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Neuroscienze e natura umana


Alberto Oliverio

 

Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it

In un classico esempio formulato da John Locke nel lontano 1690, un principe e un calzolaio si scambiano i corpi, vale a dire il cervello. In conseguenza di questo scambio fantascientifico, il principe si trova a possedere le memorie del calzolaio e quest’ultimo quelle del principe: se lo scambio fosse in questi termini, il principe non sarebbe altro che un calzolaio con un corpo diverso e il calzolaio un principe...

In tempi più recenti, diversi filosofi hanno ipotizzato simili situazioni in cui un cervello viene allontanato dal suo corpo, in quanto le connessioni nervose vengono allungate artificialmente o un cervello riceve informazioni sensoriali da un computer, grazie a una mirabolante interfaccia che connette il cervello naturale a quello artificiale: ma anche nell’immaginario cinematografico, ad esempio nel film Total Recall, è stata presa in considerazione l’idea di trasferire (impiantare) false memorie nel cervello di una persona, in tal modo alterandone l’identità. Si tratta di artifizi dei filosofi che, attraverso ipotetici casi paradigmatici si pongono domande sulla natura della mente, di divertenti ipotesi fantascientifiche o di qualcosa di più vicino alla realtà? In altre parole, è possibile che le neuroscienze siano prossime ad intervenire sul cervello – e quindi sulla mente – e che ciò non abbia soltanto ricadute di tipo biologico ma investa anche la nostra concezione della natura della mente e abbia implicazioni di tipo etico? Ma oltre a questo interrogativo, che vedremo quanto sia ipotetico o verosimile, è però opportuno formularne un secondo: è possibile che le conoscenze in ambito neuroscientifico abbiano un impatto sul modo con cui guardiamo alla natura umana e, di conseguenza, anche sull’etica?

Per quanto riguarda il primo punto, relativo alla capacità delle neuroscienze di incidere sul cervello, esso rivela un aspetto bivalente e ambiguo delle nostre concezioni della mente e del cervello: in linea di massima siamo infatti più propensi ad accettare una dimensione biologica della mente nell’ambito della patologia del sistema nervoso, meno propensi quando guardiamo alla sua fisiologia. Siamo, ad esempio, pronti a ritenere che il temperamento di una persona possa mutare a seguito di un trauma, di un tumore o di una qualche patologia che colpiscono il sistema nervoso, così come ammettiamo che la memoria o l’intelligenza di una persona possano deteriorarsi a causa dell’arteriosclerosi, di malattie come il morbo di Alzheimer, della sindrome di Korsakoff, una patologia legata all’intossicazione cronica da alcol. In questi casi accettiamo l’esistenza di un nesso causale tra funzioni cerebrali (impedite) e funzioni mentali (alterate) così come l’accettiamo per alcuni aspetti delle malattie mentali (ad esempio la depressione) o dei rapporti tra droghe o farmaci psicotropi e comportamento: tant’è che l’alterazione delle funzioni mentali che deriva dall’avere assunto psicofarmaci o droghe viene interpretata, anche per i suoi risvolti giuridici, come una riduzione o alterazione della coscienza e del libero arbitrio.

In tutti questi casi, l’esistenza di una correlazione tra la componente psicobiologica e quella mentale viene accettata e spiegata in rapporto all’esistenza di lesioni, di alterazioni del metabolismo, di variazioni della funzione dei mediatori nervosi alla base dei livelli di vigilanza, degli stati umorali, dell’autocontrollo e via dicendo. Anche l’azione di alcuni ormoni viene considerata in termini simili, purché i loro effetti riguardino situazioni particolari, in cui il ruolo di chi li assume è in qualche modo legato a una situazione a sé stante, in qualche modo al di fuori della quotidianità delle persone comuni: ad esempio, ammettiamo che la somministrazione di ormoni maschili renda i calciatori più aggressivi, che il doping possa scatenare un pugile, che gli amfetaminici spingano all’azione i soldati, come è avvenuto in larga scala nell’ultimo conflitto mondiale, ma in qualche modo riteniamo che queste correlazioni tra la manipolazione biologica e il comportamento esulino dalle condizioni ideali in cui agisce, o dovrebbe agire la mente...

Consideriamo ora un passo successivo: come giudichiamo o giudicheremmo un’alterazione biologica rivolta a curare una malattia degenerativa del sistema nervoso attraverso l’utilizzazione di materiale biologico omologo o eterologo, proveniente cioè dal nostro stesso organismo oppure da un donatore appartenente alla specie umana o ad un’altra specie animale? L’ipotesi è tutt’altro che retorica in quanto interventi simili sono già stati effettuati a livello sperimentale, in particolare su persone affette da una malattia degenerativa del sistema nervoso, il morbo di Parkinson. Questa malattia è dovuta alla graduale degenerazione dei neuroni dopaminergici (che utilizzano il mediatore nervoso dopamina) dei cosiddetti nuclei della base del cervello, nuclei che hanno il compito di assicurare movimenti corporei fluidi ma che hanno anche effetti sull’emozione: le terapie farmacologiche possono risultare inefficaci dopo qualche tempo e si stanno sperimentando tre tipi di interventi basati sull’impianto di neuroni dopaminergici che si basano sull’uso di neuroni provenienti dalle ghiandole surrenali dello stesso individuo, sull’uso di cellule provenienti da tessuti di origine fetale (cioè da un altro organismo) e, infine, sull’uso di cellule animali geneticamente modificate.

I risultati, abbastanza positivi nel corso della sperimentazione animale, sono invece ancora dubbi nell’uomo: ma resta il fatto che essi implicano una «sostituzione» di cellule nervose, sia pure al fine di reintegrare una funzione deteriorata. Altre ricerche riguardano la possibilità di intervenire, con strategie simili, sui circuiti nervosi di tipo colinergico (il cui mediatore nervoso è l’acetilcolina) che si deteriorano in maniera progressiva e irreversibile nel morbo di Alzheimer, una malattia della vecchiaia che comporta una progressiva perdita di memoria e uno stato di demenza: in questo caso, l’eventuale «trapianto» cellulare non riguarderebbe circuiti implicati in funzioni motorie (e quindi più meccaniche e banali) ma circuiti implicati in funzioni cognitive. Se simili interventi venissero praticati, e con successo, quali sarebbero le loro ricadute riguardo ad alcuni aspetti della filosofia della mente, per esempio di concetti quali i rapporti mente-cervello, il Sé, l’identità?

Hilary Putnam (1981) si pone un interrogativo simile a quello formulato da Locke sullo scambio di corpi tra un principe e un calzolaio: egli immagina che un cervello venga disconnesso dal corpo e, attraverso quello che potremmo definire un meccanismo di circolazione extracorporea, venga mantenuto in vita e, anziché ricevere informazioni dai sensi – fatto impossibile dato il tipo di «intervento» – riceva informazione da un computer con cui è interfacciato. Putnam si propone di chiarire quale sia la differenza tra sensazioni (informazione) e stati mentali ed utilizza a questo fine il suo esempio «fantascientifico»: eppure la possibilità di far pervenire l’informazione al sistema nervoso tramite un’interfaccia di tipo informatico non è ormai talmente fantascientifica, almeno per quanto riguarda alcuni casi. Ad esempio, alcune protesi acustiche utilizzate in persone affette da sordità si basano sul principio di utilizzare un piccolo computer per trasformare i suoni provenienti da un microfono in impulsi elettrici e di inviare questi impulsi direttamente al nervo acustico (all’interno del cranio) attraverso una serie di minuscoli elettrodi impiantati in diversi punti di origine delle fibre nervose: in questo caso il cervello prova sensazioni (uditive) tramite un computer, una macchina influenza in modo diretto la fisiologia nervosa.

Simili esperimenti sono allo studio per ovviare a quei tipi di cecità che derivano da lesioni della retina o dell’occhio. Qualcosa di analogo viene sperimentato per ciò che riguarda il midollo spinale al fine di riparare le sue lesioni che, in caso di incidenti che comportino la sezione delle fibre che collegano i muscoli e i territori periferici al cervello, comportano forme di paralisi irreversibili. Il blocco della conduzione degli stimoli nervosi tra i due monconi del midollo spinale dipende, in gran parte, dalla formazione di un tessuto cicatriziale attraverso cui il midollo, come altri organi somatici, tenta di riparare la lesione. Per ovviare a questo blocco, in alcuni tipi di «protesi», ancora in fase sperimentale si tenta di captare, con sottili elettrodi, gli impulsi nervosi che dal cervello arrivano sino al punto della lesione del midollo, di inviarli a un computer che li decodifichi e trasformi in impulsi elettrodi in grado di eccitare i nervi situati al di sotto della lesione o i muscoli altrimenti paralizzati. In sostanza si tratta di un tipo di interfaccia simile a quello utilizzato per captare le informazioni sensoriali: in quest’ultimo caso si tratta di utilizzare un’interfaccia elettronica per trasformare l’informazione in stimoli diretti al cervello, nel caso del midollo spinale si tratterebbe di un’interfaccia attraverso cui il cervello riprende i contatti motori col corpo.

Si potrà dire che la possibilità di intervenire sulle informazioni sensoriali e, forse, su quelle motorie non implica che venga modificata la mente, che vengano alterate le sue caratteristiche fondamentali, ad esempio la sua capacità di giudicare, cogliere significati, provare emozioni: eppure questi esempi indicano come sia possibile simulare o alterare alcuni aspetti delle funzioni cerebrali, come, ad esempio, nei – discussi e discutibili – esperimenti realizzati dalla neurofisiologa Mary Brazier negli anni Sessanta, in cui ad alcune persone sono stati impiantati, oltre ad elettrodi per controllare gravi forme di epilessia, anche elettrodi in grado di stimolare quei «centri del piacere» che Olds e Milner (1954) avevano a suo tempo descritto negli animali. Cosa implicano allora questi studi e queste elevate capacità delle neuroscienze moderne? Non certo, come si è detto, la capacità di intervenire sui contenuti della mente realizzando quello scambio di corpi o cervelli ipotizzato da John Locke e da altri filosofi, ma una qualche capacità di modificare stati mentali (ad esempio le sensazioni di piacere) e funzioni nervose attraverso un intervento esterno, come d’altronde avviene in modo ancor più evidente attraverso l’impiego di psicofarmaci: questi possono alterare stati umorali, ad esempio contrastare una forma di depressione o di grave ansia e, così facendo, possono anche contribuire ad alterare il «colore» dell’esperienza e dello stare al mondo in quanto, giorno dopo giorno, possono far percepire la realtà in modo diverso da quella che sarebbe stata la percezione usuale da parte di una persona caratterizzata da un particolare temperamento sulla base della sua natura o di particolari esperienze.

Ancora più sottile è il caso del farmaco che interviene sui mediatori nervosi e modifica l’umore, rendendo meno ansiosi, depressi o «di buon umore»: ciò porta spesso ad affermare che l’essere felici o infelici non sia altro che uno stato biochimico, i livelli più o meno elevati di una particolare molecola, in tal modo confondendo uno stato umorale con un atteggiamento più o meno motivato nei riguardi della realtà, confondendo il tipo di umore con le sue connotazioni e minimizzando il ruolo dell’esperienza. Nel caso degli psicofarmaci, però, la situazione è più complessa rispetto ad altri tipi di interventi sulla funzione del sistema nervoso, quali possono essere quelli basati sull’interfacciamento computer-cervello: si potrebbe infatti sostenere che una modifica del tipo di stato umorale, rendere una persona più calma anziché ansiosa o più attiva e fiduciosa anziché depressa, può avere effetto sul modo in cui si guarda alla realtà, si valutano le esperienze, si intrattengono rapporti sociali eccetera. Insomma, modificare l’emozione e l’umore può in effetti significare una trasformazione del tipo di stati umorali ed emotivi: ma il potere di modificare alcuni stati mentali non corrisponde a una «trasfusione» di stati mentali, vale a dire alla possibilità di alterarne dall’esterno i contenuti. È sempre la persona la cui funzione mentale è stata alterata ad essere al centro di una – diversa – interpretazione della realtà, di diversi desideri, credenze, aspettative. Semmai, la possibilità di manipolare la funzione nervosa dall’esterno può essere considerata in termini di libero arbitrio o di etica: nel caso specifico, dei limiti dell’autonomia del mentale rispetto al fisico e dei limiti di attuazione di questi interventi.

Pur senza alterare quegli aspetti della mente che sono alla base della nostra individuale concezione del mondo, ad esempio memorie, credenze, desideri, significati, le neuroscienze possono quindi intervenire su alcuni aspetti fondamentali dei rapporti con la realtà, al punto da suggerire alla fantasia del singolo o a quella collettiva che sia possibile trasfondere in modo artificiale, attraverso sofisticate manipolazioni, memorie e concezioni del mondo nel cervello o mente di una persona – il caso contemplato da Locke – o che le basi nervose di alcune funzioni nervose o mentali coincidano con queste ultime. Questo modo di guardare ai comportamenti e alla mente umana è oggi tutt’altro che infrequente e viene potenziato dalla forza di convinzione visiva esercitata dalle odierne immagini funzionali del cervello, ben più immediate e suggestive delle vecchie mappe della topografia cerebrale. Ad esempio, attraverso la PET – tomografia ad emissione di positroni – è possibile evidenziare le aree del cervello più attive rispetto alle circostanti: il movimento di una mano è correlato da una maggiore attività – un colore più acceso nella rappresentazione visiva tramite il computer – della corteccia cerebrale, il tentativo di rievocare un ricordo implica un aumento dell’attività della corteccia frontale, un’emozione una maggiore attività del sistema limbico e così via: nel guardare queste immagini funzionali del cervello potremmo ritenere che un ricordo non sia altro che un’attivazione della corteccia frontale, un’emozione un’attivazione dei nuclei del sistema limbico e via dicendo, sulla base di un neo-meccanicismo favorito dall’enorme potenziale e suggestione delle tecniche di visualizzazione cerebrale (o Brain imaging).

Quale può essere l’impatto delle crescenti conoscenze nel campo delle neuroscienze e della loro indiscutibile capacità di fornire una – limitata – riduzione della mente alle sue basi fisiche sull’immagine dell’uomo? Questo tema è stato affrontato, anni or sono, da una filosofa, Margaret Boden (1990), che si è domandata quali effetti possano avere sulle concezioni della natura umana le nuove conoscenze che derivano dal campo dell’intelligenza artificiale e della robotica. È possibile, si chiede Boden, che in futuro i nostri valori possano avere come punto di riferimento il campo dell’intelligenza artificiale e che un neo-meccanicismo induca una svalutazione di quei valori legati all’individualità e alla persona che rappresentano il fondamento dei valori umani? Questo interrogativo può essere esteso ad altri ambiti, a una concezione essenzialmente neurobiologica della mente, a una dimensione essenzialmente psicofarmacologica della terapia, insomma a un riduzionismo mentale totale improntato a una dissociazione tra realtà materiale e significati.

Dare risposta a questi interrogativi non è facile, soprattutto quando ci si confronta con quanti sostengono che la non accettazione di un riduzionismo totale coincide con il rifiuto di un approccio scientifico, monista, sgombro da pregiudizi e sovrastrutture mentali. Queste obiezioni, in realtà, si basano su una concezione riduttiva e semplificante della biologia, delle scienze della psiche e della mente: esse non tengono conto, ad esempio, dell’esistenza di una forte individualità delle strutture nervose e funzioni mentali, dei meccanismi di plasticità che spaziano da «banali» funzioni quali la motricità a funzioni più complesse quali la memoria, delle diverse strutture o strategie attraverso cui può emergere una particolare funzione mentale, dell’esistenza di diversi stati di coscienza, di fenomeni mentali inconsci e via dicendo. Le stesse obiezioni non tengono in sufficiente conto l’esistenza di una tendenza generale della mente a interpretare un insieme di informazioni nell’ambito di un generale contesto di riferimento, di significati che investono sensazioni, percezioni, pulsioni, attività oniriche, memorie, credenze, desideri (Oliverio, 1998).

Se la mente viene oggi percepita in termini essenzialmente neuroscientifici, psicologici, cognitivi, connessionistici, fenomenologici o informatici, vale a dire attraverso una sola ottica, ciò è anche dovuto al fatto che neuroscienziati, psicologi e filosofi stentano a parlare un comune linguaggio e spesso ignorano, a causa della vastità dell’informazione e delle difficoltà di abbandonare un particolare punto di vista, raggiungimenti delle altre discipline che porrebbero in crisi un’interpretazione di comodo o che l’arricchirebbero di nuove dimensioni. In quest’ottica, la biologia potrà contribuire a una più articolata conoscenza dei fenomeni mentali se tiene conto dell’esistenza della loro dimensione soggettiva – e quindi dell’esistenza di schemi generali, atteggiamenti e significati – se presterà attenzione alla dimensione individuale, neurobiologica e comportamentale, alle deviazioni dalle cosiddette «leggi» anziché ai fenomeni normativi.

 

Bibliografia

M.Boden, The philosophy of artificial intelligence, Oxford University Press, Oxford 1990, pp. 67-88.

J. Olds-P. Milner, Positive reinforcement produced by electrical stimulation of septal area and other regions of rat brain, «Journal of Comparative and Physiological Psychology», 47, 1954, pp. 419-427.

A.Oliverio, L’arte di ricordare, Rizzoli, Milano 1998.

H.Putman, Representation and reality, MIT Press, Cambridge, MA. 1988. 


 

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