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Giordano Bruno quattro secoli dopo


Eugenio Garin


Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it

 

Se in questa seconda metà del secolo l'interesse per Giordano Bruno è andato crescendo in Italia e fuori ciò si deve al fatto che è venuto cambiando il modo di avvicinarlo, di leggerlo, di valutarne gli aspetti. Attraverso le sue pagine si è venuto spesso scoprendo un volto non sospettato, è giunto a noi un messaggio nuovo, collocato diversamente in un contesto inedito. La sua parola così efficace, così suggestiva ritrovando il senso originario ha spesso riconquistato una forma imprevista; non più tradotta in linguaggi non suoi, restituita alle sue origini, la sua parola è diventata interlocutrice in un dialogo autentico, ci aiuta a conoscere più profondamente in tutta la sua diversità il tempo in cui si è mossa. Solo in apparenza si è fatta più lontana in realtà ci aiuta a capire in un dialogo autentico fra diversi i nuovi problemi che è venuta proponendo e i nostri problemi che sono tanto diversi ma che ne sono scaturiti. Al posto di uno Spinoza in formato ridotto a cui una certa storiografia ci aveva abituato scopriamo oggi un pensatore forse non meno grande, sempre tormentato e lacerato. Non l''amor intellectualis in deum' ma come Atteone che quando finalmente raggiunge e vede la Diana ignuda è divorato dai cani, pensieri di cose divine, è una citazione di Bruno.

Nelle considerazioni che verrò facendo cercherò di mettere a fuoco per un verso questo cambiamento d'orizzonte come si è venuto verificando su piani diversi anche se alla fine convergenti, dalle verifiche e dalle acquisizioni testuali alla correzione di fraintendimenti antichi, dalle nuove conoscenze intorno alla sua vita tempestosa e drammatica a una più rigorosa e fruttuosa lettura di pagine già ben note. Per un altro verso cercherò di indicare in Bruno colui che propose consapevolmente una filosofia nuova così come Galileo delineava una scienza nuova.

Prendo l'avvio da un ricordo lontano. Augusto Guzzo, amico indimenticabile, fu studioso benemerito di Bruno e non a caso anche di Spinoza. Un suo libro I dialoghi del Bruno uscito nel 1932 fu senza dubbio un'introduzione chiara agli scritti italiani, anche se ben difficilmente oggi noi potremmo accettare in un'opera di insieme la rigorosa astinenza che Guzzo si impose da ogni confronto con gli scritti latini, astinenza a cui del resto Guzzo stesso rinunciò anche nella sua edizione nei classici Ricciardi di parecchie opere bruniane italiane e latine. Nel 1948, nel quarto centenario della nascita come si legge nel frontespizio, Guzzo pubblicò un grosso fascicolo di un centinaio di grandi pagine fittissime su tutto Bruno, opere latine comprese, trovandosi subito davanti al complesso problema degli scritti di mnemotecnica, ossia di libri compositi ma fondamentali per intendere qualsiasi momento dell'opera del Bruno. Tale appunto il De umbris idearum in cui un recente studioso, dotto e penetrante ha visto, a mio giudizio a ragione, profilarsi una parte rivelante di tutta la tematica del pensiero del Bruno.

Orbene anche Guzzo che lo lesse con cura ne fu colpito e vi si soffermò sia pure per un momento intuendo che si trattava di una cosa importante. In ciò, anzi, riuscì a sopravanzare probabilmente quel grandissimo studioso di cose bruniane che fu Felice Tocco e che proprio in questa accademia lesse pagine particolarmente preziose sulle fonti più recenti del pensiero di Bruno. Tocco tuttavia pur avendo visto chiaro in tante cose non solo non colse il valore teorico dell'arte della memoria del Rinascimento, ma nemmeno si rese conto del peso che certi temi ebbero sempre in Bruno. Guzzo non avrebbe scritto mai la battuta di Tocco 'rimpiango il tempo perso e la fatica durata a leggere tanti testi e tante pagine'. Purtroppo però alla fine neppure lui riuscì a vedere nell'arte della memoria qualche cosa di diverso da un artificio da ciarlatani. "Uno dei segreti", è Guzzo che parla, "è forse il più spiccio che Bruno prometteva di rivelare ai possibili suoi clientiche gli chiedevano l'insegnamento dell'arte della memoria".

In compenso, continuava a insistere Guzzo, sull'orgia di fantasia che gli sembrava il De umbris idearum sovrabbondante al punto, a parere suo, da sopraffare del tutto la vita speculativa dell'opera. Nel De umbris idearum, è sempre Guzzo che parla, l'immaginazione non ha più freno, popola l'intero orizzonte di figure tratte dal mondo della natura e da quello della cultura specialmente classica ma soltanto greca e romana. Egli dice di attingere a Teucro Babilonese, ma certamente è sua la forza fantastica con cui scrive. Quindi, dopo avere riportato a lungo una serie di testi, che del resto traduce con molta eleganza, Guzzo soggiunge: "Figure simili le ha riportate, si affollano per ben dodici pagine". E commenta: "E' vero che le scritture rinascimentali fioriscono spontanee di immagini e che solo una gran disciplina portò il Seicento a una sorta di ascetismo della ragione in Galileo, ma tra quelle scritture rinascimentali, le bruniane hanno una densità fantastica non casuale nello Spaccio il richiamo alle grandi pitture murali del tardo Cinquecento è esplicito, il domenicano di Nola vissuto tanti anni tra chiese e conventi aveva negli occhi quell'immensa richezza di figure e la mobile e potente fantasia ne immaginava un popolo innumerevole".

Fin qui Guzzo. Così Guzzo nel '48 e poi di nuovo nel '60, nella grande monografia su Giordano Bruno, quando ormai erano state indicate le fonti che Bruno copiava alla lettera, quelle tredici pagine, dimostrazione della fantasia di Bruno, sono copiate. Bruno certo ebbe fantasia a volte straordinaria e stupenda ma con radici e valenze probabilmente diversissime da quelle indicate dal Guzzo, e quindi da inserirsi in altri contesti culturali, nello stesso Spaccio della bestia trionfante citato da Guzzo, egli sembra riprendere non le pitture murali tardo cinquecentesche di chiese e conventi meridionali, ma l'orgia figurativa e l'ispirazione morale di fondo del Momus di Leon Battista Alberti che Cosimo Bartoli aveva liberamente rilanciato in volgar fiorentino proprio nel 1568 a Venezia. Bruno va a Venezia nel 77, ci sta, ci stampa, un legame questo con Leon Battista Alberti, con un certo Leon Battista Alberti, che io vado indicando da anni e che, se non erro, finalmente ora è stato ripreso da Fumaroli in Francia. Ma più impressionanti proprio quelle dodici pagine del De umbris idearum su cui nel 1948 Guzzo indugiava come su cose caratteristicamente bruniane e quasi barocche, ma che in verità non sono di Bruno, ma citazioni letterali delle ben note immagini astrologiche dei decani attribuite a Teucro Babilonese e che Bruno copiava dal De occulta filosofia di Cornelio Agrippa e che erano state diffuse in occidente fin dal Medioevo da Albo Masar.

Guzzo insisteva a lungo e con efficacia innegabile: "Questa impressione d'eccesso", è Guzzo che parla, "di sproporzione, di esaltazione smodata, di eccitazione malsana che presso taluni diventava accusa di impostura e vanità, questa impressione di stupore e insieme di disagio non si toglie e, senza dubbio, nel riprendere certi temi astrologici e magici c'è in Bruno anche il compiacimento di ripresentare una ridda di immagini, di popolare quello che la nuova scienza vedrà come l'infinito universo e mondi con le creature di una fantasia remota, quella degli antichi astrologi rinnovata dagli incubi e dalle minacce degli astrologi medievali". Guzzo citando perfino Hegel oppone al presunto entusiamo bacchico e barocco di Bruno i nostri gusti di asciuttezza razionale e di severità, di sobrio linguaggio scientifico, ma dimentica che lo scopo ultimo di Bruno è proprio quello di far giustizia di "un mondo costruito", è Bruno che parla adesso, "secondo l'immaginazione di stolti matematici", matematici qui sta per astrologi, "e accettato da non più saggi fisici tra i quali gli peripatetici sono i più pazzi". Ciò è, vero, queste famigerate tredici pagine vengono dal più lontano medioevo. Comunque lì nel De umbris idearum, non c'erano certamente virtuosismi di gusto barocco, ma citazioni di immagini astrologiche in trattazioni mnemotecniche che semmai per qualche aspetto potrebbero far pensare a fortunate opere del Cinquecento Faccio solo l'esempio di quelle di Giulio Cammillo del Minio che non a caso ebbe tanta fortuna oltre che in Italia proprio alla corte del re di Francia e che cercò di operare una specie di sintesi fra eredità di Pico e di Ficino, tematiche cabalistiche ed ermetiche, mnemotecniche e magia.

Ricordo comunque che fra il 1949 e il 1950 a più riprese, erano già parecchi anni che mi occupavo di queste cose, richiamai l'attenzione sulla fonte astrologica ed ermetica di Bruno insistendo sul debito del De umbris idearum, nei confronti di Cornelio Agrippa e documentandolo. Nel 1950, scrivendo a lungo su Belfagor dell'amico Luigi Russo, sottolineai con particolare insistenza il peso che temi ermetici e magici attraverso lettori eccezionali come Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola avevano avuto sul pensiero del Cinquecento e proprio su Bruno, la necessità di una precisa messa a fuoco delle geniali rielaborazioni bruniane non deve infatti far dimenticare le molte connessioni con opere di Ficino e di Pico dal commento pichiano a una canzone d'amore con tutta la sua splendida teologia poetica ai ficiniani libri della vita, dal libro dell'amore del Ficino al commento all'inizio del Genesi fatto da Pico. Fu allora che le mie ricerche si incontrarono con quelle che contemporaneamente veniva conducendo in Inghilterra Frances Yeats, i cui lavori su Florio e su Bruno a Oxford mi aveva già indicato e fatto leggere il mio maestro Ludovico Alimentani che aveva a lungo studiato Bruno e che aveva battuto sulla necessità di un commento puntuale degli scritti bruniani di cui aveva dato esempi cospicui.

Era già vivo in lui, come nella Yeats e in me, innanzitutto il bisogno di una nuova lettura dei testi di Bruno, di tutti i testi, latini e italiani insieme, editi e inediti e dei documenti, una lettura che ha cominciare dall'esame linguistico ricostruisse fedelmente tutta la biblioteca di cui Bruno si era servito approfondendo sviluppi e oscillazioni contatti e influenze. Fra gli anni Trenta e gli anni Quaranta avevo studiato intensamente l'ultimo Trecento e il Quattrocento, Giovanni Pico della Mirandola e il rilancio della Cabala, importantissimo, magia e astrologia, neo-platonismo ed ermetismo. Dopo il Cinquanta gli incontri e gli scambi di idee che ebbi frequenti con sFrances Yeats, specialmente a proposito di alcuni temi bruniani, dall'ermetismo alla magia, mi confermarono nell'ipotesi, che ero venuto formulando da tempo, su alcuni aspetti del rinnovamento della filosofia fra Quattrocento e Cinquecento, con echi numerosi e conseguenze profonde lungo il Seicento fino al Settecento, pur non condividendo molte delle idee, delle ipotesi della Yeats il consenso fu notevole su non poche e non trascurabili questioni.

Nel 1964, quando pubblicò il suo fortunatissimo Giordano Bruno e la tradizione ermetica, che ha avuto una diffusione enorme dappertutto, Frances Yeats ebbe la gentilezza di sottolineare i punti in cui le nostre ricerche erano venute a convergere e con risultati validi. Si era trattato, in realtà, di rimettere in discussione tutta la complessa tensione del pensiero europeo quattro-cinquecentesco col distacco nettissimo dall'aristotelismo del Trecento nell'intreccio fra istanze scientifiche emergenti sotto l'influenza dei grandi classici ristudiati e ritrovati, da Archimede a Tolomeo e il fervido rilancio di neoplatonismo e ermetismo col loro alone mistico magico in un inquieto rapporto fra proposte scientifiche profonde e ardite visioni filosofiche aperte a tutte le tentazioni, non escluse le seduzioni cabalistiche rilanciate in Europa soprattutto da Giovanni Pico della Mirandola e dal Roicklin. Vorrei sottolineare un particolare, a mio parere importante, che dalla metà del Cinquecento le opere di Giovanni Pico della Mirandola escono insieme, stampate insieme in un unico volume col De arte cabalistica del Roicklin.

Quanto poi a Bruno si trattava di restituirlo al mondo che solo fu suo, al mondo di Cusano, di Ficino, di Pico e dei loro autori. Si trattava di rivederlo come insieme così vicino e così lontano da Copernico e da Keplero che, non dimentichiamolo, quando uscì il Sidereus nuncius non si stancò di rimproverare a Galileo di non aver indicato Bruno fra coloro che lo avevano preceduto nella concezione del mondo. In realtà, a parte le ovvie ragioni di prudenza che invitavano Galileo al silenzio, la scienza e la filosofia di Galileo erano una cosa ben diversa dalla filosofia e dalla magia di Bruno. Ma Keplero coglieva con grande penetrazione che tutt'e due appartenevano ai tempi nuovi oltre la grande trasformazione del Quattro e del Cinquecento.

Erano, se vogliamo servirci di termini d'uso un po' equivoci, le prime grandi prese di posizione rivoluzionarie dei tempi moderni e lo erano già nel linguaggio, nella forma letteraria oltre che linguistica. Lo furono nella tragedia che investì Bruno come Galileo, diversa per molti lati, ma nel fondo analoga. Affossavano entrambi un modo di concepire la realtà, l'uomo e il suo sapere, rinnovavano entrambi la scienza e la filosofia, la ricerca scientifica e la concezione del mondo e dell'uomo, la sua morale. Non a caso le loro idee continuarono a fermentare su piani e in modi diversi talora condannate e di nascosto, ma sempre tese verso il futuro. Come Bruno scriveva alla Signora Morgana, sua Signora sempre onoranda: "Qualunque sii il punto di questa sera che aspetto, se la mutazione è vera io che sono nella notte aspetto il giorno". E soggiungeva: "Con questa filosofia l'animo mi s'aggrandisce e si magnifica l'intelletto".

Quando Frances Yeats ha insistito sulla lunga e profonda circolazione dell'ermetismo bruniano così forte fino ai tempi di Toland e di Leibniz sebbene in modi talora discutibili ha colto nel segno a proposito del peso che certe concezioni ebbero sul primo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico moderno. Così diversa da quella tradizionale l'impostazione della Yeats ha contribuito non poco a restituire tutto il suo varoipinto significato a una figura così complessa come quella di Bruno collocandola accanto a quelle non meno singolari di Pico della Mirandola o di Paracelso e riscoprendo senso e funzione ai sogni magico-alchimistici e cabalistici. Proprio per questo se è giusto vedere i limiti di certe tesi e perciò ridimensionare il successo che esse hanno forse troppo a lungo conosciuto, è oggi necessario riconoscerne la funzione rinnovatrice e non dimenticare quanto il libro del '64 su Bruno e l'ermetismo abbia giovato proprio a questa nuova stagione degli studi bruniani.

Non andrà tuttavia neppure dimenticato che l'opera maggiore della Yeats e cioè la monografia del 6'4 è stata in realtà un effetto e non una causa di tutto un nuovo avvicinamento al pensiero bruniano. Nuova infatti in genere la valutazione e l'interpretazione stessa della cultura filosofica e scientifica del Quattrocento ad essa sottesa. Nuove le preoccupazioni filologiche e la lettura dei testi, nuove le considerazioni linguistiche e il confronto tra produzione italiana e latina. A tutto questo doveva pensare in qualche modo anche Giovanni Aquilecchia quando nel 1971 ha parlato giustamente di una ripresa inaspettata nella seconda metà di questo secolo del tentativo fine Ottocento di ricostruzione del pensiero e dell'opera del Nolano. Scriveva Aquilecchia intorno alla metà del secolo ventesimo la critica bruniana più matura ha riaperto la via mediante la riesumazione di nuovi testi e documenti ad una interpretazione oggi storicamente verificabile della vicenda e dell'opera bruniana ripudiando le facili, ma suggestive formulazioni di ispirazione ideologica.

Quando nel 1950 venne pubblicata la memoria del giovane Giovanni Aquilecchia sulla lezione definitiva della Cena delle ceneri di Giordano Bruno non si aprì soltanto una nuova stagione di studi sul testo delle opere italiane del filosofo, prese allora l'avvio un diverso accesso all'analisi della genesi e dello sviluppo del testo e quindi di tutto il pensiero bruniano. A Bruno e alla sua conoscenza, specialmente nel periodo inglese, ma non solo in quello, Aquilecchia avrebbe poi dedicato una vita con risultati decisivi allora imprevedibili compreso il ritrovamento di testi prima sconosciuti. La recente edizione in volume delle sue schede bruniane mostra, ma solo in parte, quanto chi studia Bruno e i problemi bruniani gli debba e non soltanto di scoperte, ma di stimoli, di suggerimenti, di inviti a ritrovare in movimento un uomo e un opera di eccezionale singolarità.

Credo che la consapevolezza crescente della necessità di studiare in modo approfondito già il linguaggio bruniano, l'italiano di Bruno, sia stata stimolata in molti, me compreso, anche dalla riflessione su osservazioni e commenti proprio di Aquilecchia.Da qui ha preso corpo il progetto di un lessico di Giordano Bruno, un lessico filosofico del Bruno italiano capace di mettere in evidenza quello che in Bruno era stato un programma linguistico preciso, consapevole, chiaramente espresso in un testo ben noto lucido insieme duramente polemico. L'epistola esplicatoria dello Spaccio della bestia trionfante, indirizzata al Sidney. "La lingua nuova di Giordano", è Bruno che parla, "non ha nulla a che fare con quella dei grammatici che in tempi nostri grassano per l'Europa. Giordano non ha nulla da spartire con la poltronesca setta dei pedanti che insegnano che la natura è una puttana bagascia, che la legge naturale è una ribalderia che giudicano atto di religione e di pietà sopraumana pervertire la legge naturale.

La lingua nuova di Giordano, il suo robusto e franco volgare è nuovo come la sua dottrina, è di nuovo Bruno che parla. Giordano parla per volgare nomina liberamente, dona il proprio nome a chi la natura dona il proprio essere, non dice vergognoso quel che fa degno la natura, non copre quel che essa mostra aperto. Chiama il pane pane, il vino vino, il capo capo, il piede piede ed altre parti di proprio nome. Agli miracoli per miracoli, le prodezze e maraviglie per prodezze e maraviglie, le verità per verità, la dottrina per dottrina, la bontà e virtù per bontà e virtù, l'impostura per impostura, gli inganni per inganni, il coltello e fuoco per coltello e fuoco, le parole e i sogni per parole e sogni, la pace per pace, l'amore per amore. Stima gli filosofi per filosofi, i pedanti per pedanti, i monaci per monaci, i ministri per ministri, i predicanti per predicanti, le sanguisuge per sanguisughe, i disutili, montanbanco, ciarlatani, bagattellieri, barattoni, istrioni, pappagalli per quello che dicono, mostrano, fanno e sono, ma agli operai benefici, sapienti ed eroi, per questo medesimo. Orsù, orsù questo come cittadino e domestico del mondo, figlio del padre sole e della terra madre perchè ama troppo il mondo, veggiamo come costui debba essere odiato, biasimato, perseguitato, spento. Ma in questo mentre non stia ozioso nè male occupato sull'aspettar della sua morte, della sua trasmigrazione, del suo cambiamento".

Cominciato nel '69 per iniziativa di vari bruniani, il lessico di Giordano Bruno, opera di un giovane e valente studioso del filosofo, dopo dieci anni di lavoro vide la luce nel 1979 in due massicci e grossi volumi ed ha costituito non solo uno strumento insostituibile per penetrare a fondo nell'opera del Nolano, ma anche un mezzo per sorprenderne il continuo lavorio di discussione con se stesso. Non solo: già nella elaborazione proprio il lessico italiano ha fatto sentire sempre più forte l'esigenza di mettere a fuoco il rapporto tra scritti italiani e scritti latini ritrovando nell'articolata unità di fondo la tradizionale separazione accompagnata da una molto minore frequentazione dei pure importantissimi scritti latini fu in qualche modo consacrata dall'opera di Felice Tocco, anche se la quinta parte del suo libro più noto intreccia nell'esposizione ai latini i testi italiani. In realtà già l'ottocentesca edizione nazionale delle opere latine fa sentire, nella parte curata da un filologo dell'altezza di Girolamo Vitelli, vivissima l'esigenza di quella nuova edizione che di recente è stata avviata proprio col De umbris idearum e che offrirà finalmente l'indispensabile quanto fondamentale apparato delle fonti.

Bruno non si capisce se non si vede da dove attinge. Finora la distinzione troppo spesso divenuta separazione ha reso più difficile la visione e l'interpretazione d'insieme dell'opera bruniana per la quale l'uso e l'approfondimento degli scritti latini è indispensabile. Non solo, anche per rendersi conto dell'effettiva circolazione in Europa dell'opera bruniana, che è stata in certi momenti singolare, una reale dimestichezza con gli scritti latini è indispensabile. Anche qui, non a caso, la seconda metà di questo nostro secolo ha assistito alla revisione di non pochi giudizi correnti. La sistematica esplorazione delle biblioteche di tutto il mondo ha cominciato col mettere in crisi il luogo comune di un'estrema rarità dei testi bruniani, benché vietato nel mondo cattolico Bruno è risultato noto, circolante, discusso, sono emersi esemplari, traduzioni manoscritte, copie in possesso di pensatori ben noti e talora grandissimi, si sono individuati i lettori, commentatori, avversari.

Non a torto Aquilecchia, nel testo citato sopra ha fatto coincidere la ripresa degli studi bruniani, l'inaspettata ripresa di Bruno nella seconda metà del secolo, legandola alla riesumazione e scoperta di testi e documenti, ma soprattutto al rifiuto di facili seppur suggestive interpretazioni ideologizzanti. In realtà una nuova storiografia aveva cancellato l'idea di un progresso necessario del sapere col divenire del tempo e con esso l'impegno ad isolare il vivo e il vero, cioè le posizioni vincenti da ciò che la storia avrebbe messo da parte per sempre. In primo piano era passata la ricostruzione spesso arbitraria del diverso nella complessità della sua struttura, nella ricchezza di tutte le sue possibilità. Di qui l'urgenza della documentazione biografica che fra l'altro nel caso di Bruno è così drammaticamente saldata alle vicende del suo pensiero, come del resto aveva visto molto bene quel grande studioso di Bruno che fu Giovanni Gentile.

Non a caso Luigi Firpo dal '48-'49 fino alla morte lavorò senza posa a fare nuova luce sulle vicende del processo. Di qui l'instancabile inseguimento da parte di Aquilecchia di ogni vicenda dei testi italiani oltre l'ancora preziosa edizione Gentile. Ma soprattutto è stato decisivo il mutamento di prospettiva storica in cui Bruno si è venuto a collocare e quindi il modo in cui sono stati affrontati i vari aspetti e momenti del suo pensiero via via che si recuperavano gli interessi, i problemi, i metodi che erano i suoi, le domande a cui intendeva rispondere, le discipline che veramente coltivava anche le più bizzarre, le voci del mondo in cui viveva. Come dice in un bel verso del De monade proprio Bruno suo scopo era stato sempre inseguire 'fecundas rerum voces et scriptas ubicumque inveniuntur'.

Così invece di mutilarne l'opera e di amputarne ampie sezioni come la mnemotecnica, la magia, l'ermetismo, la cabala o quella sua singolarissima matematica, si è cominciato finalmente a indagare il perché di certe presenze, il senso e il peso reale di certe dottrine e come si venivano componendo in una visione d'insieme dell'uomo e del mondo, ormai remota da tutti gli orizzonti medievali. Eppur con tutte le sue tensioni, le sue asprezze, le sue stesse contraddizioni, contemporanea di Galileo e di quel Keplero che guardava con tanta angoscia proprio all'infinito universo di Bruno. Mentre Galileo costruiva la sua nuova scienza la cui logica era la matematica e soltanto la matematica, Bruno edificando la nuova filosofia esercitava e esorcizzava la matematica di Copernico, ma rifiutava in blocco anche tutte le pedanterie logiche della scuola, in un universo infinito collocava "l'uomo nel mondo delle ombre", sono parole sue, "teso fra una morale delle opere e i pensieri di cose divine che alla fine lo divorano e lo annullano".

Il Bruno che sta emergendo da queste nostre letture di oggi è sempre più lontano da ogni retorica anche umanistica. Nella sua diversità non è solo più ricco di verità e di valori, ci aiuta a capire la nostra vicenda, la nascita e l'avvento della riflessione moderna. E' il Bruno che in questi cinquanta anni, rompendo vecchi schemi è stato cercato, tradotto, commentato da tanti attenti studiosi non solo nella vecchia Europa ma un po' dappertutto, in tutti i paesi del mondo anche in Giappone, ben degno di trovare posto nella nuova visione del mondo come voleva Keplero proprio accanto a Galileo.

 

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