Caffe' Europa
Attualita'



La filosofia e l'immagine del futuro


Intervista a Richard Rorty

 

La filosofia e' sempre stata animata da una tensione all'eternita' e all'immutabilita'. Quando ha iniziato ad accogliere la precarietà del tempo, interrogandosi sul futuro?

Parlero' semplicemente del ruolo del filosofo inteso come un certo tipo di intellettuale. I filosofi cominciarono a preoccuparsi dell'immagine del futuro soltanto dopo aver abbandonato la speranza di conseguire la conoscenza dell'eterno. La filosofia cominciò come un tentativo di fuga in un mondo in cui nulla fosse soggetto al mutamento. I filosofi antichi partivano dal presupposto che la differenza tra il flusso del passato e il flusso del futuro fosse trascurabile, e soltanto quando cominciarono a riflettere seriamente sul tempo le loro speranze riguardo al futuro di questo mondo presero gradualmente il posto del loro desiderio di conoscere un altro mondo. Hans Blumenberg ha sostenuto che i filosofi europei cominciarono a perdere interesse per l'eterno verso la fine del Medioevo e che il secolo XVI - il secolo di Bruno e di Bacone - fu il periodo in cui i filosofi iniziarono a prendere sul serio il tempo.

L'ipotesi di Blumenberg è probabilmente corretta, ma questa perdita di se', questa perdita d'interesse per l'eterno è diventata completamente autoconsapevole soltanto nel XIX secolo. Fu questo il periodo in cui la filosofia occidentale, sotto l'egida di Hegel, formulò dettagliati ed espliciti dubbi non solo sui tentativi platonici di sfuggire al tempo, ma anche sul progetto kantiano di individuare condizioni astoriche per la possibilità dei fenomeni temporali. Fu questo anche il periodo in cui, grazie a Darwin, divenne possibile per gli esseri umani considerarsi in continuità con il resto della natura, come esseri in tutto e per tutto temporali e contingenti. L'influsso congiunto di Hegel e Darwin spostò l'interesse della filosofia dalla domanda "Che cosa siamo?" alla domanda "Che cosa possiamo cercare di diventare?".

Questo spostamento ha avuto delle conseguenze sull'immagine che i filosofi avevano di se stessi. Laddove Platone e lo stesso Kant avevano sperato di poter osservare e giudicare la societa' e la cultura entro cui vivevano da un punto di vista esterno, il punto di vista della verità ineluttabile e immutabile, i filosofi successivi hanno gradualmente abbandonato tali speranze.

L'attenzione al futuro e, dunque, ad una dimensione progettuale, implica la riduzione della filosofia ad orientamento pratico?

Non appena cominciamo a dare il giusto rilievo al tempo, noi filosofi siamo obbligati a rinunciare alla priorità della contemplazione sull'azione. E dovremo concordare con Marx che il nostro compito è quello di cercare di rendere il futuro diverso dal passato piuttosto che cercare di conoscere ciò che il futuro deve necessariamente avere in comune con il passato. Il ruolo del filosofo, da questo punto di vista, dovrebbe differenziarsi da quello del sacerdote o del saggio, a cui è stato spesso affine, per trasformarsi in un ruolo sociale molto più simile a quello dell'ingegnere o del medico. Mentre sacerdoti e saggi possono pianificare le loro attività, i filosofi contemporanei, al pari degli ingegneri e dei medici, devono scoprire ciò di cui hanno bisogno i loro clienti. Poiché in Platone l'invenzione della filosofia rispondeva al preciso scopo di sfuggire alle necessità transitorie e di porsi al di sopra della politica, il fatto che Hegel e Darwin concedessero un grande rilievo al tempo è stato spesso considerato come una rinuncia alla filosofia se non come la sua fine.

Il tramonto della filosofia in senso tradizionale, per Lei, significa anche la fine della filosofia, di un suo ruolo e di un suo senso?

Abbandonare Platone e Kant non e' la stessa cosa, tuttavia, che abbandonare la filosofia. Oggi noi possiamo comprendere gli intenti di Platone e Kant meglio di quanto li comprendessero essi stessi; possiamo interpretare le loro opere come un tentativo di rispondere alla necessità di sostituire l'immagine che l'uomo aveva di se' - un'immagine diventata obsoleta a causa di mutamenti sociali e culturali - con una nuova immagine, una nuova concezione dell'uomo che meglio si adattasse agli effetti di quei mutamenti. E si può aggiungere che la filosofia non potra' finire finche' non finiranno i mutamenti sociali e culturali: tali mutamenti, infatti, contribuiscono a rendere obsolete le concezioni generali che abbiamo di noi stessi e della nostra situazione, determinando la necessità di un nuovo linguaggio mediante cui esprimere nuove concezioni.

Soltanto in una societa' senza politica, cioe' una societa' soggetta a tiranni che ostacolano il mutamento sociale e culturale, non c'e' bisogno di filosofi. Nelle societa' in cui non c'e' politica i filosofi non possono essere che preti al servizio di una religione di stato; per contro, nelle societa' libere si avvertira' sempre la necessita' dei filosofi e dei loro servigi: in tali societa', infatti, non vi sara' mai fine al mutamento, e quindi i vecchi modi di pensare e di esprimersi non cesseranno mai di diventare obsoleti.

In quali pensatori rintraccia la presenza di questa idea di filosofia?

John Dewey, un filosofo che, al pari di Marx, ammirava Hegel non meno di Darwin, ha suggerito che, una volta abbandonata la concezione comune a Platone e a Kant - la concezione dell'uomo come soggetto volto alla conoscenza delle necessita' incondizionate e metastoriche - si perverra' a concepire la filosofia come derivante da quello che egli ha chiamato "un conflitto fra istituzioni ereditate e tendenze contemporanee con esse incompatibili". Dewey ha sostenuto che "cio' che può apparire pretenziosamente irreale allorche' viene formulato in distinzioni metafisiche, diventa profondamente significante quando viene connesso alla lotta fra gli ideali e fra le credenze sociali". Dewey prendeva sul serio la famosa osservazione di Hegel che "quando la filosofia dipinge a chiaroscuro allora un aspetto della vita e' invecchiato"; per Dewey cio' significava che la filosofia si trova sempre in una situazione parassitaria, che essa nasce sempre come risposta a problemi sorti altrove, nella cultura e nella societa'.

Per Dewey l'insistenza di Hegel sulla storicita' equivaleva all'affermazione che i filosofi, piuttosto che cercare di essere all'avanguardia della societa' e della cultura, dovrebbero cercare di mediare fra il passato e il futuro; il loro compito consisterebbe nell'armonizzare vecchie e nuove credenze in modo che esse possano cooperare piuttosto che interferire le une con le altre. Al pari dell'ingegnere e del medico, il filosofo può rivelarsi utile nel risolvere particolari problemi che sorgono in particolari situazioni, situazioni nelle quali il linguaggio del passato e' in conflitto con le necessità del futuro.

Quali sono i conflitti che la filosofia, secondo Lei, dovrebbe tentare di sanare?

Vorrei fare tre esempi di questo conflitto. Il primo riguarda la necessità di conciliare le intuizioni morali espresse nel linguaggio della teologia cristiana con la nuova immagine scientifica del mondo sorta nel XVII secolo. In quel secolo e nel successivo i filosofi europei s'ingegnarono per trovare un modo di concepire le intuizioni morali come qualcosa di diverso dalle prescrizioni di una divinita' atemporale e tuttavia antropomorfa, una divinita' la cui esistenza era difficile da conciliare con l'immagine meccanicistica del mondo elaborata da Galileo e Newton. Considerati in questa prospettiva, i sistemi di Leibniz, Kant e Hegel non sono che vari tentativi di conciliare l'etica cristiana con la scienza copernicana e galileiana, tentativi di evitare che queste due pregevoli cose interferissero fra loro.

Il secondo esempio e' rappresentato dall'ipotesi darwiniana di considerare gli esseri umani come animali di tipo più complesso piuttosto che come animali dotati di un ingrediente addizionale chiamato intelletto o anima razionale. Quest'ipotesi getta dei dubbi non soltanto sulla speranza di sfuggire al tempo, ma anche sulla distinzione tra conoscere la realta' e adattarsi alla realta'. Darwin ha messo i filosofi nella condizione di dover fornire una nuova definizione delle attivita' umane, una definizione che non richieda alcuna discontinuita' nell'evoluzione biologica. Cio' significa ridefinire la relazione tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale in modo da oscurare la distinzione tra natura e spirito, una distinzione che nella filosofia occidentale da Platone a Hegel, fatta eccezione per alcuni eccentrici come Hobbes e Hume, e' stata sempre data per scontata. I nuovi problemi dinanzi a cui si sono trovati i filosofi per effetto della spiegazione darwiniana dell'origine dell'umanita' si sono poi intrecciati con quelli determinati dall'emergere della democrazia di massa, che rappresenta il mio terzo esempio sulla novita' extrafilosofica.

A differenza delle prime due, questa terza novita' si e' originata dall'esperienza politica piuttosto che dall'indagine scientifica. La democrazia di massa, la realizzazione pratica dell'idea che chiunque sia soggetto a decisioni politiche dovrebbe avere il potere di influire su quelle decisioni, demolisce la distinzione platonica tra il perseguimento razionale della verita' da parte del sapiente e il flusso delle passioni caratteristico della folla. Insieme con l'offuscamento darwiniano della distinzione tra umano e animale, la prassi della democrazia di massa pone in dubbio un vasto insieme di ulteriori distinzioni, come quelle tra cognitivo e non cognitivo, ragione e passione, logica e retorica, verita' e utilita', filosofia e sofisticheria. Il successo della democrazia di massa ha assegnato ai filosofi il compito di riformulare quelle distinzioni nei termini della differenza politica tra consenso volontario e consenso forzato piuttosto che in quelli della distinzione metafisica tra incondizionato e condizionato.

In quali filosofi emerge questa pratica della filosofia come rimedio dei conflitti sociali?

I sistemi di Dewey, di Bergson e di Whitehead rappresentano dei tentativi di raggiungere un compromesso con Darwin nell'intento di conservare quanto di utile v'era nei vecchi dualismi, riformulandoli in un linguaggio completamente "temporalizzato". Un tentativo analogo e' rappresentato dall'intento di Russell e Husserl di operare una partizione della cultura tracciando una linea di demarcazione tra questioni filosofiche a priori e questioni empiriche a posteriori. Russell e Husserl cercavano di costruire una cultura democratica che fosse in grado di salvaguardare la filosofia trascendentale, rendendo in tal modo Kant immune da Darwin. In tale prospettiva, il contrasto fra Dewey e Russell o anche fra Bergson e Husserl appare come un contrasto non tanto fra due tentativi di delineare un'esatta rappresentazione della nostra natura o situazione metastorica, quanto fra due tentativi di operare una mediazione fra epoche storiche, di conciliare vecchie e nuove verità.

Dewey e Russell avevano in egual misura deferenza per la meccanica newtoniana, la biologia darwiniana e la democrazia di massa; inoltre, nessuno dei due pensava che la filosofia potesse fornire delle fondazioni a queste tre concezioni; entrambi ritenevano che la questione irrilevante fosse come cambiare i modi consueti di parlare in modo da non presupporre una metafisica o una psicologia metafisica che fosse in conflitto con uno di questi tre prodotti dell'evoluzione culturale. La differenza tra i due consiste nei mezzi piuttosto che negli scopi, nei modi in cui ritenevano necessario cambiare radicalmente le concezioni di Platone e di Kant al fine di preservare quanto di utile c'e' nelle loro opere sbarazzandosi di ciò che è diventato obsoleto.

Qual'e', allora, il ruolo del filosofo? Può conservare uno spazio autonomo di intervento ed una competenza specifica?

Una volta adottata la concezione che Dewey aveva del compito del filosofo, dovremo comunque abbandonare tanto la distinzione marxista tra scienza e ideologia quanto la distinzione elaborata da Russell e Husserl tra a priori e a posteriori. Più in generale, dovremo abbandonare ogni tentativo di considerare la filosofia un'attivita' autonoma, come e' stata concepita fino a che i filosofi non hanno cominciato a prendere sul serio il tempo. Dewey, ma non Russell, puo' far sua l'idea di Locke che il ruolo del filosofo e' quello di un umile custode che accantona gli scarti del passato per fare spazio alle costruzioni del futuro. Ma io penso che Dewey avrebbe anche concesso che il filosofo puo' talvolta combinare il ruolo del custode con quello del profeta.

Qualcosa del genere la si ritrova in Bacone e Cartesio: entrambi hanno cercato di spazzar via gli scarti aristotelici per fare spazio agli ideali e alle utopie del futuro. Analogamente, il tentativo di Dewey di liberare la filosofia dall'influenza di Kant, il tentativo di Habermas di districarla da quella che chiama la filosofia della coscienza e il tentativo di Derrida di liberarla da quella che egli chiama metafisica della presenza, sono tutti permeati di profezie sulla societa' democratica la cui realizzazione sarebbe favorita da questa purificazione della filosofia.

A questo punto, dunque, Lei non ammette più nessuna distinzione netta tra il filosofo e il generico uomo di cultura. Tutto questo non può generare confusione e conflitti di competenze?

Rinunciare a preoccuparsi dell'autonomia della filosofia significa, tra l'altro, rinunciare a cercare di tracciare delle linee chiare e precise tra questioni filosofiche e questioni politiche, religiose, estetiche o economiche. La filosofia potra' ricoprire il ruolo modesto ma essenziale assegnatole da Dewey e riuscirà a dare la giusta considerazione al tempo soltanto a patto che noi filosofi soi accetti una certa "deprofessionalizzazione", a patto che si riesca ad acquisire una sorta di indifferenza relativamente al problema di quando stiamo facendo della filosofia e quando no. Dovremo smetterla di compenetrarci troppo nel ruolo, non soltanto nella forma magniloquente di Hegel e Marx, ma anche in quella meno spettacolare di Russell e Husserl.

Se smetteremo di identificare la nostra attività professionale con il pensiero razionale, con il pensiero chiaro, allora saremo in una posizione migliore per riconoscere, con Dewey, che la nostra disciplina non e' in grado di pianificare e organizzare la sua attivita' piu' di quanto lo siano l'ingegneria o la medicina. Ammettere questo ci aiuterebbe a sbarazzarci dell'idea che gli sviluppi scientifici o politici esigono delle fondazioni filosofiche, dell'idea che il giudizio sulla legittimità delle novità culturali dovrà rimanere sospeso finché noi filosofi non le avremo riconosciute come autenticamente razionali. I filosofi antifondazionalisti, comunque, si considerano spesso dei rivoluzionari piuttosto che degli addetti all'eliminazione di scarti e rifiuti o dei visionari.

Cosi' facendo, essi sfortunatamente commettono l'errore di assumere un atteggiamento da avanguardia. Essi partono dall'idea che il linguaggio e la cultura hanno bisogno di radicali mutamenti prima che le nostre speranze utopistiche possano trovare realizzazione, e che sarebbero proprio i filosofi coloro a cui e' demandato il compito di dar vita a tali mutamenti. Ma questo insistere sul carattere radicale del mutamento non e' altro che una forma di fondazionalismo alla rovescia; esso equivale a sostenere che nulla potra' mai cambiare finche' non cambieranno le credenze filosofiche. Lo spirito di avanguardia filosofica comune a Marx e Heidegger, l'aspirazione a un rinnovamento totale, l'insistenza sul fatto che nulla potra' cambiare se non cambiera' tutto, mi sembrano tendenze della filosofia contemporanea da non incoraggiare.

Un'altra tendenza analoga, come ho gia' accennato, e' l'aspirazione alla professionalizzazione, l'aspirazione a conservare intatta la nostra disciplina e a restringerne l'ambito. Questa manovra difensiva appare evidente in quei filosofi che affermano di voler limitare i propri interessi a quelli che chiamano i problemi della filosofia, come se esistesse un chiaro e ben noto elenco di tali problemi, un elenco che ci sarebbe venuto dal cielo e che si trasmetterebbe intatto di generazione in generazione.

La filosofia analitica di stampo anglosassone, secondo Lei, e' immune da questa deleteria concezione della filosofia come disciplina professorale e professionale?

Questo modo di sfuggire al tempo e al mutamento, di trascurare la lezione di Hegel e di restaurare l'autorita' di Platone e Kant, e' largamente diffuso in quella comunita' filosofica di lingua inglese i cui componenti si riconoscono come seguaci della filosofia analitica. Credo che Hilary Putnam abbia ragione quando dice che gran parte della filosofia analitica si e' ormai ridotta a un insieme di controversie fra le diverse opinioni di alcuni professori di filosofia; e molto giustamente Putnam giudica tali discussioni completamente prive di significato pratico e intellettuale. In quest'ambito di ricerca filosofica, la volonta' di trovare una conciliazione con le concezioni preesistenti ha rimpiazzato il compito di determinare se il linguaggio in cui queste concezioni sono espresse sia ancora efficace.

Questo atteggiamento tende a rafforzare la convinzione che i problemi filosofici siano eterni, pervenendo cosi' a considerarli oggetto di una disciplina professionale del tutto indipendente dai mutamenti sociali e culturali. Questo atteggiamento e questa convinzione sono caratteristici di quel periodo della storia della filosofia che oggi siamo soliti denominare "scolastica decadente". Ogni qual volta i filosofi cominciano a sbandierare l'autonomia della loro disciplina, possiamo star certi che è incombente il pericolo della scolastica.

Qual e', invece, la situazione della filosofia nelle altre aree geografiche? Possiede, secondo Lei, una connotazione nazionalistica?

Proprio come la filosofia di lingua inglese e' diventata superprofessionalizzata, la filosofia non inglese si è spesso segnalata per un eccesso di ambizione e per quell'atteggiamento da avanguardia a cui ho gia' fatto cenno. In autori come Heidegger e Foucault questo tipo di filosofia ha prodotto una critica radicale - analoga a quella compiuta da Marx nei confronti della cosiddetta cultura borghese del XIX secolo - che si distingue per quel tono di disprezzo e sdegno a cui ci hanno abituato i marxisti. L'atteggiamento di sospetto tanto verso il carattere scolastico della filosofia analitica quanto verso l'eccessiva presunzione della filosofia non analitica da avanguardia ha prodotto comunque un terzo pericolo, quello dello sciovinismo. Ci si imbatte talvolta in filosofi ai quali il loro paese richiede di produrre una filosofia specifica, adatta alle caratteristiche nazionali, come se ciascuna nazione avesse bisogno di una sua propria filosofia in grado di esprimerne la propria specifica esperienza, allo stesso modo in cui sente il bisogno di avere il proprio inno nazionale o la propria bandiera.

Ma mentre si puo' riconoscere che scrittori e poeti possano proficuamente creare una letteratura nazionale nella quale i giovani possono scoprire le origini e lo sviluppo del proprio paese, personalmente ho dei dubbi che un compito simile debba essere svolto anche dai filosofi. Noi filosofi siamo adatti piuttosto a costruire dei ponti tra le nazioni e a favorire iniziative cosmopolite, non certo a raccontare storie di stampo sciovinista. Quando i filosofi si mettono a scrivere cose del genere, ne vengon fuori cose pessime, come le storie raccontate da Hegel e Heidegger ai Tedeschi sulla presunta superiorita' della Germania per effetto di una forza soprannaturale.La mia speranza e' che noi professori di filosofia si riesca a trovare un modo per evitare tutte e tre queste tentazioni: il rivoluzionario si affanna per fare della filosofia un agente del mutamento piuttosto che un mezzo di riconciliazione, lo scolastico si affanna per rifugiarsi nei confini della sua disciplina, lo sciovinista si affanna e basta. Io credo che dovremmo attenerci all'idea di Dewey che il nostro compito consista nel conciliare il vecchio col nuovo e che la nostra funzione professionale consista in una onesta mediazione fra le generazioni, fra i vari settori dell'attività culturale e fra le diverse tradizioni.

Il problema delle società multirazziali e multiculturali, secondo Lei, puo' essere risolto da un cosmopolitismo di tipo tradizionale?

Quest'attività di conciliazione non puo' essere comunque compiuta al modo di quel compiacente cosmopolitismo che si accontenta dello status quo e che lo difende in nome della diversita' culturale o del multi-culturalismo. Questo cosmopolitismo compiacente ha osservato un prudente e rispettoso silenzio sullo stalinismo, e oggi osserva un prudente e rispettoso silenzio sul fondamentalismo religioso e sugli autocrati sanguinari ancora al potere in tante parti nel mondo. La forma più spregevole di questo cosmopolitismo e' quella che ci viene a dire che i diritti umani vanno bene per le culture eurocentriche, mentre un'efficiente polizia segreta con giudici, professori e giornalisti al suo servizio, insieme all'efficiente pratica della tortura, sarebbero piu' adatte alle necessita' di altre culture.

L'alternativa a questo tipo di cosmopolitismo falso e autoingannatore non puo' essere che un'immagine chiara di che cosa sarebbe un futuro autenticamente cosmopolita, l'immagine di una democrazia planetaria, di una societa' globale nella quale la tortura o la chiusura di un'universita' o di un giornale in una qualunque parte del mondo siano motivo di indignazione esattamente come nel nostro paese. Questa futura città cosmopolita potrà essere, in questioni non politiche, multi-culturale ed eterogenea finche' si vuole, ma in tale futuro utopistico le tradizioni culturali cesseranno di avere influenza sulle decisioni politiche.

Come possiamo, oggi, rispondere alle sfide sollevate dalla poverta' e dall'ansia di solidarieta'? Ha ancora senso una politica egualitarista o si riduce ad una inconsistente utopia?

In politica non vi sara' che una tradizione, quella della costante vigilanza sui prevedibili tentativi, da parte del ricco e del forte, di approfittare del povero e del debole. Alla tradizione culturale non sara' mai permesso di calpestare il principio di differenza di John Rawls ne' di giustificare l'ineguaglianza delle opportunita'. Se una tale utopia dovesse mai realizzarsi, noi filosofi vi avremmo avuto una parte marginale ma non secondaria. E proprio come Tommaso d'Aquino si trovo' a dover mediare fra il Vecchio Testamento e Aristotele, Kant fra il Nuovo Testamento e Newton, Bergson e Dewey fra Platone e Darwin e Ghandi e Nehru fra il linguaggio di Locke e Mill e quello del Bhagavadgita, cosi' qualcuno si trovera' a dover mediare fra il linguaggio egualitarista di questa politica utopistica e il linguaggio esplicitamente non egualitarista di tante tradizioni culturali.

Qualcuno dovra' riuscire, gradualmente e pazientemente, a introdurre i concetti dell'egualitarismo politico nel linguaggio delle tradizioni, linguaggio in cui e' molto radicata la distinzione tra il saggio razionale e ispirato e la massa irrazionale e confusa. Qualcuno dovra' riuscire a farci abbandonare l'abitudine di basare le decisioni politiche sulla differenza che si presume intercorra tra le persone come noi, modelli paradigmatici degli esseri umani, e i casi dubbi di umanita', come, per esempio, gli stranieri, gli infedeli, gli intoccabili, le donne, gli omosessuali, i meticci e gli handicappati. Distinzioni del genere sono state create all'interno delle nostre tradizioni culturali e fanno quindi parte del linguaggio in cui si esprimono le nostre deliberazioni morali.

L'utopia che ho delineato non trovera' realizzazione finche' i popoli del mondo non si persuaderanno che queste distinzioni non hanno alcun valore; tale persuasione dovrà realizzarsi in modo graduale e moderato, a piccoli passi, non in modo rivoluzionario e su larga scala. Ma una persuasione moderata e graduale e' sicuramente possibile, dal momento che, sebbene la democrazia di massa sia un'invenzione specificamente europea, l'idea di una societa' cosmopolita e democratica trova adesione in ogni parte del mondo. Ogni tradizione culturale ha le sue storie sulla superiore lungimiranza della massa rispetto al saggio e sulla crudeltà dei potenti che provoca quel senso d'ingiustizia nella maggioranza che si trova a essi sottoposta. In ogni tradizione vi sono storie di matrimoni riusciti con membri di gruppi disprezzati o di antichi odi superati con tolleranza e civiltà. Ogni cultura, non importa quanto ristretta, contiene in se' elementi che possono facilmente armonizzarsi con l'immagine utopistica di una comunita' politica planetaria e democratica.

Qual e' il ruolo e la responsabilita' della filosofia oggi?

Se e' autocontraddittorio pensare di imporre la democrazia con la forza piuttosto che con la persuasione, di costringere uomini e donne a essere liberi, certamente non loe' pensare di persuaderli a essere liberi. Se noi filosofi abbiamo ancora una funzione, essa consiste proprio in questo tipo di persuasione. C'era un tempo in cui i filosofi pensavano piu' all'eternita' e meno al futuro, diversamente da oggi; allora i filosofi si definivano servitori della verita'. Oggi tendiamo a parlar meno della verita' e più della sincerita', meno del modo in cui la verita' debba pervenire al potere che del modo in cui il potere possa essere mantenuto nei limiti dell'onesta'. Io penso che questo sia un sano mutamento di prospettiva.

La verita' e' eterna e durevole, ma non si può essere mai certi di averla trovata. La sincerita' e la liberta' sono temporali, contingenti, fragili, ma possiamo riconoscerle quando ci imbattiamo in esse. In effetti la liberta' che noi maggiormente apprezziamo e' quella di essere onesti l'uno nei confronti dell'altro e di non essere penalizzati per questo. In un mondo intellettuale completamente temporalizzato, un mondo in cui le aspirazioni alla certezza e all'immutabilita' siano definitivamente scomparse, noi filosofi dovremmo definirci servitori di quel tipo di liberta', servitori della democrazia. Pensare a noi stessi in questo modo ci aiuterebbe a evitare i pericoli dell'"avanguardia", dello sciovinismo e dello scolasticismo. E dovremmo convenire con John Dewey quando afferma che "la filosofia può soltanto avanzare delle ipotesi, ipotesi che in tanto hanno valore in quanto riescono a sensibilizzare gli uomini alla vita che li circonda". In un mondo interamente temporalizzato, contribuire a una tale sensibilizzazione rappresenterebbe tanto un rispettabile obiettivo per una disciplina accademica quanto un contributo alla conoscenza.

(Traduzione: Antonio Rainone)

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui

Archivio Attualita'

 


homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 1999

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier | Reset Online | Libri | Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media | Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo