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Il peso della drammaturgia


 

Josè Luis Sànchez-Martìn

 

Il teatro come specchio in cui una società si riflette e riflette su se stessa appartiene alla cultura dei secoli scorsi e, da questo punto di vista, ha raggiunto il suo apice nell'Ottocento. Infatti, nel Novecento, con il dissolversi di un'unica identità culturale e sociale e soprattutto con l'avvento del cinema e dei nuovi modi di raccontare il mondo, la drammaturgia teatrale tradizionale, il teatro-letteratura, vale a dire il "tema" da sviluppare in forma di dialoghi inseriti in un contesto narrativo, con un linguaggio più o meno poetico e di ambientazione più o meno realistica, ha perso forza, centralità, importanza. E con essa il senso di quel teatro è venuto meno.

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E' a partire da questa constatazione che nasce la rivoluzione del teatro del Novecento. I pionieri che con le loro ricerche e sperimentazioni hanno elaborato gli strumenti per la ridefinizione del senso del teatro nel secolo appena concluso, erano tutti uomini che in un modo o nell'altro appartenevano al mondo del teatro in senso pratico, concreto, e non al mondo della letteratura. Da Artaud a Gordon Craig, da Piscator a Copeau, da Stanislavskij a Mejerchol'd, tutti hanno messo al centro del loro interesse primordiale la figura e la presenza dell'attore, la ricerca di un percorso pedagogico, tecnico e non poche volte anche filosofico, che potenziasse la capacità comunicativa ed evocativa dell'uomo attore. Ispirati o influenzati dalle prime rappresentazioni in Europa dei vari teatro-danza tradizionali dell'Oriente, viste per esempio all'Expò Internazionale di Parigi agli inizi del secolo, tutte di carattere religioso e che raccontavano soprattutto episodi mitologici, non a caso la loro indagine puntava, esplicitamente o inconsapevolmente, alla dimensione rituale e in senso lato sacrale che era alle origini del teatro di ogni cultura, di ogni epoca, di ogni latitudine. Riportare quindi il teatro, tramite la presenza potenziata dell'attore, a quel livello di evento unico e irripettibile che succede soltanto qui, ora e tra di noi; ad una dimensione ulteriore alla semplice letteratura declamata, qualcosa che non si potrà ritrovare mai sulla carta. Un'altra ragione fondamentale che spingeva alla ricerca e alla definizione oggettiva di un percorso, di un metodo, di un sistema, di un "allenamento" per lo sviluppo delle caratteristiche fisiche e psichiche del nuovo attore, era stata la progressiva e inarrestabile sparizione di quella "scuola" in cui fin dai tempi della Commedia dell'Arte nascevano gli attori di professione, vale a dire la "gavetta di bottega", l'esperienza e la tradizione ricevuta sulle tavole dei palcoscenici direttamente dai veterani fin da piccoli, addirittura da piccolissimi per i figli d'arte.
Molti uomini di teatro durante il Novecento fino ai giorni nostri hanno recepito e sviluppato in varie direzioni queste preziose indicazioni, rinnovando profondamente le caratteristiche dell'essere attori e del senso del teatro stesso, salvandolo dall'anacronismo e dalla noia in cui era sprofondato.

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Solo per citare qualche nome basti menzionare Decroux, Grotowski, Kantor, Peter Brook, Julian Beck e Judith Malina, Pina Bausch, Ljubimov, Eugenio Barba... Ovviamente, questa rivoluzione non esclude la parola, la struttura narrativa, la drammaturgia, ma la ridefinisce togliendola dal campo della letteratura per farla diventare uno degli elementi vivi, esclusivamente teatrali, che concorrono all'organicità dell'evento irrepetibile. Ne è un chiaro esempio l'approcio di colui che tutti riconoscono come il più grande maestro vivente, il regista inglese Peter Brook, che con la sua compagnia multietnica a Parigi lavora indistintamente, concentrandosi quasi esclusivamente sull'arte dell'attore, su testi di Shakespeare, Checov o Beckett e trae spettacoli memorabili da antichi poemi orientali come il "Mahabharata" e "La Conferenza degl Uccelli", oppure dalle memorie di uno psichiatra russo alle prese con un paziente eccezionale. Il Novecento poi ha dato vita anche a grandi scrittori di teatro, che hanno raccolto e assimilato nella loro scrittura quegli elementi di rinnovamento dell'evento teatrale a cui ci riferiamo, valga per tutti il nome del grandissimo Samuel Beckett.
Purtroppo, per ragioni molto complesse e che non è possibile indagare in poche righe, in Italia questa rivoluzione non ha influenzato in misura determinante come altrove il modo di concepire il teatro e non ha provocato un radicale cambiamento nel modo di essere attori. Come risultato, in genere la preparazione degli attori italiani, anche se provenienti da scuole diverse, porta alla fine a risultati molto simili, ispirati alla concezione borghese e ottocentesca dell'attore-mattatore, "bravo" e primadonna. Tra le rare eccezioni, ognuno con la propria peculiarità, possiamo citare Danio Manfredini, Sandro Lombardi e Marco Paolini. Per gli stessi motivi ancora oggi tutto ciò che concerne il teatro in Italia viene riferito alla drammaturgia, all'autore, alla letteratura teatrale. Per queste ragioni, volendo parlare del teatro visto negli ultimi tempi, bisogna quasi obbligatoriamente rapportarsi con dei filoni drammaturgici, indipendentemente dalle scelte squisitamente teatrali o dalla qualità dei risultati. Nelle ultime settimane a Roma si sono visti diversi spettacoli dai quali è possibile, a grandi e approssimative linee, identificare alcuni di questi filoni o "tendenze", al di là dei rarissimi prodotti veramente riusciti di drammaturgia d'autore di provenienza letteraria. La migliore drammaturgia contemporanea proviene invece soprattutto da uomini di teatro, che molto spesso sono anche registi e attori delle proprie opere. Sono tornati a Roma due interessanti esempi di questo filone, entrambi vincitori dei premi nazionali IDI per la drammaturgia, basati entrambi sulle suggestioni del dialetto e magnificamente interpretati entrambi da una coppia maschile, in fortunata tournée per l'Italia ormai da diversi anni. Si tratta di "Shakespea re di Napoli" scritto e diretto magistralmente da Ruggero Cappuccio, tragicomico e struggente racconto sulla presunta vera storia dei sonetti shakespeariani e del suo misterioso destinatario, scritto in napoletano antico con forte influenza della Commedia dell'Arte, interpretato con eccezionale intensità da Claudio Di Palma e Ciro Damiano e dello spettacolo "Bar" di Spiro Scimone (premio Ubu come nuovo autore), anche interprete insieme a Francesco Sframeli (premio Ubu come migliore nuovo attore), tragicommedia beckettiana in dialetto messinese di due patetici disocuppati che hanno la loro frustrata vita segnata dal rapporto di confidenza che stabiliscono tra di loro nel retro di un bar e dalla ordinaria e quasi coatta collusione con la spicciola malavita locale.

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Da un altro versante, una delle più importanti tendenze del teatro alternativo italiano è quella di mettere in scena testi classici, da Eschilo a Moliére, in versioni attualizzate o rielaborate. Ne è un esempio l'Edipo Re di Sofocle diretto da Mario Martone, prima sua prova come regista da quando, un anno fa, è stato nominato direttore artistico del Teatro di Roma. Uno spettacolo con un suntuoso allestimento ambientato anche nella platea del Teatro Argentina, interpretato da alcuni tra i più noti attori del teatro italiano di ricerca, tra cui Claudio Morganti, Toni Servillo e Carlo Cecchi, e da attori di svariate nazionalità, con una atmosfera cupa e opprimente che ricorda la città assediata dalla peste, in cui si muove un popolo che sembra di rifugiati e immigranti senza casa nè appartenenza, tema questo molto caro al regista che lo ha già percorso nei suoi ultimi spettacoli. Purtroppo, la disomogeneità degli attori coinvolti nel progetto e l'eccesso di mezzi utilizzati, non aiutano alla riuscita di una messa in scena scorrevole e densa di cui avrebbe bisogno un testo già di per sè assai impervio e grave per conto suo e per lo spettatore contemporaneo.
Terza tra le ipotizzabili tendenze, quella di trarre da un opera letteraria un testo per le scene, può essere rappresentata dall'ultima fatica di Maurizio Scaparro al teatro Piccolo Eliseo: "Amerika", dall'omonimo romanzo incompiuto di Franz Kafka. Ben interpretato con estro e misura, soprattutto dai giovani e poliedrici Max Malatesta e Lalla Esposito, arricchito dalle belle ed efficaci musiche dal vivo di Giancarlo Chiaramello e diretto con la consueta precisione e capacità artigianale di Scaparro, lo spettacolo ha il suo punto debole proprio nella riduzione drammaturgica di Fausto Malcovati, che ha cercato di rendere in una struttura narrativa più o meno tradizionale tutto il complesso e articolato percorso del protagonista kafkiano, col risultato di non rendere praticamente nessuna delle varie dimensioni o livelli di possibile lettura del romanzo, rasentando l'involontaria superficialità che nemmeno una dinamica, accurata e pungente regia come quella di Scaparro riesce a riscattare del tutto.
Apparentemente lontano dal concetto di drammaturgia sembra invece l'ultimo spettacolo del Teatro Valdoca, Parsifal, con la regia di Cesare Ronconi su testo della poetessa Mariangela Gualtieri, visto al teatro Vascello di Roma. Lo spettacolo ripete per l'ennesima volta la formula fin troppo collaudata dal sodalizio Ronconi-Gualtieri, vale a dire un testo di bella e alta qualità poetica ma senza dimensione teatrale che viene letteralmente messo in scena, cioè semplicemente declamato anche se in modo molto spesso bizzarro e quasi incomprensibile, in particolare dalla voce potente e mostruosa di Gabriella Rusticali, contornato e sostenuto da una serie di azioni, molto spesso ripetitive, che nulla hanno a che fare con il testo. Testo che, incomprensibile sulla scena, invece risulta come tutti gli altri della Gualtieri molto suggestivo e vibrante sulla carta, proprio perchè è letteratura e nella lettura trova quella condizione di intimità, concentrazione e ritmo personale che l'urlo e il caos della regia di Ronconi non permettono. Va segnalata però la magnifica presenza nello spettacolo, ospite d'eccezione, dell'attore Danio Manfredini nei panni di un Parsifal vecchio e bambino al tempo stesso, decadente ed erotomane anche se di una immacolata ingenuità. Uno sguardo, una voce, un corpo abbandonato, difficili da dimenticare.



 

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