che è possibile
riconciliare, nonostante tutto, Aristotele e Kant. Se si fa, come Kant nella seconda
formula dell'imperativo categorico, del rispetto dell'altro, se se ne fa l'espressione
più umana di questo imperativo categorico che oppone l'uomo come fine in sé all'uomo
come mezzo, allora credo che il rapporto con Aristotele possa essere trovato qui, perché
l'uomo della praxis aristotelica è l'uomo che è fine in sé stesso, la praxis ha solo se
stessa come oggetto, e in ciò sta la sua differenza con la poiesis che produce oggetti
nell'esteriorità, mentre la praxis ha a che fare solo con se stessa ed è a se stessa il
proprio scopo. Mi sembra che ci sia se non una identità, almeno un'assonanza, se mi
consente un'immagine musicale, tra questa idea della praxis che è fine a se stessa e la
persona umana considerata come fine in sé.
La differenza - è Hegel che lo dice - è che tra i due c'è il cristianesimo, che ha
messo l'accento sulla non fungibilità di ogni singolo. Per Aristotele questo non è un
problema, anzi è una questione che non si pone nemmeno. Non si può chiedere a un
filosofo di rispondere a domande che non poteva porsi. Dunque, tra Aristotele e Kant c'è
di mezzo il cristianesimo, ma io non credo che Kant abbia eliminato Aristotele, perché
come si può rispettare l'altro come un fine in sé, se non si collegano con la sua
libertà i mezzi corrispondenti, cioè dei beni, perituri certo, ma che sono pur sempre
mezzi materiali, mezzi sociali? Ritorna qui il problema di Aristotele, di intendere il
bene come una qualità dell'azione e non semplicemente come una forma vuota del dovere.
Penso d'altronde che tra una morale del bene e una morale del dovere c'è un rapporto
circolare: la morale del bene ci dà lo scopo, la morale del dovere ci fornisce la norma.
Credo che il grande problema della filosofia morale contemporanea sia il rapporto tra
scopo e norma.
Per ciò che concerne il metodo di una filosofia pratica, Aristotele dice che si deve
cercare di volta in volta una regola adeguata all'oggetto di cui si tratta.
Annetto molta importanza a questa regola di metodo, perché essa vale non soltanto per
l'etica, ma per tutti gli oggetti della filosofia, in opposizione alla pretesa che hanno
certi moderni - il circolo di Vienna per esempio - che ci sia una sola forma di ragione,
quale che sia il suo oggetto. Aristotele invece sostiene che la ragione prende ogni volta
una configurazione diversa, secondo il tipo di oggetto di cui si occupa. Ma ritorniamo
alla praxis che è il nocciolo del pensiero di Aristotele. La praxis richiede una
trattazione diversa dagli oggetti matematici. Quelli matematici sono oggetti teorici o
teoretici, mentre la ragion pratica - senza confondere con questo termine Aristotele e
Kant - è la deliberazione di cui parlavo poco fa, prudentia o phronesis, saggezza
pratica. Io faccio una distinzione che spero sia esprimibile in italiano come in francese,
che piaceva molto a Erich Weil, tra "razionale" e "ragionevole".
L'ordine morale e politico è l'ordine del ragionevole, non è l'ordine razionale che
presiede alle scienze e alle tecniche. Mi sembra una distinzione preziosa. Ma forse così
si tornerebbe ancora una volta a Kant, che distingue la ragion pratica che tutti hanno -
non c'è per Kant un'aristocrazia della ragion pratica - dalla ragione speculativa che
richiede formazione, esercizio e rigore, mentre per esercitare la ragion pratica basta
saper distinguere una persona da una cosa e questa distinzione la capiscono tutti, anche
se poi non sono capaci di applicarla.
E' noto che in questi ultimi anni c'è stata una riscoperta dell'Etica nicomachea, da
parte di Hannah Arendt, Habermas, Apel, Gadamer e altri. Lei stesso ha partecipato alla
discussione. Qual'è l'attualità dell'Etica nicomachea?
La sorprenderò, forse, dicendo che la sua attualità è nell'incontro di due nozioni
che abbiamo incontrato in diversi momenti della nostra conversazione, da una parte la
nozione di giusto mezzo, e dall'altra quella di phronesis, di saggezza pratica, perché il
giusto mezzo, come ho detto prima, è ciò che è più difficile da trovare: si conoscono
assai meglio gli estremi tra cui si deve scegliere. Per capire tutto ciò, prendo subito
un problema assai controverso attualmente, che divide gli uomini, il problema concernente
l'aborto. Le leggi hanno deciso in un certo senso e vorrei dire che il modo in cui le
leggi hanno deciso nei nostri paesi, è un ottimo esempio di ricerca del giusto mezzo, di
saggezza pratica, di phronesis. Perché c'erano due posizioni estreme, che conosciamo bene
e che hanno la loro parte di verità: l'una dice che la vita umana comincia dal
concepimento, perché il capitale genetico è completo, e nulla vi si aggiunge in seguito,
sicché sono presenti fin da quel momento tutte le potenzialità di un essere umano;
l'altra sostiene che finché l'embrione non ha raggiunto un certo sviluppo, non solo non
è ancora un soggetto di diritto, ma nemmeno può essere preso in considerazione come
soggetto, beninteso perché le sue capacità non lo pongono ancora tra gli esseri degni di
considerazione.
Le nostre leggi hanno scelto un giusto mezzo difficile e assai discutibile, perché il
giusto mezzo è proprio il risultato di una discussione e di una discussione infinita. Si
è detto che l'aborto è permesso in condizioni terapeutiche, a tutela della salute fisica
e psichica della donna, entro un certo limite di tempo, dell'ordine di alcuni mesi, e che
superato quel limite l'aborto ricade dal lato dell'infanticidio. Insisto molto sulla parte
che ha nell'etica la ricerca del giusto mezzo, come medietà difficile da trovare e come
espressione di saggezza pratica, che è (una) cosa molto diversa da una morale
strettamente tecnica. I tecnici dicono che tutto quello che si può fare è permesso, dato
che lo si può fare. No, ci sono delle cose che non si possono fare. Non tutto è permesso
solo perché tutto è possibile.
Come trovare il limite, come limitarsi in ciò che si può fare, se non praticando la
phronesis e il criterio del giusto mezzo? Direi che dovremmo alternare il criterio
aristotelico del giusto mezzo con quello kantiano di universalizzazione. Tutti lo possono
fare. E' la morale verso la quale personalmente mi sto orientando, e gliene ho fatto cenno
quando dicevo di cercare una relazione tra scopo e norma e credo che porterebbe a una
unione tra l'etica che fa del giusto mezzo il punto critico della saggezza e la morale
dell'obbligazione, del dovere, che ha per regola il principio di universalizzazione.
Quando ci troviamo davanti ai problemi della scienza, per esempio alla possibilità di
fare un uomo mezzo uomo e mezzo animale ecc., qual'è, al di là del diritto positivo,
delle leggi vigenti, la norma etica che ci dice di non fare tutto ciò che è possibile da
un punto di vista tecnico.
Credo che sia il principio kantiano di non trattare l'altro come mezzo, ma sempre al tempo
stesso come fine. Kant non ha detto che non ci si debba servire dell'uomo come di un
mezzo. Si usa l'altro come mezzo, quando lo si fa lavorare, quando gli si chiede un
servizio. Ma bisogna pure che sia considerato un fine, che sia scopo per se stesso. L'idea
che l'uomo sia un fine in sé implica che egli sia un individuo singolo e insostituibile,
perché se ci fossero due esseri assolutamente simili - e veniamo così al problema della
clonazione - ci si servirebbe di uno di loro come di un mezzo: per uno che fosse
rispettato come fine, ce ne sarebbe un altro trattato come mezzo. Credo che ciò implichi,
come una specie di corollario, che solo un essere che non sia scambiabile o sostituibile
con un altro identico a lui, costituisce un fine in sé. Credo che la ragione per cui non
è lecito, ad esempio, fare una specie di doppione o prendere un'impronta col sistema
della clonazione, cioè di divisione dello stesso nello stesso, è che due esseri che
fossero rigorosamente simili sarebbero sostituibili. E se diventano sostituibili possono
essere trattati come mezzi. Dunque credo che l'idea di fine in sé implichi l'idea di non
fungibilità, di insostituibilità, di unicità, insomma.
Non è tanto un problema greco, quanto un problema che è stato veramente posto solo a
partire dal giudeo-cristianesimo, con l'idea di elezione: ognuno è "chiamato"
in modo affatto singolare. Non voglio dire con questo che il pensiero laico non potrebbe
argomentarlo a suo modo, ma sta di fatto che il pensiero laico si è formato sul pensiero
cristiano e, anche se poi se ne è separato, è pur sempre nell'ambito del cristianesimo
che ha appreso questa nozione del carattere insostituibile di un essere rispetto a un
altro. Kant poi non ha fatto che conferire una forma universale a quell'argomento col suo
principio: "agisci in modo tale che tu possa trattare l'umanità nella tua persona,
come in quella degli altri, non soltanto come un mezzo, ma sempre al tempo stesso come un
fine". E' una regola che può essere capita da tutti e che è semplicemente la
formalizzazione di ciò che sta a fondamento della nostra cultura, del nostro ethos, delle
nostre più profonde abitudini. Quando mi chiedo su chi ci siamo formati, penso ai Greci,
al giudeo-cristianesimo e alla filosofia dei Lumi: su questo punto dicono tutti e tre la
stessa cosa.
Jean Bernard, che presiede attualmente la Commissione Nazionale di Etica, mi diceva in
una recente intervista, che è assai difficile decidere quali sperimentazioni si possono
fare e quali non si possono fare. Diceva: molte volte la scienza con le sue ricerche, con
la scoperta di nuovi farmaci, ad esempio, ha trovato la soluzione di problemi umani.
Allora si pone il problema di decidere se è lecito o meno fare certe sperimentazioni. E a
chi spetta decidere? E' un problema individuale dello scienziato, o è lo stato che deve
legiferare?
Una prima osservazione è questa: nessuno può decidere da solo, anche quando è
davanti a un problema della più grande intimità come l'assistenza a un morente. Non si
è mai senza amici (e qui toniamo ad Aristotele): ognuno è un microorganismo in una
cellula di discussione. Poiché il giusto mezzo è il più difficile da trovare, non lo
troviamo che con la discussione. Lei prima ha citato Habermas; ebbene qui ritrovo
Habermas. E' in un'etica della comunicazione che dev'essere integrata, perché è in uno
spazio di comunicazione che si prende una decisione del genere. In certi casi è una
decisione che implica la conoscenza del diritto, delle leggi. Perché? Ma perché bisogna
sapere che cos'è un delitto, che cos'è un criminale, ciò che è competenza dei
tribunali. In secondo luogo pone dei problemi, al di fuori di quelli relativi ai delitti e
ai crimini, dei problemi, intendo, di investimento finanziario, e in realtà è più
spesso sotto questa forma che si presenta.
In quale ricerca si deve investire il denaro dello stato? Ho letto parecchi libri,
trattati americani di bioetica e ho visto il posto notevole che vi occupa il problema
dell'assegnazione dei fondi pubblici. Si sono assegnati a un certo laboratorio dei fondi
per la ricerca: è chiaro che lo stato è implicato, nella misura in cui si presenta come
il regolatore nella distribuzione del denaro pubblico - di quello pubblico, almeno! Poi
viene la questione del denaro privato delle fondazioni e delle industrie: è qui che
bisogna porre un limite, che occorrono limiti giuridicamente certi. E torniamo al problema
giuridico. Per quanto riguarda il problema della decisione, le dirò che sono stato
colpito dalla lettura di un libro non troppo noto in Europa, Das Prinzip Verantwortung, Il
principio responsabilità, di Hans Jonas, grande pensatore ebreo americano, il cui titolo
è una risposta a Das Prinzip Hoffnung, Il principio speranza, di Ernst Bloch. Jonas dice
che se non una regola, certo una guida nell'azione è il pensare sempre al peggio.
Qual'è il peggiore uso che si potrebbe fare della mia decisione? Non si tratta di predire
il peggio, ma di prevenirlo. Credo che in ogni caso bisogna domandarsi qual'è l'uso
peggiore che potrebbe essere fatto della decisione. Le faccio tre esempi di uso peggiore.
Si potrebbero fare dei sottouomini che sarebbero una specie di schiavi, privati dunque di
ciò che fa la qualità dell'essere umano, la praxis aristotelica o il kantiano poter
essere un fine in sé. Non li possiamo fare proprio a causa dell'idea che non ci può
essere alcun rapporto tra ciò che si rispetta e ciò che si può vendere e comprare, e
che quindi ha un prezzo, non un valore. Secondo esempio: si potrebbero creare delle copie
esatte di uomini mediante la clonazione, per servirsi della copia come di una riserva
d'organi. perdo un occhio, prelevo l'occhio sulla mia copia; perdo un polmone, prelevo il
polmone. L'altro che ho supposto mio simile, è trattato a quel punto come mezzo, e non
più rispettato come fine.
L'idea stessa di un doppio viola il principio della insostituibilità, che a mio vedere,
è direttamente implicito nell'idea di fine in sé. Il terzo esempio, che è di gran lunga
il più difficile da trattare attualmente, e sul quale non è stato raggiunto un accordo,
è il problema dei feti in sovrappiù, surgelati e messi in riserva, che sono appunto
trattati come mezzi di sperimentazione. Se abbiamo ammesso, ai fini della sua
criminalizzazione o no, che c'è un periodo di tempo nei cui limiti l'aborto è permesso,
almeno per la morale pubblica (perché nella morale privata nessuno è tenuto ad
accettarlo), i feti di quel periodo hanno uno statuto assai difficile da stabilire tra
vitalità e umanità. Ecco l'esempio più calzante di un caso in cui non abbiamo trovato
il giusto mezzo e che dovrà essere oggetto di una discussione pubblica, in cui saranno
messi a confronto i ricercatori, il pubblico in generale, i giuristi, gli uomini di
chiesa, gli intellettuali, cioè un campione abbastanza esteso di quelle che si potrebbero
chiamare le coscienze più avvertite e meglio informate. E' dalla discussione che
emergerà a un dato momento quella certa opinione che chiamiamo media, ma che appunto in
quanto media è difficile da trovare.
Vuol dire che questa media non dev'essere intesa come un compromesso tra gli interessi
particolari di tutti, dei cittadini, delle corporazioni?
Ci sono certo degli interessi, ma bisogna che quegli interessi si facciano valere come
diritti. Ma talvolta un interesse può travestirsi nel prendere la forma di un diritto, e
allora compito della discussione sarà anche quello di smascherare dei pretesi diritti che
nascondono meri interessi, come gli interessi delle grandi ditte economiche che consistono
nella vendita dei loro prodotti. Perciò difendo energicamente l'istituzione del Comitato
di Etica, perché raccoglie appunto competenze, sensibilità, culture, spiritualità
diverse, cioè un campione rappresentativo di ciò che siamo in una società pluralista.
Ho l'impressione, allo stato attuale delle cose, che c'è una difficoltà per la
cultura laica, per i nostri stati laici, a regolare, a vietare qualcosa. Come in campo
economico è difficile per uno stato dettare norme agli operatori economici, per esempio
norme anti-trusts, ecc., così è difficile, nella sfera morale, che lo stato sia capace
di dire: no, certe cose non si devono fare per questo e questo motivo. Perciò siamo
sottomessi, soggetti alle dichiarazioni della chiesa cattolica o di altre chiese. Manca,
io credo, una responsabilità etica dello stato.
Le chiese, in una società pluralista, semplicemente partecipano al dibattito
pubblico; non hanno più il monopolio della verità. Costituiscono in una società
pluralista solo una parte dell'opinione, ma proprio perciò hanno, come gli altri, il
diritto di essere ascoltate, per la testimonianza che apportano, per l'esperienza
millenaria di cui sono depositarie. Io mi rifiuto di scegliere tra l'idea che soltanto
l'autorità ecclesiastica possa risolvere certi problemi - credo che nemmeno la chiesa
cattolica ponga la cosa in questi termini - e la posizione per cui, siccome siamo in una
società secolarizzata, non bisogna più ascoltare la voce delle chiese. Al contrario,
direi che adesso il compito e la responsabilità degli uomini di chiesa - della mia, come
delle altre - è di farsi ascoltare, è di far conoscere i loro argomenti, di farli
riconoscere, o almeno discutere, dagli altri, proprio perché siamo in una società
pluralista e questa società comporta una componente cristiana insieme alla componente
laica, erede dell'Illuminismo.
Io rispetto la posizione della chiesa, delle diverse religioni, ma a volte vedo,
soprattutto in Italia, uomini di cultura laici che rimproverano a Ratzinger le sue prese
di posizione sulla pillola, sull'aborto, sulla clonazione, sull'uomo-animale ecc., ma non
sono capaci di fare delle proposte. Non dicono: la posizione di Ratzinger non è
sostenibile, bisogna fare in quest'altro modo. Dicono soltanto: siamo contrari a tutte le
limitazioni in generale.
Io lavoro molto con amici cattolici - padri gesuiti e altri - che non si riconoscono
affatto nelle tesi di Ratzinger. E' un aspetto della modernità questa estrema varietà
del cristianesimo anche all'interno della chiesa cattolica e personalmente me ne rallegro,
perché penso che il messaggio diffuso dalla chiesa primitiva alle origini aveva una serie
di potenzialità che sono ancora ben lungi dall'essere sfruttate. Qui noi siamo di fronte
a una corrente ben determinata della chiesa cattolica di oggi. Ma preferirei non discutere
di tutto ciò, anzi le chiedo di sopprimere questo passaggio, perché non intendo
polemizzare con Ratzinger. Siamo partiti da Aristotele e adesso sono andato molto al di
là delle mie competenze.
Le volevo fare un'ultima domanda sul progresso. Sappiamo che cos'è il progresso nelle
scienze, nella conoscenza, il progresso della ragione, ma siamo in grado di definire il
progresso nella sfera morale, possiamo dire che una civiltà è più avanzata di un'altra
dal punto di vista etico? Oppure i valori sono tutti relativi e non si può dire che, da
questo punto di vista, un popolo è più progredito di un altro?
Trovo questa domanda estremamente difficile, perché anche qui c'è un problema di giusto
mezzo da trovare nella discussione. Ci sono due posizioni estreme. L'una alla quale non
crediamo più molto è il programma educativo dell'età dei Lumi, l'ideale di
un'educazione del genere umano, che ha subito in questo terribile XX secolo una spaventosa
smentita con i campi di concentramento, Auschwitz, il gulag. Ci si è resi conto che i
popoli più civili possono produrre barbarie sotto la forma più orribile che è la
tortura, perché torturare è peggio che uccidere, è umiliare l'altro nel suo rispetto di
sé: questo è il XX secolo. Credo d'altra parte che ciononostante si siano fatte delle
acquisizioni universali, come la libertà d'espressione, la libertà di riunione, la
libertà di stampa. Ma il paradosso è che questi universali non sono riconosciuti da
altre culture. Per esempio l'affare Rushdie ci mostra attualmente che per il vasto mondo
islamico la bestemmia è un motivo di scomunica, mentre noi accettiamo la bestemmia, vi
siamo abituati, sappiamo come trattare con un blasfemo.
Siamo di fronte a questa strana situazione di avere degli universali, ma dei pretesi
universali, degli universali localizzati. Sembra una contraddizione, ma la scoperta di un
universale, per esempio la libertà di espressione è al tempo stesso legata a tante di
quelle cose del mondo occidentale, di un'economia di mercato, di un'economia del denaro
fondata sullo sfruttamento, che è estremamente difficile discernere l'universale
autentico dalle forme in cui si presenta. Non siamo mai di fronte a un universale nudo, lo
troviamo sempre sotto le vesti di una cultura locale. Si potrebbe dire che il mondo
occidentale, l'Europa con la sua doppia proiezione verso oriente e verso l'estremo
occidente, l'America ecc., ha realmente prodotto degli universali, che sono d'altronde
iscritti nella dichiarazione universale dei diritti e sottoscritti da tutti gli stati
esistenti.
Ma vedo qui un'affermazione destinata a restare una mera pretesa, perché affonda le sue
radici in un terreno che ha caratteristiche locali ben determinate, il mondo del capitale,
il mondo del denaro ecc. E' quindi ancora solo con la discussione che noi possiamo farli
riconoscere. Ciò che manca probabilmente oggi, per usare il linguaggio di Hannah Arendt
è uno spazio internazionale di discussione. Abbiamo, fino a un certo punto, l'UNESCO, le
grandi istituzioni internazionali, ma non abbiamo un incontro in profondità tra le
culture, tra le più sviluppate, il mondo islamico, il buddismo ecc. In un certo senso
direi che il grande incontro non ha ancora avuto luogo. Ne siamo ancora al di qua, ed è
perciò che le nostre grandi scoperte morali che io considero delle vere conquiste, non
sono ancora vincolanti per tutti, perché manca lo spazio pubblico perché possa
esercitarsi la discussione, che Habermas definisce giustamente come l'etica stessa della
comunicazione. Siamo davanti a questo paradosso che vaste parti dell'umanità riconoscono
a mezza bocca dei diritti come i diritti dell'uomo, universalmente accettati, ma che non
sono entrati a far parte del loro ethos, dei loro costumi più profondi, ma alimentano
solo dei discorsi convenuti per la comodità della discussione internazionale. Credo che
siamo ancora all'inizio di un'epoca e che il grande confronto tra ciò che c'è di meglio
nelle culture, nelle religioni, nelle filosofie, nei saperi deve ancora cominciare.
Professor Ricoeur, un'ultima domanda. Qual è secondo Lei lo stato di salute della
ragione nel mondo?
Parlare di stato di salute è lo stesso che parlare di malattia. Io credo che noi
siamo portatori di tre malattie. Non abbiamo finito di estirpare in gran parte del mondo
l'eredità del totalitarismo. Noi abbiamo compiuto l'opera di ricostruzione post-bellica,
ma non abbiamo affrontato la ricostruzione morale dopo l'esperienza inaudita della
violenza e della tortura che è ancora praticata nel mondo. Io come membro di Amnesty
International seguo da vicino i suoi rapporti. Come Lei sa, ci sono soltanto venticinque o
trenta paesi nel mondo che possono essere considerati come quasi - dico"quasi" -
esenti da pratiche di tortura. Questa è la prima malattia. Una seconda malattia è che la
ragione strumentale ha progredito più rapidamente della saggezza pratica ed è in fondo
di questo scarto che noi soffriamo o di cui soffrono gli scienziati, perchè conosco molti
scienziati che dicono: trovate voi una risposta, noi non ce l'abbiamo.
Non bisogna credere a una pretesa arroganza degli scienziati. Io al contrario sono colpito
dalla loro modestia. Il loro comportamento nel Comitato di Etica è in ciò assolutamente
esemplare. Loro chiedono sempre, ma gli altri non hanno risposte, noi manchiamo di
risposte. Dunque io direi che si tratta del crollo della "phronesis", di una
ragione non strumentale, per usare ancora questa categoria. Il terzo punto infine è che
siamo entrati in un mondo della comunicazione, nel senso materiale- per mezzo di satelliti
ecc.- ma anche qui i mezzi di comunicazione sono molto più avanzati della qualità della
comunicazione. Quello che dicevo poco fa- e ritorno su questo punto- è che un autentico
confronto con i contenuti di fondo della saggezza indiana, della saggezza giapponese o
cinese, del Buddismo o dell'Islamismo, non c'è ancora stato. Ora io credo che si possa
dire che questo anticipo della comunicazione tecnologica sulla comunicazione culturale è
una forma patologica della società contemporanea. In questo senso ci troviamo davanti a
uno stato di salute critico.
La famiglia è in crisi, le istituzioni sono in crisi, la scuola è in crisi: da dove
verrà la futura classe dirigente, a chi si affiderà la ragione?
Io non faccio il profeta. Credo che la funzione della filosofia sia qui di diagnosi
più che di prognosi, sia quella di farci conoscere meglio l'un l'altro in modo meno
menzognero. Credo che ci sia nonostante tutto un problema di veracità, se non di verità.
C'è un problema della veracità perché, gli scrittori in particolare, rappresentano una
forza sovversiva estremamente avanzata e sono spesso loro che vanno più lontano
nell'esplorazione del sottosuolo e dei bassifondi della vita moderna. E allora io credo
che la requisitoria della filosofia attualmente si debba articolare su due punti: sulla
nozione che la crisi non è passeggera, ma è come una condizione permanente della nostra
esistenza e che, in secondo luogo, il conflitto fa anch'esso parte -non soltanto il
conflitto d'interessi ma anche quello di idee fanno parte- della condizione moderna o
post-moderna, come la si vuol chiamare. Se la si chiama moderna è perchè si crede di
poterla unificare un giorno mediante la ragione; post-moderna è l'idea che la crisi è
una maniera d'essere per tutti noi. E se mi permette di terminare con la
"philia" aristotelica essa consiste oggi nell'apportare uno spirito di amicizia
nel conflitto. Il mio maestro Karl Jaspers parlava della lotta amorosa (Liebeskampf). E'
questo che i filosofi possono apportare: una sorta di generosità nella discussione non
disgiunta dall'esigenza del rigore.
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