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L'ossessione del ricordo


Intervista a Jacques Revel

 


Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it

Chi è Jacques  Revel

Jacques Revel è nato nel 1942. Attualmente è directeur d'études all'École des hautes études en sciences sociales, dove si occupa di storia sociale dei modelli culturali. È membro del comitato direttivo delle “Annales”.
Revel è specialista di storia moderna e contemporanea della Francia; la sua riflessione si è incentrata sulla memoria storica, la micro-storia e le scienze sociali. Lavora attualmente sulla storia delle relazioni tra storiografia e scienze sociali dalla fine del XIX secolo.

Bibliografia:

(con m. de certeau e d. julia) Une politique de la langue. La Révolution française les patois. L'enquête de Grégoire, Gallimard, Paris, 1975; (con j. le goff e r. chartier) La Nouvelle Histoire, Retz, Paris, 1978; (con r. chartier e d. julia) Université et société à l'époque moderne, Éditions de l'École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris, 1986-1989; (con a. burguière) Histoire de la France, Seuil, Paris, 1989-1993; L'espace français, Seuil, Paris, 1989; (con l. hunt) Histories, The New Press, New York, 1996; Jeux d'échelles. La microanalyse à l'expérience, Seuil-Gallimard, Paris, 1996.

Professor Revel, come si definisce il rapporto fra la memoria e la storia?

Il rapporto fra la memoria e la storia è antico quanto le società storiche e le società sono storiche perché si preoccupano delle tracce che lasceranno: da qui le testimonianze, i monumenti, le iscrizioni, gli archivi; quindi forme più elaborate, ossia i racconti, per fissare nel tempo ciò che esse sono state: tutto ciò dura da migliaia di anni. La vera novità è la trasformazione del rapporto fra la memoria e la storia o, per meglio dire, il carattere quasi ossessivo assunto dalla memoria nelle società contemporanee. È come se le nostre società fossero diventate delle imprese produttrici di memoria, impegnate a riflettere sui mezzi per fissare la loro immagine mentre sono ancora viventi: tale operazione ha assunto forme differenti; tre sono le forme principali. La prima e la più visibile è la “commemorazione”: le società occidentali, in particolare, passano il tempo a ricercare occasioni per ricordare il proprio passato e celebrarlo: ogni anno reca il suo lotto di commemorazioni. È un fenomeno impressionante che si presenta in tutti i Paesi.

Il secondo aspetto si potrebbe definire “patrimonializzazione”. Le nostre società agiscono per conservare delle tracce del loro passato e per trasformare in passato le tracce delle loro esperienze viventi. Lo stesso termine “patrimonio” è stato oggetto di uno slittamento semantico piuttosto interessante. In origine il patrimonio è l'insieme dei beni che i genitori lasciano ai figli. Negli ultimi anni il patrimonio è stato fatto oggetto di una definizione collettiva, il patrimonio ora è nazionale: in esso sono entrati dei fenomeni estremamente eterogenei; non solo gli archivi, gli oggetti d'arte, i siti storici, ma tutto l'ambiente è divenuto di natura patrimoniale. Si conservano i paesi, i paesaggi, li si preserva e li si conserva a titolo di patrimonio futuro. Ci sono oramai musei di ogni cosa: tutto può essere oggetto di una collocazione, di una classificazione nell'attesa che gli oggetti, così classificati e conservati,  divengano dei portatori di memoria. Sono fenomeni impressionanti, perché mirano a creare con qualcosa di vivente un “già stato” storico e un portatore di memoria. Questi fenomeni innescano una mutazione del rapporto con il tempo storico: le nostre società sono diventate delle società archiviste, che si osservano e si conservano.

La terza forma di produzione della memoria è, a dire il vero, una ridefinizione della memoria umana. Il genere memorialista esiste da molto tempo, ma a lungo non è servito che a conservare la memoria di ciò che sembrava importante, cioè dei grandi uomini o dei grandi fatti della storia. Ciò che oggi è cambiato è che, al contrario, sono le memorie dal basso, le memorie degli anonimi, di coloro che normalmente non lasciano tracce nella storia a esser prese sul serio: sono queste le memorie maggiormente valorizzate. È come se ciascuno degli attori più infimi della storia fosse portatore di una memoria tanto più preziosa quanto più fuggevole. Ciò induce ad allargare il campo della memoria e a conservare la testimonianza degli attori non in quanto partecipanti a una impresa generale, ma al contrario, per ciò che essi sono di particolare. Memoria di operaio, di donna, di contadino, di anonimo, di bambino: ormai tutto va bene per chi deve conservare. Le nostre società si pensano come collezioni di individui, di cui ciascuno deterrebbe una memoria particolare che non sarebbe un riassunto o una flessione della memoria generale, ma che varrebbe per la sua stessa singolarità. Mentre un tempo la memoria mirava a essere consensuale, a integrarsi in un discorso generale, ora essa è diventata disgiuntiva, mira a essere particolare e vale per la sua particolarità.

Le nostre società sono diventate società archiviste con forme diverse di produzione della memoria. Quali sono le conseguenze di questo fenomeno?
        
Sono molteplici e rimandano ad un cambiamento profondo del rapporto con il tempo. Il tempo è stato pensato come significante, vettoriale, orientato, e in esso le lezioni del passato erano presupposte, forgiavano le convinzioni e la comprensione del presente. Si cercavano nella storia dei modelli di riferimento sulla base di una presunta continuità tra ieri ed oggi. Attualmente l'irruzione della memoria segnala una frattura fra il pensiero del presente e il pensiero del passato. Il passato è diventato qualcosa di distante, esotico e prezioso: il passato che conta è il mondo che abbiamo perduto, che non ritroveremo più. Si tratta di un fenomeno che colpisce zone molto distanti del passato: le società medievali o dell'inizio dell'era moderna, nelle quali non possiamo ritrovare tracce o anticipazioni di ciò che siamo diventati; ma colpisce anche esperienze contemporanee. Per lungo tempo, ad esempio, le esperienze dell'ultima guerra sono state percepite come esperienze politiche. Oggi sono sentite come esperienze memorialiste: vogliamo intuire, più che comprendere, in cosa questo tempo sia stato: Le temps du chagrin et de la pitié, per riprendere il titolo di un celebre film.

La pressione della memoria è tanto forte da aver riformulato il nostro rapporto con questo passato, che sia lontano o vicino. Per esempio è la memoria dei perseguitati negli anni dal 1940 al 1944 che ha portato all'arresto e alla condanna dei collaborazionisti, non la conoscenza dei fatti acquisiti, secondo il normale lavoro dello storico. Siamo circondati di memoria, la produciamo e, di ritorno, la subiamo in tutti gli aspetti della nostra esistenza. Le tre modalità con cui la produciamo - commemorazione, patrimonializzazione e sovrapproduzione - si sommano a vicenda; è un movimento recente della nostra società, ma non ha mancato di influenzare e trasformare le condizioni del lavoro storico. La memoria è diventata un oggetto della storia e ha riformulato l'agenda degli storici.

Una testimonianza è la recente impresa de Les lieux de mémoire, serie di sette volumi diretta dallo storico francese Pierre Nora con la collaborazione di un centinaio di storici. Un “luogo della memoria” è un oggetto collocato nel tempo: può essere un oggetto materiale come una bandiera o un monumento; ma anche immateriale, come un'idea, un valore intorno al quale si è cristallizzato un carico di memoria. La storia di quest'opera, edita tra il 1984 e il 1993, è interessante. Il progetto era iniziato come semplice segnalazione di luoghi famosi, di motivi associati alla Repubblica; quindi l'impresa si è allargata, diversificandosi, moltiplicando i suoi oggetti. Ma anche le nozioni di “luoghi della memoria” e di “memoria” si sono trasformate: all'inizio c'era un modello di richiamo di simboli forti caratterizzanti l'esperienza storica francese; poi, la concezione di memoria si è complicata divenendo una sonda nella produzione dell'immaginario collettivo di una società.

Si è passati da una memoria “ricordo” ad una memoria che organizza il campo all'interno del quale una storia è pensabile. In definitiva, alla partenza la memoria era un allegato dell'impresa storica, all'arrivo è tessuta nel progetto storico e in un certo senso lo dirige. Questa opera è un sintomo del cambiamento radicale nei nostri modi di costruire un rapporto tra memoria e storia. Il fenomeno è importante nel caso della memoria e della storia nazionali, perché nella maggioranza delle nostre società la storia nazionale è un genere antico che ubbidisce a forme rigide e inscritte in una durata molto lunga: tali regole vengono oggi rimesse in discussione sotto il peso della memoria.

Negli ultimi decenni i fenomeni di produzione della memoria sono cresciuti: commemorazione, patrimonializzazione e sovrapproduzione di memoria hanno trasformato le condizioni del lavoro storico. Quali sono le conseguenze di questo mutato rapporto tra storia e memoria per quanto riguarda l'antico e tradizionale genere della storia nazionale?

La tradizione della storia nazionale non è unica perché ci sono molti modi di raccontare la storia di un Paese in funzione di questa esperienza. Il modo in cui si è raccontata attraverso i secoli la storia dei Paesi denotati da una lunga continuità al tempo stesso territoriale, politica e ideologica, come nel caso della Francia o dell’Inghilterra, è molto diverso dal modo in cui si racconta, ad esempio, la storia della Germania, di una nazione il cui territorio non si è mai veramente stabilizzato e che ha assunto una forma unitaria solo molto tardi. Ancora diverso è il caso dell'Italia, che ha conosciuto una forma unitaria nell'antichità, in seguito un lungo periodo nel quale questa forma unitaria non è più esistita, per riapparire soltanto molto recentemente.

Ancora diverso è il caso degli Stati Uniti, una nazione inscritta in una durata relativamente breve, poco più di due secoli fino ad oggi. Ad ognuna di queste esperienze storiche corrisponde un tipo di racconto che rinvia alle condizioni stesse dell'esperienza storica. Prendendo il caso francese, che conosco meglio, mi sembra che il racconto tradizionale di ciò che esiste, per grandi linee, a partire dal Medioevo, quindi dalle grandi cronache della Francia, avesse determinati obiettivi: il primo era garantire un'identità. La Francia, forse più di ogni altro Paese, è stata identificata da sette o otto secoli, con una persona e questa identificazione simbolica è più di una metafora: è una rappresentazione attraverso una persona, generalmente una donna, dell'identità essenziale della nazione; la nazione è una persona. Già il monaco di Saint Denis lo affermava alle soglie della prima storia di Francia e all'altra estremità della catena c'è ciò che Michelet ripete nella sua prefazione alla Histoire de France quando scrive: “L'Inghilterra è un impero, la Germania è un Paese, la Francia è una persona”. La persona è l'unità, l'unità dell'essere grazie al quale si può identificare una nazione con cui si intrattiene un rapporto personale, di identità.

Quanto al secondo termine, quello di “continuità”, il ricorso ad una personificazione biologica, umana, è servito a garantire, attraverso i secoli, che un Paese come la Francia, attraverso i suoi cambiamenti, fosse sempre lo stesso. Uno dei ruoli del genere della storia di Francia, nelle sue forme culturali, nel modo in cui rende concreto il concatenamento dei periodi e delle età, è stato di manifestare il fatto che questa continuità è fondamentale. Nel 1884, quattordici anni dopo la terribile disfatta del 1870-1871, il grande storico Ernest Lavisse ha scritto un libretto destinato alle scuole primarie, in cui racconta che Giovanna D'Arco aveva insegnato al re Carlo VII che egli era l'erede dei grandi re che l'avevano preceduto. Che l'episodio sia realmente avvenuto, nessuno lo sa e non ha alcuna importanza; ciò che conta è la volontà di offrire a degli scolari delle scuole primarie l’elementare idea secondo cui fin dalle origini la Francia è sempre stata la Francia. Uno dei grandi obiettivi di tali storie di Francia è stato quello di spostare indefinitamente all'indietro l'atto di nascita della Francia, a un'epoca in cui neppure il nome esisteva, come se occorresse dimostrare che, con ogni evidenza, qualcosa come la nazione è sempre esistita allo stato biologico. È un elemento di cui non bisogna trascurare l'importanza se si vuole comprendere la funzione del romanzo della nazione.

Professor Revel, identità e continuità caratterizzano la tradizione della storia nazionale. Esistono altri obiettivi del racconto della nazione?

Un altro obiettivo è la nozione di “comunanza”, nel senso di una comunanza di destino. Da sempre i Francesi hanno convissuto e hanno trovato delle ragioni per stare insieme: in fondo è ciò che ci dice la storiografia francese attraverso le epoche e ciò che, tardivamente, Renan ha espresso in una celebre formula, dopo la disfatta del 1870-1871, definendo la nazione come un “principio spirituale”. Tale comunanza è anche una comunanza di esperienza destinata ad essere conosciuta al di fuori: ciò che garantisce l'affermazione di una comunanza è che la storia nazionale di un Paese può servire da modello al di fuori. Uno dei ruoli essenziali e una delle condizioni forti della Rivoluzione francese è stato ricordare che i Francesi erano quel che erano perché avevano voluto esserlo, e ciò che essi avevano voluto essere poteva servire di ispirazione e di esempio per il mondo intero. Essi l'hanno mostrato in diversi modi, con la guerra, con la colonizzazione, saccheggiando tesori artistici del mondo dell'epoca, in particolare italiani, a partire dall'idea secondo la quale, in quanto popolo-guida, avevano la vocazione di raccogliere presso di sé tutte le tracce dell'umanità.

Si potrebbe dire la stessa cosa della comunanza americana a partire dalla fine dell''800. Il cosiddetto “imperialismo americano” è molte cose e, fra esse, anche la convinzione di essere una specie di esempio per l'umanità e di avere il diritto di prendere e poi offrire agli altri una specie di riassunto di una storia perfetta del mondo. Questa comunanza serve ad affermare una preminenza e una preminenza volontaria. Così si è costituito attraverso le diverse epoche ciò che chiamo “romanzo della nazione”.
Oggi sembra che questo racconto o romanzo sia messo in difficoltà. In tutti i nostri Paesi insegnare la storia è diventato un compito difficile: non tanto insegnarla a chi vuole diventare storico di professione, quanto insegnarla a chi non ha richiesto tale insegnamento e a chi le nostre tradizioni educative richiedono che si insegni. Viviamo in curiose società, da un lato ossessionate dalla loro memoria, ma dall'altro divenute ignoranti della loro storia. È un fenomeno presente nella maggioranza dei Paesi occidentali. Negli Stati Uniti, l'insegnamento della storia nelle scuole primarie o secondarie non è mai stato oggetto di una estrema preoccupazione; ma nei Paesi europei, in cui questa preoccupazione è esistita fortemente, oggi è come se il racconto proposto all'intera società, non possa più essere recepito come tale, come se i valori e le convinzioni, di cui tale racconto è portatore, fossero divenute difficili.

Il paradosso è che tale indifferenza, tale difficoltà, sia contemporanea ad una irruzione ossessiva della memoria: questo è un problema su cui bisogna riflettere. Una prima risposta potrebbe essere che la storia si è trasformata: fino all'inizio del '900 la storia insegnata ai ragazzi era il “romanzo della nazione” e come tale esso era evidente. L'insegnante di oggi non insegna tutto questo. La storia non è più una pedagogia della nazione, ma della società o, più esattamente, del sociale. Il principio nazionale era portatore di intelligibilità e questa oggi non è più evidente; un repertorio di valori e significati condivisi durante i secoli è oggi, in parte, morto e quindi viene sostituito da sensibilità meno organizzate e non integrate più nel continuo racconto tradizionalmente servito all'insegnamento della storia. Ciò è accaduto per tutto un insieme di ragioni i cui effetti si sommano: questa fine del secolo vede vacillare senza precedenti il rapporto che i contemporanei intrattengono con il passato.

Quali sono, a suo avviso, i motivi della crisi dell'insegnamento della storia nei Paesi occidentali?

Questa “crisi” o, meglio, questa “trasformazione critica”, mi sembra legata al fatto che siamo usciti dal tempo certo, orientato, dal tempo del progresso in cui tante generazioni che ci hanno preceduto, hanno vissuto: oggi il presente non è più sicuro, il futuro lo è ancora di meno e all'improvviso la concatenazione del passato al presente è divenuta una concatenazione largamente ipotetica. Tutto questo è accaduto in anni relativamente recenti. Due date potrebbero servire da simbolo per questa trasformazione. La prima è il 1968, data che indica una rivolta utopica: essa cerca di riorganizzare una situazione sociale ispirandosi ad una utopia retrospettiva, che pretendeva di cambiare la società cercando dei modelli non nell'avvenire, tanto meno nel presente, ma in società distanti ed esotiche. La seconda data significativa rispetto a questo cambiamento è quella dell'inizio della grande crisi mondiale, il 1973-1974: non solo perché questa crisi, dalla quale non siamo ancora usciti, ha scosso le fondamenta della nostra società, ma perché ha distrutto gli schemi di intelligibilità grazie ai quali eravamo abituati a pensare la nostra esperienza storica. Questa crisi non sappiamo neppure descriverla: sappiamo più o meno come è cominciata, ma non sappiamo prevedere in che maniera essa disorganizzi, soggioghi le forme delle relazioni sociali delle nostre società. Essa ha inaugurato un processo che certamente un giorno si arresterà, ma di cui non controlliamo né le concatenazioni, né gli effetti: ha opacizzato il nostro presente.

Questa è una situazione provvisoria, ma mi sembra che abbia in larga misura trasformato le condizioni della nostra esperienza del tempo: là dove eravamo in grado di trovare delle ragioni nella storia, non troviamo più che dei rifugi contro i pericoli del presente e contro le incertezze del futuro; là dove trovavamo un senso della storia, troviamo una fondamentale discontinuità. È in fondo questa esperienza del tempo puro, della pura distanza, che oggi determina la condotta degli attori sociali o degli attori storici quali noi siamo. In sintesi, vi è una riorganizzazione globale del nostro rapporto con il tempo e con l'esperienza storica di cui cominciamo solamente a misurare gli effetti. Dunque da tutto questo possiamo concludere che l'inadeguatezza del vecchio racconto nazionale rispetto alle attese di cui è oggetto nella nostra società, è l'espressione, o comunque il simbolo, di una profonda disfunzione fra l'esperienza tradizionale e la nuova esperienza della temporalità storica.

La crisi del modello di racconto storico nazionale e, in generale, dell'insegnamento della storia in tempi recenti necessita di risposte?

La constatazione della crisi è importante perché ha impiegato molto tempo a venir fuori: come tutte le società storiche, siamo lenti a renderci conto delle evoluzioni che ci colpiscono, soprattutto quando queste costituiscono delle rotture profonde. Da almeno quindici anni è apparsa una serie di tentativi per pensare in termini diversi il rapporto fra memoria e storia. Uno dei primi è stata la Storia d'Italia diretta da Ruggero Romano e Corrado Vivanti negli anni '70; quest’opera ha segnato un momento storiografico. Va sottolineato che tale esperienza ha avuto luogo in Italia, in un Paese che ha con la sua memoria dei rapporti ossessivi e problematici, non solamente oggi, ma da quando la sua antica unità si è sciolta e l'Italia si è cercata attraverso le “Italie”, al plurale. Il primo tentativo di spezzare il filo del “romanzo della nazione” è apparso in una nazione di recente costruzione.

Ma l'esempio italiano non è rimasto isolato. In Francia, la cui esperienza nazionale è molto lunga, c'è una serie di tentativi che si muovono nella stessa direzione: basti pensare alla serie de Les lieux de mémoire, una storia frammentata, in cui la costruzione della memoria storica è assimilata attraverso dei pezzi di cui non si cerca la totalità; se ne evidenziano invece il carattere differenziale e l'iscrizione in temporalità anch'esse diverse. Nel 1986 è apparso, postumo, l'ultimo libro, purtroppo incompiuto, di Braudel, dedicato a ciò che egli chiamava l'“identità della Francia”. Fra il 1989 e il 1993 ho curato una Histoire de la France in quattro volumi: il titolo Histoire de la France e non Histoire de France, sottolinea la volontà di assumere la Francia come un “interrogativo”. Questi tentativi si interrogano sulle condizioni per le quali un'esperienza francese è giunta a quella configurazione molto più ampia, complessa, che oggi chiamiamo “Francia”. Fino alla metà del '900 la Francia era un'evidenza esistita da sempre, che prometteva di esistere sempre. Ciò a cui gli storici oggi sono sensibili, obbedendo alle ingiunzioni della memoria, è il carattere ipotetico, sperimentale e non definitivo dell'esistenza nazionale; invece di partire da questa esistenza come da una convinzione che occorre verificare e prolungare, ne hanno fatto l'oggetto dei loro interrogativi.

Questi tentativi sono importanti perché in essi si intreccia un rapporto originale fra la memoria, che oggi ci circonda da ogni parte, e la storia narrata in commedia, cioè lo sforzo di costruire degli oggetti insieme all'interpretazione di questi oggetti disposti nel tempo. È uno slittamento di cui non va ignorata l'importanza, non solo da un punto di vista scientifico, ma anche civico. Si parla ovunque di un “dovere della memoria”; bisogna ricordare e conservare le tracce di questi ricordi, con la convinzione che il materiale accumulato un giorno avrà senso. Non c'è niente da ridire in tutto questo; gli storici non determinano il modo in cui le società pensano sé stesse, ma mi sembra molto pericoloso fermarsi su questo punto. Se la storia dovesse ripiegarsi sotto il peso della memoria, diventerebbe un'esperienza sensibile, quindi non necessariamente produttrice di senso, di intelligibilità. Reintrodurre il tema della memoria nel cuore dell'analisi storica, come si cerca di fare nella maggioranza dei Paesi occidentali e presto anche in altri Paesi, significa darsi il mezzo per farne uno strumento operativo. Il lavoro dello storico non è unicamente, né fondamentalmente, di ordine sensibile; ma il suo scopo è render conto, in modo analitico, dell'intelligibilità del tempo.

E' possibile trarre le conseguenze della trasformazione del rapporto tra storia e memoria?

È troppo presto per trarre un bilancio da una trasformazione che ha luogo sotto i nostri occhi. Il rapporto oggi esistente fra storia e memoria era impossibile da prevedere venti anni fa; ritengo che sarebbe imprudente o rischioso, fare una previsione anche a medio termine. Ciò che, secondo me, sta avvenendo è, in una certa misura, una ridefinizione del programma degli storici. Questo non significa che gli storici dovrebbero rinunciare alla dimensione critica del loro lavoro, tutto al contrario: l'esperienza storica che studiano e analizzano si è arricchita di nuove dimensioni; in definitiva è un altro cantiere che si apre e questo cantiere è ampiamente legato alle condizioni stesse dell'esperienza storica che è quella di ogni storico. Il resto dipende dalla storia reale.

Traduzione: Fiorinda Li Vigni

 

 

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