Caffe' Europa
Attualita'



Governare la «distanza»*


Francesco Saverio Trincia

 

Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it

1. Intendo prendere le mosse da una tesi di massima che può essere enunciata in questi termini: per quanto sia necessario, non è tuttavia sufficiente dal punto di vista teorico, e rischia inoltre di provocare gravi difficoltà pratiche, il limitarsi alla semplice indicazione dei fini (istituzionali, o organizzativi) che dovrebbero essere raggiunti all’interno di una società liberaldemocratica, per risolvere i problemi nuovi che volta per volta le vicende storiche le presentano. Questo tipo di società, quella nella quale vive attualmente la parte più fortunata dell’umanità, non dovrebbe essere assunta – nei suoi valori e nelle sue istituzioni costitutive – come un orizzonte già dato, «ovvio» nel senso che Edmund Husserl ha dato a tutto ciò che si sottrae ad un «indice di questionabilità», in quanto viene considerato pre-fenomenologicamente vero nel senso di «oggettivo».

A tale premessa generale è opportuno, prima di procedere, aggiungerne una seconda, mettendo in evidenza alcuni punti in forma per così dire «programmatica», allo scopo sia di fissare i confini semantici del concetto di liberalismo, sia di prendere posizione su di una distinzione tra due accezioni del concetto che non devono essere confuse, se si vuole mantenere all’argomentazione tutta la sua (eventuale) pregnanza. Dato che il concetto di liberalismo viene qui sottoposto alle tensioni concettuali derivanti dal suo innesto in un orizzonte problematico che gli è, almeno in prima istanza, estraneo, i confini che delimitano il suo significato – sia pur assunto in termini non scolastico-definitori – rischiano di oscillare eccessivamente e richiedono quindi di essere precisati.

Converrà dunque chiarire che per liberalismo filosofico e politico si intende un insieme di teorie che legittimano moralmente le istituzioni tramite un appello ai diritti individuali, il consenso democratico, la giustizia sociale, e così via. L’angustia teorica e pratica di cui, nella ipotesi che sorregge la mia argomentazione, il liberalismo così inteso rischia di soffrire, può trovare un maggior grado di visibilità concettuale – dal quale possono poi più agevolmente scaturire interventi pratici, di ordine politico e istituzionale – attraverso un approccio critico basato sul rapporto tra critica filosofica (non solo, e forse neanche essenzialmente filosofico-politica) e appello al pensiero freudiano.

Preferisco questa espressione a quella di «psicoanalisi», per indicare il fatto che mi riferisco esclusivamente a testi freudiani «classici», poco utilizzati al di fuori del loro contesto originario, e per prevenire la fondata obiezione che gli sviluppi postfreudiani della psicoanalisi possano aver così profondamente mutato il quadro iniziale, da rendere ad esempio discutibile l’esistenza della pulsione aggressiva, e quindi il ruolo teorico molto rilevante che le si può attribuire nella problematizzazione del liberalismo.

Per motivare la scelta della funzione problematizzante del pensiero freudiano, piuttosto che di altri orientamenti psicologici o di filosofia dell’io, si può osservare che la scelta è dovuta non al fatto che si debba considerare «vero» solo quel pensiero; non dunque alla convinzione di una sua verità esclusiva o superiore, o ad un’opzione ideale pregiudiziale e non discutibile, ma alla circostanza «pragmatica» che dal punto di vista freudiano le «angustie» del liberalismo sembrano risaltare più chiaramente che da altre prospettive.

È presupposta, infine, in quel che segue, la distinzione tra liberalismo di tipo kantiano, basato su di una teoria sostantiva del soggetto, e il liberalismo specificamente «politico» di John Rawls, che, in quanto basato sulla cosiddetta «svolta linguistica», implica una così radicale neutralità rispetto alle opzioni teoriche di fondo, da configurare come non sostantiva, ma appunto come solo «politica», questa stessa neutralità. Tale distinzione, che non può non essere implicita in ogni dibattito odierno sul liberalismo, non limita tuttavia la portata della critica che può essere rivolta al pluralismo «reasonable» di John Rawls, e che, nel contesto della mia argomentazione, serve a mettere sull’avviso circa le difficoltà, propria di questa accezione di pluralismo, di catturare teoricamente e di padroneggiare praticamente la radicalità del pluralismo multiculturale e multietnico.

Si può naturalmente discutere la legittimità dell’attribuzione alla pulsione aggressiva freudiana di una sorta di originaria «fatticità» psicologica, come qui si fa, ma sembra ragionevole osservare – e l’osservazione va tenuta ben presente per tutto quel che qui si argomenta – che Rawls pretende di agire in base al consenso, trascurando tuttavia, o almeno sottovalutando, la possibilità di un dissenso di base, non sul buono, ma sul giusto, che appare prevedibile nel mondo reale. Da questo punto di vista, è evidente che la neutralità di Rawls (quella neutralità che investe, tra le altre opzioni ideali, anche la stessa teoria liberale) impone al suo liberalismo «politico» non filosofico, quel di più di consenso o accordo preventivo, espresso nella formula del pluralismo «reasonable», che in questa sede sembra passibile di critica, non diversamente da ogni teoria del consenso che muova dalla presupposizione del consenso stesso, piuttosto che dal conflitto che dovrebbe risolversi in consenso.

Dalla opzione «strategica» di mettere preliminarmente in questione non certo la preferibilità, ma l’ovvietà oggettiva degli ordinamenti liberaldemocratici, deriva la conseguenza che la riflessione sul liberalismo non può riguardare soltanto la definizione dei nuovi compiti, del «che fare?» oggi per fronteggiare i problemi di integrazione delle società multiculturali. Alla decisione teorica di mettere in discussione se non la legittimità, la piena fecondità teorica di un approccio che potrebbe essere definito al tempo stesso di tipo hegeliano e sociologico (in quanto implica la descrizione della presupposta, originaria funzione unificatrice di una «eticità» di tipo hegeliano o di quella che Jürgen Habermas ha chiamato la certezza immediata del «mondo di vita»), si accompagna la percezione del pericolo di «tecnicizzazione» incombente sulla filosofia politica liberale. Un pericolo tanto più forte, quanto più le premesse teoriche essenziali del liberalismo vengano sottratte alla discussione sulle «condizioni di possibilità» del liberalismo stesso, ed ingabbiate nel linguaggio tendenzialmente ripetitivo di ciò che viene considerato, appunto, ovvio.

Vorrei avanzare l’ipotesi, e provare a dimostrare, che qualcos’altro sia possibile fare, che il ricorso ad una qualche forma di riflessione filosofica più generale sia inevitabile per mettersi su questa via e, infine, che la riflessione che accompagna la «filosofia politica» possa trarre dal pensiero di Sigmund Freud uno stimolo non banale. Non intendo discutere qui la tesi di Peter Gay (il quale ha comunque il merito di aver enfatizzato il valore dei saggi «culturali» freudiani per la «teoria politica») secondo cui Freud «è stato un determinista, ma la sua psicologia è una psicologia della libertà». Per quanto, infatti, sia difficile rivolgere obiezioni radicali a questa tesi, quel che certamente meriterebbe un approfondimento è la circostanza che Gay ne basi la validità sulla concezione della freedom to act esposta da Donald Davidson. Secondo Davidson è necessario respingere «la confusa opinione che la libertà umana è condizionata dal determinismo».

Ma appare tutt’altro che agevole – nonostante gli sforzi compiuti da Davidson stesso per «ridurre» in senso razionalistico quelli che egli ha chiamato i «paradossi dell’irrazionalità» – interpretare Freud come un teorico della libertà nonostante il suo determinismo, sulla base della convinzione che libere siano le azioni intenzionali che si producono quando l’attore sia in grado di razionalizzare i desideri e le credenze che ne sono state la causa. Dire con Davidson che «ciò che un attore fa intenzionalmente è ciò che è libero di fare e ha adeguate ragioni per fare» conduce piuttosto ad ostacolare che ad avvicinare la comprensione del senso del «liberalismo» freudiano.

Lo stesso Gay infatti preferisce seguire la via indicata del concetto del «limite» che si impone per forza di cose all’azione (che si vuole libera) dell’uomo. Cercheremo più avanti di mostrare in che modo sia possibile seguire – ma in una direzione diversa – l’indicazione di Gay per una utilizzazione filosofico-politica del Freud «liberale». Secondo Gay la psicoanalisi «opera per ridurre l’area di libertà in cui un individuo crede di muoversi», ma il suo effetto è, «all’opposto, quello di allargare le possibilità di scelta». Ora, la centralità del concetto del «limite» della libertà dell’azione umana, che la «realtà» psichica impone di riconoscere e di accettare, consiste nel fatto che nel dire kantianamente che «la libertà è riconoscere la necessità di obbedire a una legge che ci si dà interiormente», non viene esaltato un presunto dominio «idealistico» della libertà sulla necessità.

Quel che si fa è piuttosto fissare le condizioni ed i limiti entro cui – dal punto di vista psichico – si può essere liberi sulla base della ammissione dell’esistenza della necessità che impone di circoscrivere i «territori dell’autonomia». L’aumento delle capacità di scelta da parte dell’individuo si lega, in questa prospettiva, alla capacità di tener ferma (grazie all’indicazione di quello che non siamo in grado di fare, accompagnata dalla consapevolezza della parziale e mai definitiva opera di «prosciugamento» del dominio dell’inconscio) la mappa delle coazioni nevrotiche, e di «ridurre l’ansia che si sviluppa con l’incertezza».

Queste sono, mi pare, le premesse generali della utilizzabilità del pensiero freudiano nel quadro di un ripensamento non ideologicamente condizionato del liberalismo. Quel che di questo pensiero è possibile utilizzare è al tempo stesso molto rilevante, e molto circoscritto. È importante anzitutto l’introduzione nella riflessione sulla teoria politica di uno sguardo antropologico e psicologico, radicato sulla nozione di azioni e pensieri inconsci, la cui controllabilità etica diviene perciò strutturalmente difficile e il cui instradamento in ordinamenti istituzionali liberali evoca rischi e difficoltà costanti. Si accentua insomma, per questa via, quella «convivenza con l’incertezza» che, prosciugata delle sue componenti ansiose, si conferma come una caratteristica essenziale dell’antropologia liberale. D’altra parte, il margine entro cui può prodursi un contatto critico tra freudismo e liberalismo è solo questo: di carattere preliminare, metodologico, e, se si passa la retorica del termine, «pedagogico», mirante cioè ad allargare il raggio e la portata delle sfide con la effettualità dell’uomo, che il pensiero e gli ordinamenti istituzionali liberali hanno comunque il compito di affrontare.

La semplice riproposizione dell’universalismo etico (e delle sue garanzie giuridiche) sembra insufficiente di fronte al compito di ampliare la potenza della inclusione negli ordinamenti liberaldemocratici delle differenze risalenti alle diverse culture che entrano a convivere nell’orizzonte delle nostre società. Il problema che deve essere affrontato è rappresentato da quello che Habermas ha chiamato «il crescere della complessità sociale e l’allargarsi dell’originaria prospettiva etnocentrica», da cui derivano la pluralizzazione delle forme di vita e la crescita della individualizzazione delle storie di vita.

La ridiscussione delle «condizioni antropologiche di possibilità» del pensiero liberale diviene necessaria se l’«aggiustamento» della tradizione liberaldemocratica alle richieste di ampliamento della cittadinanza richiede risposte che non implichino né la distruzione delle differenze, ma neanche la mera indifferenza «tollerante» rispetto ad esse. Dato che in questo caso si ripropone su scala allargata la problematica classica del pensiero liberale, quella della coesistenza delle libertà individuali grazie all’obbedienza ad una legge valida universalmente, la questione non solo amministrativa, non solo storica, né solo sociologica, che si pone è se il liberalismo possieda una nozione dell’autonomia etica e della libera ed eguale sottomissione di tutti alla legge, tanto compiuta e sufficiente da non richiedere la ridiscussione del concetto di libertà che è a fondamento di tutto il suo programma. Diminuzione della presunzione di poter contare su di una libertà di principio pienamente trasparente a se stessa e, al tempo stesso, insistenza sul tema del limite della libertà: queste sono le due direzioni connesse lungo le quali la ridiscussione deve svolgersi.

Si pensi, per fare un solo esempio, al modo in cui la questione si pone sulla base della definizione che Will Kymlicka dà della filosofia politica. Secondo Kymlicka, la distinzione tra filosofia morale e filosofia politica è demandata «all’appello a più profondi principi morali». Il criterio «con cui valutare il successo della filosofia politica» viene identificato nella sua «capacità di collimare con le nostre convinzioni ponderate sulla giustizia e di illuminarle». Si aggiunga che le nostre convinzioni ponderate comprendono anche la libertà, che viene quindi collocata a livello di ciò che appare «in noi» intuitivamente vero. Ora, mi domando se non si debba riconoscere che un problema non irrilevante viene sollevato dalla decisione di basare il test del successo di una filosofia politica sulla sua corrispondenza ai valori più profondamente radicati in noi, ossia sulla sua originaria omogeneità con il nucleo in sé morale presente in noi stessi.

Non ci troviamo – se la questione viene formulata in questi termini – di fronte ad una pre-posizione incontrollata della morale alla politica, del «bene» al «bene pubblico», capace di assicurare il successo della seconda grazie al fatto che sulla solidità della prima non appare legittimo sollevare dubbi? Perché le cose dovrebbero stare necessariamente così? Non si presuppone forse troppo, in questo modo, al fine di evitarsi l’onere rischioso di discutere le premesse generali di una filosofia politica, ossia il rapporto di quest’ultima con il suo «sfondo» reale, antropologico e psicologico, con la realtà dalla quale prende le mosse e a cui – per condizionarla in qualche misura – deve circolarmente riferirsi?

Kimlicka stesso precisa che «se una teoria della giustizia quadra con le nostre intuizioni ponderate e le struttura in modo tale da metterne in luce la logica interna, ciò costituisce un forte argomento a suo favore». Tuttavia è possibile dover ammettere che queste intuizioni siano senza fondamento. Ma se la filosofia politica si basa sul senso intuitivo del giusto e dell’ingiusto, e questo senso può, ciononostante, risultare privo di certezze, e dunque può esservi come anche non esservi, non rischia forse ogni filosofia politica, e in primo luogo il liberalismo, di restare sospesa sul nulla? Quale argomento cogente, quale indiscutibile ragione, dovrebbe indurci a porre come essenziale condizione della filosofia politica l’intuizione, interna a ciascuno di noi, di sentimenti di giustizia, e dunque a respingere l’ipotesi – fornita di pari plausibilità – che il problema radicale della filosofia politica sia costituito dall’esistenza di pulsioni aggressive? Dentro di noi, si potrebbe infatti osservare, è dato trovare di tutto, il bene come il male.

Jürgen Habermas ha dimostrato come la «ragione comunicativa» che rimpiazza la «ragion pratica» debba incarnarsi nei fatti sociali; per quanto possano insorgere diffidenze di provenienza empiristica verso ogni forma di confusione di ragione e realtà, e per quanto l’idealizzazione, che permane come caratteristica anche della ragione comunicativa, non sopporti «che i concetti si adattino mimeticamente alla opacità della realtà data», la ragione comunicativa «ascrive e incorpora» l’operazione di idealizzazione nella stessa realtà sociale. Solo presupponendo la frattura prodotta dalla «svolta linguistica» nella filosofia contemporanea diviene possibile intendere il senso della tesi – ricavata da Peirce – secondo cui il mondo si costituisce per una «comunità dell’interpretazione» «i cui appartenenti si mettano l’un l’altro d’accordo sulle cose del mondo a partire da un mondo di vita intersoggettivamente condiviso». La «comunità dell’interpretazione», a sua volta, deve certamente poter contare sul consenso motivato razionalmente di tutti i proponenti e gli obiettanti all’interno della comunità stessa, ma la comunità di cui parliamo non deve soffrire i limiti di una particolare forma di vita.

Ma, si può obiettare ad Habermas, che cosa accadrebbe se il «reale» comunicativo, cui allude il concetto di una «trascendenza dall’interno», risultasse costituito da una forma di comunicazione che veicola al tempo stesso l’accordo e il disaccordo? Se, cioè, la nozione di una «comunità senza limiti determinati» richiamasse l’impossibilità di fare a meno degli altri, un’impossibilità intesa come tale che tutti in quanto singoli si facciano carico del compito inesauribile di una conversione etica, in assenza della quale la comunicazione psicologica oltre che linguistica (in qualità di dato trascendentale della comunicazione) sarebbe condannata a rimanere un unitario campo di battaglia universale, ossia il luogo di espressione dell’universalità ultraindividuale del solo legame aggressivo tra gli uomini? Perché, mi chiedo insomma, l’ipotesi dell’esistenza dell’ostilità universale dovrebbe essere tenuta fuori dalla costruzione di una «comunità senza limiti determinati, epperò capace di un incremento determinato di conoscenza», se la premessa metodologica che guida l’intero argomentare di Habermas è costituita essenzialmente dall’abbandono del normativismo ingenuo della «ragion pratica» e dall’incarnarsi della ragione comunicativa nei fatti sociali? Le strutture della vita psicologica individuale, ad esempio quelli che nel linguaggio della filosofia analitica dell’azione sono i meccanismi di formazione delle preferenze, devono essere riconosciuti come componenti essenziali di ogni «fatto sociale».

Non è legittimo, certo, dimenticare che in Habermas il tema del diritto gioca un ruolo che qui consapevolmente trascuriamo, nella ricerca delle condizioni di possibilità (qui indagate dal punto di osservazione della questione del limite di queste condizioni, del loro poter dare molto, ma non tutto) della unificazione delle volontà di cittadini liberi ed eguali. Habermas parla, com’è noto, di un’«idea democratica» già sviluppata da Rousseau e da Kant, in base alla quale, appunto, «la pretesa di legittimità di un ordinamento giuridico costruito a partire dai diritti individuali può essere riscattata solo attraverso la forza di una integrazione sociale sviluppata dalla "volontà concorde e unificata" di tutti i cittadini liberi ed eguali». Il che vuol dire che «i diritti politici di partecipazione e di comunicazione sono parte integrante di qualunque procedimento legislativo generante legittimazione», ma essi non vanno esercitati «in quanto diritti di soggetti giuridici privati individualisticamente isolati tra loro, bensì piuttosto nell’atteggiamento di cittadini partecipanti a una prassi d’intesa intersoggettiva».

È tuttavia legittimo tornare a chiedersi: che cosa propriamente consente di pensare alla rottura dell’individualismo a vantaggio dell’intersoggettività soggiacente al processo di intesa, qualora si ipotizzi che la stessa idea democratica prenda corpo in individui costituiti sulla base della duplicità del bisogno e insieme del rifiuto aggressivo degli altri? La questione sembra legittima, ripetiamolo, in virtù dello snodo metodologico centrale in Habermas, quello in virtù del quale la ragione viene incardinata in un ordine sociale che appare costitutivamente insocievole e disordinato. Dove ha luogo il superamento dell’individualismo: in un «oltre» rispetto all’individualismo degli individui (un «oltre» in sé già dato nonostante l’enfasi posta da Habermas sull’abbandono dell’ingenuità normativa della «ragion pratica»), o invece in ogni singolo individuo che divenga capace di volere eticamente il suo «oltre» ultraindividuale?

È «ragionevole aspettarsi che tutti i partecipanti (diretti o indiretti) al processo legislativo "escano fuori" dal ruolo di privati soggetti giuridici e si accollino – nel ruolo di cittadini dello Stato – la prospettiva di membri d’una comunità giuridica cui liberamente si aderisce». Ma da quali limiti e incertezze è costitutivamente segnata, in quanto venga osservata al di qua del prodursi della comunità comunicativa, la «libertà» di quell’«uscir fuori»? Non risalta forse nella sua piena legittimità la domanda sul «chi» sia destinato ad uscir fuori dal ruolo di privato soggetto giuridico?

Insomma: si può ipotizzare se non di respingere, certo di correggere, lo schema habermasiano opportunamente radicato nella convinzione della separazione/unità della fattualità e della validità, riempiendo di contenuto psicologico il «chi» dell’intesa e dunque aggiungendo un elemento ulteriore (e diverso) di fattualità limitante a quelli che sono già chiamati in causa da Habermas? La questione serba il suo valore, mi pare, anche qualora si ammetta che l’idea di riempire di contenuto il «chi» dell’intesa risulta complicata – e non solo per Habermas – dalla problematicità di ogni teoria generale della natura umana e dalla sua difficoltà di superare i problemi del pluralismo.

2. La difesa delle diversità tra gli esseri umani, e dunque il rifiuto antipaternalistico di ogni teoria e di ogni istituzione politica orientate a render migliore la vita degli altri contro la loro volontà, costituisce al tempo stesso la premessa e almeno uno degli scopi della democrazia liberale. Uno degli elementi essenziali della «teoria del processo democratico» di Robert Dahl, quello che corrisponde al principio di «presunzione di autonomia personale» (la «presunzione del diritto di ciascun uomo o donna a essere riconosciuti come i migliori giudici dei propri interessi nel momento in cui vanno prese decisioni individuali o collettive»), comporta il richiamo alla coscienza individuale. «La teoria ha senso», secondo Dahl, «soltanto nel caso in cui le varie priorità si facciano strada nella coscienza individuale. […] Dunque, indipendentemente dal fatto che gli interessi di una parsona vengano indicati dalle sue preferenze, desideri o bisogni, con ogni probabilità la conoscenza che ciascun individuo ne ha è superiore a quella di chiunque altro. […] Siamo perciò autorizzati, anzi obbligati, a considerare con il massimo sospetto chiunque pretenda di avere una conoscenza obiettiva del bene di un altro superiore a quella dell’individuo stesso».

Da questo punto di vista, sembra chiaro che ogni organizzazione democratica della vita sociale dovrebbe nettamente criticare e respingere dal proprio orizzonte ideale e dalle proprie istituzioni ogni ripetizione della convinzione di J.-J. Rousseau che il «contratto sociale» comporti il diritto della volontà generale di agire per costringere ad essere liberi i membri del corpo sociale che ritengano di poter rifiutarle obbedienza, pretendendo al tempo stesso di continuare a far parte di esso. Le democrazie liberali sono costruite su premesse che non possono risolversi integralmente nella tesi rousseauiana che l’associazione politica richieda «l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità», in modo tale che ciascun singolo «dandosi a tutti non si dà a nessuno» e riceve in cambio della rinuncia ai propri diritti di persona privata i più forti diritti di membro dell’associazione politica. Solo a queste condizioni, com’è noto, egli resta «libero come prima».

Le tesi di Rousseau rischiano di far passare in secondo piano, a vantaggio dell’obiettivo dell’unità giuridica e politica tra gli uomini, l’esistenza di differenze tra di essi, e di realizzare un’unificazione politica che certamente sostituisce il diritto e la moralità pubblica alla prepotenza del più forte, ma a prezzo di una perdita irrimediabile della pluralità dei mondi vitali privati individuali. Così il problema del pluralismo e della convivenza delle diverse esistenze in una cornice di eguale subordinazione al diritto viene risolto solo perché in realtà viene tendenzialmente dissolto. Le democrazie liberali che non si riconoscono nella tendenza «totalitaria» della filosofia politica di Rousseau possono essere forti solo sulla base dell’ammissione di quel pluralismo radicale che dal punto di vista rousseauiano si presenta invece come una loro potenziale debolezza. La «cittadinanza» che esse riconoscono ai loro membri non richiede i sacrifici della propria cultura e della propria fisionomia privata che sono richiesti da Rousseau per la costituzione del corpo sociale.

Per questo motivo, la cittadinanza, in quanto diritto delle democrazie liberali, deve essere caratterizzata da una duplice «apertura»: essa deve essere al tempo stesso di principio ampia ed ulteriormente ampliabile, ma anche strutturalmente «aperta», nel senso specifico che essa deve rimanere sottoposta costantemente ai rischi scaturenti dalla conflittualità reciproca tra i differenti singoli e gruppi che via via entrano a far parte del corpo sociale, da un lato, e tra l’insieme di questi singoli e gruppi e le istituzioni pubbliche, dall’altro.

Piuttosto che a Rousseau, le democrazie liberali che accettano come elemento strutturalmente necessario della loro stessa sopravvivenza il conflitto mai del tutto ricomponibile tra istituzioni pubbliche e società civile, e che in questa cornice collocano la ricerca delle soluzioni istituzionali al problema della organizzazione di società multiculturali, trovano nella filosofia politica di Kant la propria ispirazione fondamentale. Il problema del pluralismo, che oggi si configura come questione della cittadinanza allargata e, più in generale, della convivenza giuridicamente garantita della molteplicità delle culture che rendono complesso lo spazio interno delle democrazie liberali (in quanto per un verso vi emergono ed esigono il riconoscimento dell’autonomia le parti culturalmente diverse che vi si sono unificate nel corso della storia di una entità statale, e per altro verso esse stesse attraggono entro i propri confini masse umane bisognose di un «benessere democratico» a cui tuttavia sono spesso estranee le loro radici storiche) richiede e merita di trovare un ancoraggio concettuale saldo e nobile.

Questi problemi trovano nel concetto di «libertà negativa», come è stato sviluppato da Isaiah Berlin, un fondamento teorico tutt’altro che obsoleto e non agevolmente sostituibile. Differenza e pluralismo culturale sono solo i «nomi» che noi diamo oggi all’esistenza sociale delle differenze di ogni tipo di individui e di gruppi, la cui presenza rivolge una sfida costante alla capacità del diritto di riconoscere e di garantire normativamente tale esistenza.

L’esistenza sociale delle differenze non appare cosa diversa e pone quindi problemi di principio non diversi da ciò che nella filosofia politica di Kant viene definito come l’assenza di ogni impedimento alla ricerca da parte di ciascuno della propria felicità, in accordo con una legge che valga per tutti. La libertà dell’individuo in quanto uomo, secondo Kant, consiste nel fatto che «nessuno mi può costringere a essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale».

Oggi più radicalmente di ieri le premesse filosofiche delle democrazie devono idealmente collegarsi alla convinzione kantiana che le società umane siano basate sulla «insocievole socievolezza» che rende gli uomini al tempo stesso bisognosi di unirsi in un ordine sociale retto da una legge, pur restando sempre conflittuali l’uno rispetto all’altro. Ne deriva che una forte costrizione è essenziale affinché resti solido il legame tra uomini che mantengano intatto il diritto di ciascuno di cercare la via della propria felicità in piena libertà e dunque scontando, se non alimentando, un costante antagonismo reciproco. Oggi più di ieri, nelle società caratterizzate da un pluralismo di fatto molto più radicale di quanto possa ammettere il pluralismo «reasonable» di John Rawls, la difficoltà dell’organizzazione democratico-liberale delle società consiste nel tenere uniti insieme il principio del «bisogno» che ogni uomo ha degli altri, con il principio della libertà di ciascuno. Questo secondo aspetto va garantito da leggi che devono essere tanto più solide quanto più la libertà della ricerca della felicità individuale – o di gruppi basati al loro interno sullo stesso duplice principio – non sopporta radicali limitazioni, né è disponibile ad agevoli compromessi, anche a causa dell’esistenza di retroterra culturali lontani e non facilmente comunicanti tra loro.

Non è agevole definire ed approfondire il senso (o la molteplicità dei sensi) in cui parliamo qui di un «bisogno degli altri», quale concetto base della costruzione di una socialità in sé pluralistica. Un ambito semantico vicino, ed utilizzabile insieme ad altri per definire quel senso può essere, ad esempio, quello collegato all’idea della pulsione unificante «erotica» di cui Freud parla nel Disagio della civiltà. Se ci si tiene convenientemente a distanza dalla tradizione di pensiero idealistica, non è difficile, d’altra parte, rinvenire in altri ambiti di pensiero le premesse di una concezione della socialità che condividono con quella ricavabile dal pensiero freudiano la possibilità di un approccio al tempo stesso problematico e realistico (o antispiritualistico). Basti, per quel che ora serve, ricordare i concetti heideggeriani di «trascendenza dell’esserci» e di «esser-nel-mondo» e ciò che si può ricavare a favore di una concezione «esistenzialistica» della socialità, e nella stessa direzione, ma lungo un percorso diverso che prende tuttavia le mosse dal pensiero di Heidegger, le tesi di Hans Jonas sul tema della «distanza» spazio-temporale come costitutiva del «fenomeno della vita», e sul rapporto con, ma anche contro, il «mondo» grazie a cui il «sé», ossia l’identità anzitutto biologica di ogni essere animale, si mantiene in vita; ed inoltre la singolare commistione di elementi solo apparentemente e distruttivamente conflittuali che Jon Elster vede attivi in quello che chiama il «cemento della società», capace di produrre «l’ordine sociale».

Freud ritiene (in termini che appare corretto definire «naturalistici») che la tendenza sociale e politica dell’uomo debba essere incardinata nella sua costituzione psico-fisica, e che essa ricavi da tale incardinamento la propria fisionomia complessa, ossia strutturalmente «aperta» e sostanzialmente irrisolta. La linea di pensiero in cui Freud si colloca prende idealmente le mosse da Thomas Hobbes; essa fa di politicità e socialità questioni letteralmente «vitali» per gli uomini: bisogni, appunto, variamente declinabili in senso biologico-organico o invece esistenzialistico, ma in ogni caso non forme di autorealizzazione spirituale di un Io trascendentale. È in questo senso che, dicevo sopra, merita di essere messa in rilievo l’osservazione, solo apparentemente ovvia, di Peter Gay sulla legittimità e l’opportunità di valorizzare, in termini di «teoria politica», i saggi «culturali» dell’ultima fase della vita di Freud. Sembra chiaro in base a quel che si sta osservando che il «bisogno di altri che ci rimangono comunque ostili o almeno estranei, e a cui noi rimaniamo comunque ostili o estranei», dunque il bisogno proprio di ogni individuo che l’alterità radicale degli altri rispetto a lui si mantenga ferma, sia ciò che consente di dar conto della divaricazione tra quella che Habermas chiama l’universale sovracontestualità della norma realizzante tale bisogno in forma appunto normativa, e la validità fattuale dell’intesa (sempre sottoposta al rischio del fallimento).

Senza «bisogno di socialità» la validità ideale delle norme dell’intesa non si imporrebbe fattualmente mai. Ma, per altro verso, senza conflitto permanente, la validità ideale della norma non risalterebbe come validità appunto ideale, rispetto alla validità sociale, soltanto fattuale e contingente, di essa. Per evitare che la tensione tra le due forme di validità esploda in una divaricazione irrecuperabile, è necessario supporre l’esistenza di un loro comune radicamento nella coappartenenza reciproca di socialità e insocievolezza.

Se la democrazia liberale si basa tanto sulla capacità di mantenerne l’unità normativo-giuridica, oltre che morale, dei differenti cittadini che formano le varie comunità statuali, quanto, e contestualmente, sulla salvaguardia della possibilità concreta e del diritto che lotte, conflitti politici, sociali, culturali abbiano liberamente luogo, non è possibile trascurare il tema della «forza» della democrazia. Una democrazia forte (ossia con solide istituzioni politiche, con un società civile ricca, molto articolata e radicata in una tradizione di «sentimento» democratico lunga e diffusa) è la condizione del realizzarsi della coesistenza dinamica delle differenze morali e culturali (anche reciprocamente conflittuali) che articolano la società civile, soprattutto quando abbiano luogo un ampliamento e una apertura della cittadinanza a masse di individui che entrano «dall’esterno» nelle democrazie liberali. Scrive Kant che «senza la condizione, in sé non desiderabile, della insocievolezza, da cui sorge la resistenza che ognuno nelle sue pretese egoistiche deve necessariamente incontrare, tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia, frugalità, amore reciproco». Gli uomini rimarrebbero «buoni» come le pecore che fanno pascolare.

La circostanza che gli uomini non siano affatto «buoni» costituisce – lo si noti – la precondizione ineludibile sia dell’instaurarsi del diritto, sia del loro progredire potenzialmente infinito, ben oltre i confini della pastoralità arcadica.

In una recente discussione del libro di Dworkin e Maffettone I fondamenti del liberalismo è stato colto con chiarezza un punto di grande rilievo per comprendere che il senso del tema kantiano della «dannosità» dell’esser buoni che qui ci interessa è quello per cui si immagina che gli uomini siano tutti «ugualmente» buoni, come potrebbero esserlo le pecore di un gregge. Il liberalismo politico, si è osservato, è in grado di «abbracciare i più diversi stili di vita buona». Se la giustizia fa parte della nostra concezione etica, ne deriva che la scelta di una politica liberale è parte integrante della vita buona, o meglio, di diversi tipi o stili di vita buona, tutti accomunati dall’accettazione del liberalismo.

Il liberalismo appare così fornito di una forza di penetrazione universale, ossia si presenta come la condizione grazie a cui i vari stili di vita vengono definiti «buoni», mentre questi ultimi, pur rimanendo diversi tra loro, divengono – in quanto partecipi del liberalismo – reciprocamente compatibili e non si escludono più a vicenda, come accadrebbe se essi venissero tenuti al riparo della «contaminazione» politico-morale di fonte liberale. Fa parte dell’etica delle singole persone l’esigere che la vita della società in cui esse vivono sia giusta (in una società ingiusta, infatti, la vita privata è peggiore). Ne consegue che quella che chiamiamo giustizia non deriva affatto dall’applicazione di un modello esclusivo di vita buona, perché ciò provocherebbe sia la fine del pluralismo, sia la fine della concezione liberale «aperta» della cittadinanza. Al contrario la giustizia come parte dell’etica liberale deriva dalla scelta politica liberale, e dunque in linea di principio non è diversa da quest’ultima.

C’è tuttavia una questione che in questa sede interessa particolarmente. Quando si dice che la giustizia è parte integrante dell’etica personale, è essenziale dimostrare che «la vita personale degli altri è importante per la nostra stessa vita e che non possiamo rendere buona la nostra vita se non in una comunità in cui è possibile che anche gli altri facciano lo stesso». Ne consegue che libertà e giustizia coincidono: «abbiamo bisogno» di altri che, a loro volta, si riconoscono come tali che «hanno bisogno» di noi, mentre tutti, noi e loro, perseguiamo – entro quella che definiamo una comunità giusta e libera, e grazie a tale reciprocità del «bisogno» – il nostro ideale di vita buona, ossia la nostra «felicità», come la definirebbe Kant. È forse superfluo precisare che il termine «nostro» è usato solo per indicare che ciascuno di noi persegue, come fanno tutti, il suo proprio progetto di felicità.

Il liberalismo politico che presiede (come valore essenziale di esse) alle società democratiche e liberali «costituisce un vincolo per qualsiasi concezione presente o futura della vita buona e della società politica». Il liberalismo politico è un valore universale, nel senso che è la condizione assoluta dell’esistenza delle differenti scelte degli stili di vita che vengono seguiti dagli individui, ed inoltre della possibilità che gli individui vedano realizzato il proprio «bisogno» reciproco degli altri all’interno di società dove i diversi stili di vita liberamente scelti comunicano tra loro, anche in forma antagonistica. Tutti gli stili di vita differenti infatti sono accomunati dalla eguale convinzione morale che tutti i singoli membri di una società politica hanno «bisogno» – affinché la stessa vita di ciascuno non si esaurisca – della differente esistenza di altri che siano culturalmente liberi (e lo siano anche sul piano del riconoscimento giuridico). Si tratta di uno dei due aspetti complementari del rapporto tra eguaglianza e libertà, che vietano di pensarlo – secondo Amartya Sen – «in termini di eguaglianza versus libertà»: «la libertà è», in questo caso, «uno dei possibili campi di applicazione dell’eguaglianza».

3. L’insieme delle tesi liberali classiche risulta necessario ma non sufficiente. L’indicazione dell’ideale o del valore cui si ispirano le società liberaldemocratiche non basta. Il problema che si deve porre riguarda il «come» sia possibile realizzare questo valore. Che la realizzabilità non sia mai completa a causa dell’imperfezione della natura umana lo aveva già avvertito Kant, che aveva definito l’uomo come un essere fatto da un «legno storto» da cui «non può uscire nulla di interamente diritto». All’interno di questi limiti insuperabili, e proprio perché i limiti non possono essere superati, la volontà etica degli individui (di ogni singolo individuo) può instaurarsi come volontà di contrastare, senza peraltro godere di alcuna garanzia di vittoria, quello che Sigmund Freud ha chiamato il «narcisismo delle piccole differenze», che spinge gruppi omogenei di esseri umani – grazie ad un meccanismo di identificazione che genera e cementa libidicamente la «formazione collettiva» di cui fanno parte – ad odiare i propri simili e a desiderarne la distruzione tanto più quanto essi sono non radicalmente differenti da lui, ma quasi uguali a lui, o solo appena differenti.

Sullo sfondo dell’eguaglianza antropologica, ed in virtù di essa, scatta in ogni uomo la percezione di differenze che vengono sentite come minacciose da parte di chi (tutti noi, secondo Freud) traduce e deforma il dato di fatto dell’eguaglianza antropologica nell’ideale dell’identificazione con gli altri entro ambiti particolari di convivenza (l’etnia, la nazione, la regione, il villaggio, la famiglia e così via). La volontà di guerra contro i leggermente diversi nasce in uomini che, essendo uguali e distinti dai loro simili, non sopportano questa loro condizione di uguaglianza accompagnata da differenza e da conflitto, cercano forme ristrette e «gruppali» di identificazione erotica – e si trasformano in feroci nemici di altri appena diversi. Ciò accade a causa del rifiuto di portare il difficile peso dell’uguaglianza, della diffidenza verso la differenza culturale che coesiste con l’uguaglianza, e per troppo amore dell’«amore» tra gli uomini.

Argomentare in questo modo significa, naturalmente, razionalizzare in termini hobbesiani il pensiero freudiano. Ma questa razionalizzazione, questo indicare nella difficoltà di sopportare il peso dell’eguaglianza e nel ruolo di supplenza che di conseguenza viene affidato al cemento fornito dall’amore alle formazioni collettive, una o la causa dell’aggressività verso i diversi, esterni ad esse, consente di innestare sul naturalismo e sul determinismo freudiani la speranza che la volontà etica possegga uno spazio di intervento. Quello che tale volontà può ottenere non è una modifica radicale dei meccanismi psichici, certo, ma un loro parziale controllo, una qualche forma di compromesso con le pulsioni, per governarle. Freud, per conto suo, rimane estraneo all’indicazione di cause filosofico-antropologiche dell’aggressività. Per due volte lascia senza risposta la questione della causa prima del nesso tra l’avversione e la ripugnanza verso l’estraneo con cui siamo in contatto e l’«amore per noi medesimi», il «narcisismo che tende all’auto-affermazione». Rimane «ignoto» («wissen wir nicht») il perché della grande sensibilità sui dettagli delle differenze tra gli individui. La stessa «aggressività» che in tale comportamento si manifesta resta «sconosciuta» («unbekannt») nella sua origine, anche se proprio per questo le si deve attribuire un «carattere elementare», la caratteristica di un dato originario.

Le condizioni dell’unità tra gli uomini, o le premesse della coesistenza pluralistica degli stili di vita più diversi, implicano dunque certamente da un lato la volontà etica e politica che si concreta nella scelta della politica liberale, ma d’altro lato si deve aggiungere alla volontà etica e politica razionale rivolta alla realizzazione positiva dei legami con gli altri, la decisione individuale anch’essa razionale, ma rivolta alle condizioni della vita psichica di ciascuno, di tenersi fermi ad una maniera affettivamente sobria di vivere le differenze. Si tratta di un obbligo di carattere negativo, che deve essere definito antinaturalistico, in quanto comporta l’opposizione sia alla coppia narcisismo-aggressività, sia alla naturale tendenza all’oblio del nesso strettissimo che incardina sull’uguaglianza la differenza tra gli uomini.

D’altra parte, tra i due comportamenti che la volontà razionale deve contrastare non è difficile stabilire un legame: non è forse vero che dall’interno della volontà narcisistica di autoaffermazione, l’uguaglianza tra gli uomini diviene invisibile? Che l’aggressività, la «disponibilità ad odiare», rimanga per Freud sconosciuta nella sua origine, non oscura il ruolo che in questa situazione teorica gioca l’oblio dell’uguaglianza. L’azione della coppia narcisismo-aggressività rischia di paralizzare e di dissolvere l’equilibrio tra uguaglianza e differenza tipico della filosofia politica liberale.

Il bisogno degli altri non può essere concepito come tolleranza degli altri, e neanche come amore e come solidarietà verso gli altri. Per quanto possa apparire paradossale, amore e solidarietà costituiscono infatti una condizione possibile dell’odio rivolto agli altri, poiché cementano gruppi legati in forma libidica che riproducono all’esterno del proprio confine l’ostilità che hanno eliminato al proprio interno, cancellando le differenze tra i singoli. È piuttosto una prudente e sempre rischiosa, mai definitiva, commistione di volontà etica e politica liberale, e di saggezza psicologica quel che può consentire di realizzare quella «moderata distanza reciproca» tra gli uomini di cui parla Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’io. Il bisogno degli altri, la volontà esistenziale originaria di condurre la propria vita insieme ad altri differenti da noi, richiedono ciò che sembra impossibile ma che «deve» essere costantemente perseguito: una lotta costante della volontà etica di ciascuno contro una natura umana intrinsecamente aggressiva e distruttiva, che non può essere sconfitta per sempre e che gli uomini hanno l’obbligo – scientifico e morale al tempo stesso – di riconoscere e di rispettare. Una natura che configura gli esseri umani come dotati di un «fondo di sentimenti di ostilità e di avversione che rimane impercettibile solo in virtù della rimozione» e che è presente in ogni «rapporto emotivo sufficientemente durevole tra due persone» o tra due gruppi di persone.

Né l’amore di origine religioso, né la pura volontà etica possono unificare stabilmente in organismi sociali esseri umani differenti. L’amore per il prossimo e la volontà etica presa nella sua purezza categorica non possono essere considerati risolutivi in sé del problema del legame sociale, poiché è vero piuttosto che essi mettono in evidenza l’esistenza del problema e l’impossibilità di risolverlo, nell’atto stesso in cui vengono chiamati a risolverlo. Amore e solidarietà verso gli altri sono entrambi l’espressione di un legame già realizzato, di una volontà di unione che non rimane un semplice progetto costantemente sottoposto al rischio di fallimento. Il nostro amore e solidarietà per gli altri hanno già catturato gli altri nel rapporto con noi; essi anticipano in se stessi ciò che sono chiamati a produrre. In loro gli altri sono già con noi, in noi, e soprattutto come noi. Se la costruzione del legame sociale fosse affidato all’amore e alla solidarietà, il problema delle condizioni di possibilità di tale legame verrebbe fatto scomparire in virtù della anticipazione della sua soluzione nell’infallibilità degli «strumenti» che vengono utilizzati. Gli effetti prodotti dall’amore per gli altri mostrano chiaramente che l’amore non esercita affatto la funzione unificatoria che la retorica religiosa gli attribuisce. Ma il fallimento storico e fattuale dell’amore è già inscritto nella sua essenza concettuale, nel suo «essere un nesso» con gli altri, piuttosto che «progettarsi» come nesso con gli altri.

L’amore elimina l’intolleranza all’interno del gruppo libidico ma al prezzo dell’eliminazione della differenza tra gli uomini: in quanto si amano reciprocamente gli uomini si considerano e si vogliomo identici. Chi «ama» gli altri, li vuole identici e identicamente legati nel gruppo tenuto insieme dall’amore. L’intolleranza tra gli uomini scompare, scrive Freud, «tramite la formazione collettiva e nella massa». «Finché la formazione collettiva persiste e fin dove si estende il suo dominio, gli individui si comportano come se fossero omogenei, tollerano il modo di essere peculiare dell’altro, si considerano uguali a lui e non provano nei suoi confronti alcun sentimento di avversione». D’altra parte, si è visto, la pura volontà etica, la decisione di scegliere la politica liberale rappresenta un puro fine morale che rischia di non incontrare mai la realtà della natura psichica degli uomini. Soltanto una razionalità sobria, disposta a venire a patti con i condizionamenti dell’apparato psichico degli uomini e a riconoscerne l’aggressività può presiedere ad unità sociali pluralistiche e al tempo stesso solide.

È facile osservare, secondo Freud, che i soci litigano tra loro e che il subalterno brontola contro i suoi superiori. Ma lo stesso accade quando gli uomini sono uniti in «unità più grandi»:

Ogni volta che due famiglie si uniscono tramite vincolo matrimoniale, ognuna di esse si ritiene migliore o più distinta dell’altra. Di due città vicine, ognuna è la più malevola concorrente dell’altra; ogni piccolo cantone considera con sufficienza il cantone vicino. Stirpi strettamente imparentate provano ripugnanza l’una per l’altra, il Tedesco del Sud non può sopportare quello del Nord, l’Inglese dice tutto il male possibile dello Scozzese, lo Spagnolo disprezza il Portoghese. Il fatto che differenze maggiori portino ad un’avversione difficile da superare, come quella dei Galli per i Germani, degli Ariani per i Semiti, dei bianchi per le persone di colore, ha cessato di sorprenderci.

L’avversione e l’estraneità rispetto a chi è anche solo minimamente estraneo e differente da noi è l’espressione e la conseguenza dell’amore per noi stessi. Questo «narcisismo che tende all’autoaffermazione» viene attivato dalla «semplice presenza di uno scostamento dalla propria linea di condotta»: la semplice «presenza» di un altro che si comporta differentemente da noi viene percepita come una «critica» della nostra propria identità e del nostro proprio comportamento e come un invito pressante a modificarli. Gli altri differenti da noi ci sfidano, ci appaiono come critici di ciò che noi siamo, come nemici che ci chiedono di diventare uguali a loro, oppure di scomparire, per il solo fatto di essere altri e differenti da loro.

Come, torniamo a domandare, si può risolvere il problema del «bisogno» degli altri, differenti da noi, e al tempo stesso con noi conviventi in un ordine sociale unitario, se la natura umana possiede le caratteristiche assegnatele da Freud? Se, dunque, la natura appare non radicalmente modificabile? Lo si detto: è necessario elaborare una soluzione di «compromesso» (nel significato freudiano del termine) tra lo stare «con», lo stare «senza» e lo stare «contro» gli altri; accogliere all’interno della costruzione teorica della socialità il rischio del fallimento, senza svalorizzarlo a semplice atto di prudenza empirica; non escludere mai né il pericolo che non si riesca a realizzare compiutamente il bisogno degli altri, né che il narcisismo di ciascuno e di tutti finisca per separare le nostre società in frammenti privi di comunicazione. La differenza degli altri rispetto a noi, la differenza che ci distingue in quanto siamo tutti degli «altri» per tutti, deve, in base a questa premessa generale, essere «voluta», cioè consapevolmente ricercata e riconosciuta come parte della identità di ciascuno, che si costruisce in una lotta costante «contro» l’aggressività narcisistica, anch’essa appartenente a ciascuno di noi.

Il volere che gli altri siano appunto «altre persone» rispetto a noi non appare in quanto tale capace di valere quale atto istitutivo della morale, oltre il piano logico che presuppone l’identità degli io pensanti. Questo punto è certamente essenziale, quale ribadimento della distinzione tra pensare e fare morale da una prospettiva diversa (forse solo parzialmente diversa) da quella kantiana, in quanto basata sul nesso tra moralità e riconoscimento dell’altro (libero, tuttavia, quanto me che lo riconosco: nel che è dato di cogliere un rapporto con la ragion pratica kantiana). Tuttavia, la più profonda moralità dell’atto del riconoscimento degli altri, istitutivo della morale in quanto atto libero e creativo della libertà altrui, risiede proprio nella circostanza di implicare il rifiuto di distruggere altri che noi troviamo come «dati» di fronte a noi.

Noi facciamo essere gli altri come altri, noi moralmente li «creiamo» come altri: ma la paradossale difficoltà della morale è nella circostanza che questo atto è in sé morale solo perché gli altri restano quel che da sempre sono, appunto degli altri. Essi originariamente «esistono» nel nostro spazio vitale (non possono dunque essere realmente «creati» da noi) e in quanto realmente esistenti come diversi eccitano la nostra pulsione distruttiva. Da tale realtà, e solo da essa, può prendere le mosse la sfida che ciascuno di noi rivolge (se e quando lo fa, al fine di assegnarsi una fisionomia morale) alla propria aggressività.

La differenza degli altri rispetto a noi, la differenza tra tutti i reciprocamente «altri», deve diventare la più intima proprietà di ciascuno e di tutti, in quanto oggetto fondamentale del nostro dovere: quello in cui la volontà di mantenere l’alterità data si fonde con la decisione di resistere alla pulsione a distruggerla. La differenza deve far parte dell’identità di ciascuno e di tutti, nel senso che deve essere fatta entrare in essa. Ribadiamo tuttavia il punto centrale: se si desidera che la differenza di cui parliamo mantenga la propria valenza etica, e non si confonda né con quella che tiene distinti tra loro la molteplicità degli io che compongono l’«io molteplice», né con quella che implica la distruzione psicoanalitica dell’unità dell’io cosciente, ma neanche con l’interna socialità di ciascuno teorizzata da Giovanni Gentile, l’apertura dello spazio dell’alterità deve essere fatto derivare non da un semplice riconoscimento filosofico-pratico dell’alterità, ma da una pressione, da una sorta di «imposizione» del riconoscimento, i quali prendono avvio dalla realtà degli altri, promanano da essa. Sulla base di questi presupposti filosofici risulta chiaro che la differenza degli altri deve essere al tempo stesso elaborata psichicamente come un «problema» mai definitivamente risolto, e garantita in termini istituzionali come la premessa essenziale delle democrazie liberali. Elaborazione psichica e garanzia istituzionale delle differenze non possono che essere sempre congiunte.

In questo modo, si osservi, non definiamo affatto soltanto una «condizione» della libertà, ma piuttosto la libertà stessa. Infatti, la libertà concreta degli uomini associati prende corpo e si realizza nel punto di incontro tra le differenze tra gli uomini riconosciute e dunque «volute» da parte di ogni singolo uomo, e la eguaglianza democratica tra gli uomini. Ma dire questo, ancora una volta, non basta. Gli uomini si comportano nei loro rapporti reciproci come i porcospini a cui li paragona l’apologo di Schopenhauer, citato da Freud. I porcospini hanno freddo e si avvicinano, ma «nessuno tollera una vicinanza troppo intima dell’altro». I porcospini, come gli uomini, si avvicinano gli uni agli altri perché hanno bisogno del calore degli altri per non morire di freddo e di solitudine. Ma quando si avvicinano sentono il dolore che a ciascuno provocano le loro «spine reciproche», e dunque si allontanano per poi, spinti dal bisogno vitale, tornare ad avvicinarsi. I porcospini, come gli uomini, si sballottano avanti e dietro tra i due mali, finché non trovano una «moderata distanza reciproca», ossia quella che rappresenta la migliore posizione per ciascuno di loro.

Che cosa vuol dire che senza questa «moderata distanza reciproca» non si dà una stabile convivenza tra esseri umani differenti e che reciprocamente abbisognano della loro differenza, della loro irriducibile pluralità? Che cosa significa dire che «governare la distanza tra i differenti stili di vita» è un elemento essenziale di una vita associata libera e democratica? Che cosa, infine, significa fare del governo, anzi meglio dell’autogoverno della distanza tra gli uomini la precondizione etica della vita associata, in virtù del fatto che tale «autogoverno» consente di evitare sia l’identificazione «amorosa» con gli altri, produttiva di conflitti nei confronti di chi rimane esterno al gruppo legato libidicamente, sia la pulsione distruttiva? Non è difficile rilevare, infatti, che in entrambi i casi (quello in cui si realizza la distruzione degli altri, così come in quello in cui gli altri vengono fatti oggetto di identificazione amorosa) gli altri scompaiono, in quanto tali, dal rapporto con noi.

Ci si impone di elaborare un più complesso concetto di libertà (psicologico ed esistenziale, non solo politico e sociale, o, se si preferisce, politico e sociale ma radicato nelle condizioni effettive dell’esistenza singola) che comprenda e collochi in posizione strategica la volontà razionale di opporsi alla tendenza a considerare come una «critica» rivolta a se stessi il semplice fatto dell’esistenza di esseri umani che si comportano in maniera anche impercettibilmente diversa da noi. Al tempo stesso questo concetto della libertà implica anche il rifiuto di ogni abolizione della distanza che separa i differenti, il rifiuto dell’unità distruttiva delle differenze.

Perché parliamo di un più complesso concetto di libertà? Perché difesa delle differenze e libertà devono andare congiunte? Perché la libertà si mostra originariamente (al di qua della sua determinazione giuridica) come processo di autoliberazione, in sé sempre incompiuto, dalla tendenza all’aggressione rivolta alla differente esistenza degli altri uomini. Questa libertà liberante (o liberazione) dall’aggressività verso gli altri deve essere determinata normativamente: ma la sua base resta il darsi (se e quando si dà) di un’uguale volontà razionale di tutti, grazie a cui tutti i reciprocamente «altri» si liberano dalla loro naturale tendenza psicologica a negare le differenze. La democrazia liberale richiede che l’anima (o la psiche di ciascuno) venga consapevolmente elevata a luogo del conflitto, a campo di una lotta mai risolta e mai definitivamente risolubile tra ragione e natura.

Ragione individuale e leggi democratiche hanno il compito di contrastare la negazione della libertà degli altri, devono garantire lo svolgimento dell’azione antinaturalistica liberante. Quello che Freud chiama il «narcisismo delle piccole differenze» tende a combattere in realtà, insieme alle differenze tra gli uomini, l’eguale libertà di tutti; tende a sopprimere, o a non riconoscere, anche negli altri il possibile darsi della scelta razionale di contrastare in se stessi la propria aggressività distruttiva rivolta a tutti e dunque anche a noi stessi (a noi che siamo, come gli altri rispetto a noi, «quasi» uguali o solo un poco diversi rispetto a loro). Il «narcisismo delle piccole differenze» punta all’abolizione delle distanze tra i reciprocamente altri. Esso tende a non riconoscere il diritto di tutti i reciprocamente «altri» all’esercizio della libertà liberante (o alla liberazione) dalla propria inconscia volontà oppressiva. Perciò esso finisce per rendere superfluo, lungo un percorso dominato dall’amore e dalla solidarietà, dunque dalla vicinanza identificante, il difficile governo della distanza tra gli uomini. Il diritto – che nelle liberaldemocrazie serve alla realizzazione dell’universale condizione di vicinanza e di cooperazione tra i «distanti» – rimane sconosciuto al narcisismo delle piccole differenze, e finisce con l’essere marginalizzato quale condizione della convivenza umana.

Il narcisismo mira ad «eguagliare» gli altri a noi, togliendo loro identità, e con l’identità l’antagonismo reciproco, e la libertà, intesa originariamente come la volontà di una sempre individuale metanoia da compiersi nel foro interno, di un capovolgimento del nostro giudizio pratico ovvio, spontaneo e naturale. Esso tende ad eliminare quello che tutti i reciprocamente altri realmente sono in quanto eguali, ciò che li rende in effetti «come noi»: degli aggressori che hanno «bisogno» di coloro che aggrediscono, dei porcospini che vogliono ma non possono avvicinarsi troppo, e che tuttavia «devono» avvicinarsi, se vogliono salvare la propria identità, anzi la propria vita. L’essenziale eguaglianza che va salvaguardata è quella che unifica uomini che accettano di sottoporsi alla coazione del diritto.

Il pluralismo può essere quindi solo il frutto di un’azione sociale costantemente basata sull’azione autocorrettiva del singolo. Ogni cittadino riconosce in se stesso l’esistenza di una «identità pluralistica», di una mind in sé molteplice, tra i cui segmenti si apre lo spazio per un trade off; è in questo ambito che può aver luogo la metanoia individuale, condizione originaria di ogni «cemento della società». La correzione dell’amore narcisistico di sé non avviene, o non avviene soltanto, come sostiene Rousseau, grazie all’intervento della «pietà» verso gli altri, ma anzitutto grazie alla divaricazione in se stessi dei poli della differenza, ossia al riconoscimento del fatto che più originaria della societas in interiore homine è l’antagonismo intrinseco ad una socialità non garantita in senso trascendentale. Come presidio di questo riconoscimento deve essere posta, e costantemente ribadita, la decisione razionale di non distruggere le differenze.

4. Nel pensiero di Freud è forse possibile trovare un modello di deduzione delle differenze tra gli uomini che non ha come suo fondamento un’originaria opzione etica (capace in quanto tale di trasformare l’esistenza delle differenze nella garanzia di un ordine sociale e politico), ma che si basa invece su di un processo psicologico di disidentificazione allargantesi analogicamente dagli «altri» all’«altro» interno, a ciò che è altro dalla coscienza.

È all’interno di ciascuno, abbiamo detto, che deve essere collocata l’apertura di uno spazio della socialità (dell’alterità e della libertà). Questo non significa, tuttavia, che la socialità venga fatta vivere, e dunque venga compresa e come risolta e assorbita in ogni singolo io. L’io singolo non viene concepito come portatore di una socialità data, ma come il campo di realizzazione di una socialità possibile, che muove originariamente da una relazione di alterità estraniante. Ne consegue che il singolo io si riconosce originariamente estraneo a se stesso, che in lui socialità è non solitudine poiché è relazione in lui con un altro estraneo. L’io di cui parliamo risulta dunque capace di sopportare in sé e di riconoscere fuori di sé – negli altri che solo da questo punto di vista sono come lui – la tensione irrisolta di natura e ragione su cui la sua come l’altrui libertà trova il proprio radicamento.

Natura e ragione sono i poli originari della differenza interna ad ogni singolo individuo. In quanto si trasferisce e si replica sul piano sociale, la tensione tra natura e ragione impone di riconoscere nel rapporto con gli altri fuori di noi una soglia di non superabile estraneità. Neanche nel rapporto con gli altri natura e ragione sono destinate a trovare una composizione definitiva. Che cosa è, infatti, pensato nella sua radicalità antropologica, il fatto del pluralismo culturale su cui stiamo riflettendo? Che cosa implica l’originaria diversità delle scelte individuali, ma anche delle concrezioni culturali storiche che presiedono alla formazione e alla esistenza di gruppi etnico-culturali diversi e non unificabili?

Ciò che impedisce la fusione culturale delle differenze culturali non è esso stesso qualcosa di culturale, non appartiene all’ordine della ragione storica. La diversità tra gli individui (e all’interno di ciascun individuo la tensione tra natura-egoismo e ragione-socialità), quello che fa del pluralismo qualcosa di originariamente non reasonable appartiene all’ordine del dato di natura, al piano dell’essere, non al piano della storia né al piano del dover essere spirituale. A fondamento di ogni alterità vi è un positivo non riconoscimento degli altri, che non abbisogna di alcuna spiegazione o fondazione. Anche l’interna alterità che divarica l’animo di ciascuno è un dato originario, cui si giunge per la via analogica indicata da Freud come strumento di legittimazione dell’inconscio.

Il radicalmente altro in noi, quella estraneità che configura in modo conflittuale la nostra interna socialità, deve essere riconosciuto muovendo dal mettere in discussione l’assolutezza della ragione, da quella che in Freud è la presunzione della presenza della «coscienza» come una qualità della vita psichica che occupa l’intera anima e le anime di tutti. La scoperta della socialità come problema del legame tra gli uomini e del governo della distanza tra gli uomini quale soluzione etica e politica possibile, presuppone l’accettazione del segmento essenziale del pensiero freudiano, quello riconducibile alla legittimazione di qualcosa di assolutamente estraneo alla coscienza-ragione.

Nelle pagine della Metapsicologia dedicate alla «giustificazione dell’inconscio» Freud realizza una vera e propria deduzione psicoanalitica dell’alterità «esterna» tra gli esseri umani. Tale deduzione ruota sulla tesi della difficoltà dell’attribuzione dell’identica coscienza a tutti gli uomini, quale premessa dell’operazione dell’identificazione tra di essi e della conseguente negazione dell’esistenza di un reale «altro». Su questa argomentazione poggia la dimostrazione del punto che sta a cuore a Freud, ossia l’esistenza di un’alterità all’interno della propria persona: si tratta com’è noto della peculiare caratteristica di quegli eventi della vita psichica che, non potendo essere collegati con il resto della vita psichica cosciente, vanno considerati come se appartenessero ad un’altra persona.

L’argomentazione che conduce alla tesi che l’inconscio è in sé giustificato passa attraverso la svalorizzazione del ruolo identificante della coscienza: una cosa è infatti la certezza dell’esistenza della mia coscienza, che è certa appunto perché e solo perché io ne sono certo; altra e diversa cosa è l’esistenza della coscienza di altri da me, che sono definibili come «altri» proprio perché della loro coscienza nessun altro rispetto a ciascuno di loro può essere certo. Dunque l’attribuzione della coscienza è la condizione stessa della dimostrazione della non identità tra gli esseri umani (e, si potrebbe aggiungere, la premessa della ammissione di una forza unificante libidica tra esseri umani reciprocamente estranei, comunque non unificati dalla certezza del possesso di un’uguale coscienza). Freud ci fornisce un aiuto essenziale per la costruzione di una teoria dell’originarietà dell’alterità.

La coscienza, osserva Freud, non è il veicolo della nostra identificazione con gli altri, perché essa ci trasmette solo «la nozione dei nostri personali stati d’animo»: «che anche altre persone abbiano una coscienza, è una conclusione analogica che, in base alle azioni e manifestazioni osservabili negli altri, ci permette di farci una ragione del loro comportamento». Insomma: riusciamo a «comprendere» gli altri solo in quanto ci «identifichiamo» con loro attribuendo loro «la nostra costituzione e quindi anche la nostra coscienza». Ma ciò accade sulla base di un passaggio analogico, compiuto «senza riflettere più che tanto», alla conclusione che gli altri sono «come noi», in quanto sono come noi possessori di una coscienza identica alla nostra. Ora, quella che sembra, nell’argomentazione di Freud, la piena conferma della validità del nostro modo abituale di pensare, «generalmente ritenuto corretto», serve a dimostrare piuttosto l’opposto di quel è implicito nel comportamento psicologico quotidiano.

Freud vuol mettere in risalto sia la debolezza del solo procedimento analogico al fine dell’accettazione della identificazione con gli altri sulla base della assegnazione di un’uguale coscienza, sia e soprattutto vuol far rilevare che l’alterità degli altri è per così dire forte e originaria, e dunque resistente al meccanismo psicologico dell’identificazione. Se questo non fosse il suo scopo, infatti, non potrebbe utilizzare la differenza tra gli altri per giustificare la differenza tra psiche conscia e psiche inconscia all’interno di ciascuno. Perciò traccia uno schizzo di storia del genere umano caratterizzato dall’accentuarsi della impossibilità dell’identificazione tra il singolo individuo e gli altri. Se in passato, osserva, l’illazione che conduce all’identificazione era estesa a tutto il mondo (non solo ad altri esseri umani, ma ad animali, piante e ad esseri inanimati), da un certo momento in poi l’«altro» si discostò fino a tal punto dall’io, e dunque la differenza tra io ed altri apparve tanto originaria ed insuperabile, da rendere «inattendibile» la continuazione del processo di identificazione.

È ben comprensibile, osserva Freud, che nel caso degli altri uomini (gli «altri a noi più vicini») l’originaria tendenza all’identificazione possa superare l’esame critico – e l’identificazione apparire legittima. Eppure, anche in questo caso cruciale l’identificazione non regge, gli altri resistono nella loro alterità rispetto ad ogni singolo io che si rivolge ad essi: se, infatti, pretendiamo di ridurre gli altri ad esseri identici a noi in base alla convinzione che essi abbiano una coscienza, commettiamo l’errore di scambiare la certezza della nostra coscienza che riguarda solo noi che ne parliamo, con l’incertezza del risultato dell’illazione che attribuisce anche agli altri una (presunta) uguale coscienza.

Se questo procedimento, che – come ben si vede, nonostante la consueta rapidità dell’argomentare freudiano, che per di più non ha l’obiettivo primario, per noi invece centrale, di dimostrare l’originaria alterità degli altri – serve a contestare il diritto di ogni singolo io di identificarsi con gli altri, viene utilizzato per lo scopo per cui viene introdotto, e dunque viene esteso al singolo io, ne deriva l’apertura di uno spazio dell’alterità nell’io. Devo attribuire alla vita psichica di un’altra persona quel che nella mia vita psichica si mostra non collegabile con il resto di essa: ma poiché l’ipotesi di una «seconda coscienza» appare assai debole (il possessore della «prima» coscienza si suppone non sappia nulla della seconda che pure gli appartiene, con la conseguenza assurda di aver introdotto una coscienza «alla quale manca il requisito più importante»), più fondata appare l’ipotesi dell’esistenza in noi di «atti psichici che mancano del carattere della coscienza».

La «giustificazione» dell’inconscio, dunque, muovendo dall’ammissione dell’impossibile identificazione con gli altri esseri viventi, dunque da quella che abbiamo chiamato l’alterità originaria tra gli uomini, passa all’ammissione dell’alterità in ogni singolo ed infine giunge alla determinazione della natura non conscia di uno dei due poli in cui la vita psichica del singolo è risultata divisa. Dal rifiuto dell’ammissione del ruolo identificante della coscienza, si passa alla svalorizzazione della coscienza come unico soggetto della vita psichica.

* Testo rielaborato dell’intervento intitolato «Human rights and democratic equality», svolto al convegno «Democracy, pluralism and citizenship. Theory and experience», Montreal (Canada) 31-10 / 4-11-1996.


 

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