Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista
Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete
contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
Nella discussione teorico-politica circola unimmagine standard della
tradizione repubblicana. In essa sono riconoscibili elementi della ricostruzione di John
Pocock in The Machiavellian Moment, riletti in alcuni casi alla luce del pensiero
di Hannah Arendt. Secondo questa immagine, il pensiero politico repubblicano si
ispirerebbe alla concezione aristotelica dellindividuo come zoon politikon,
che solo nella partecipazione politica riesce a sviluppare appieno la sua natura morale e
razionale. Per contro, la repubblica finalizzata alla realizzazione del bene comune
diviene una sorta di istituzionalizzazione della virtù civica, tale da contrastare
linevitabile effetto disgregatore della corruzione. Corollari di questa visione
standard sono lascrizione alla tradizione repubblicana di una concezione
«positiva» della libertà in definitiva, la «libertà degli antichi» e
di una concezione dellappartenenza, che si radicherebbe «nella sostanza etica
duna comunità particolare». In questa luce la tradizione repubblicana è vista
come unalternativa al giusnaturalismo contrattualistico moderno ed in particolare
alla teoria illuministico-liberale dei diritti «delluomo». Si tende poi a
ricollegare questa contrapposizione al dibattito filosofico-politico contemporaneo,
collocando i teorici che attualmente si ricollegano a queste due tradizioni nelle due
grandi famiglie dei liberali e dei comunitaristi.
In realtà, molti autori che nella storia del pensiero politico vengono connotati come
«repubblicani» condividono solo una parte di questi assunti. Non credo comunque sia di
grande utilità estendere indefinitamente larea semantica del termine
«repubblicanesimo» si potrebbe arrivare ad individuare influenze repubblicane in
gran parte del pensiero liberale e socialista fino a farne il referente di
unaria di famiglia molto rarefatta. Mi sembra più interessante differenziare
modelli, filoni e concetti nellambito della tradizione repubblicana. E questo
come cercherò di sostenere in questo intervento può avere dirette conseguenze sul
piano teorico.
Quale repubblicanesimo?
Maurizio Viroli ha definito lattribuzione al repubblicanesimo di
unascendenza aristotelica come «un grave errore storico». La discussione
storiografica è ovviamente aperta. Si può continuare a indagare, ad esempio, quanto la
traduzione latina della Politica abbia influenzato il pensiero politico
tardo-medievale e rinascimentale, se ci siano stati influssi aristotelici più o meno
mediati (ad esempio dalla cultura araba) sulle fonti dei repubblicani e così via. E
probabilmente si dovrebbe anche distinguere accuratamente fra i vari tipi di aristotelismo
che hanno interagito con il pensiero politico repubblicano. In ogni caso, lidea che
non sia corretto assimilare alcuni autori a cominciare da Machiavelli al
paradigma della filosofia pratica aristotelica mi sembra ben argomentata e condivisibile.
Come è noto, è stato Quentin Skinner ad introdurre la distinzione concettuale fra civic
humanism aristotelico e classical republicanism. Secondo Skinner
nellItalia del XIII secolo, anteriormente alla stessa recezione occidentale dei
testi politici di Aristotele, era già riconoscibile una ben definita ideologia politica
ispirata al pensiero repubblicano romano. Laristotelismo informa invece il
linguaggio degli umanisti civili, che vedono la politica come un fine essenziale
delluomo zoon politikon. Invece, per i repubblicani classici, sostiene
Skinner, la partecipazione politica è un mezzo per difendere le libertà civili, e
la virtù ha a sua volta un significato strumentale, dato che consiste nellinsieme
delle disposizioni e delle capacità necessarie per unefficace attività politica.
Ciò significa che la vita politica non è più vista come un fine tipicamente umano: gli
individui hanno molteplici fini. Ma la condizione per realizzare questi fini è il
«vivere libero», che trova la sua forma istituzionale nel «governo libero».
Coerente con questa impostazione è la concezione machiavelliana della libertà,
ricostruita da Skinner in termini tali da distinguerla sia dalla libertà «positiva»
degli antichi sia dalla moderna libertà «negativa» come mera assenza di impedimenti.
Per garantire la sicurezza individuale e collettiva è necessaria la libertà: dello Stato
dalla dominazione esterna e dei cittadini allinterno dello Stato. In questo senso,
la concezione machiavelliana della libertà è «negativa»: la libertà consiste
nellassenza di costrizioni e impedimenti. E in questottica il «governo
libero» repubblicano non è un fine in sé ma lo strumento per difendere la libertà
degli individui. Recentemente Skinner ha ricostruito i percorsi della «neo-roman
understanding of political liberty» nel pensiero politico anglofono del XVII e XVIII
secolo, in contrasto con la nozione rivale di libertà elaborata da Hobbes e destinata a
divenire la nozione canonica nellambito del liberalismo classico.
È ben difficile trovare riferimenti a questa distinzione fra umanesimo civile e
repubblicanesimo classico, fra filone aristotelico e filone neo-romano, negli autori
contemporanei che tentano unutilizzazione teorico-politica della tradizione. Da
questo punto di vista, John Rawls è una lodevole eccezione, mentre Jürgen Habermas è
una deprecabile conferma: tutto il confronto fra repubblicanesimo e liberalismo in Faktizität
und Geltung si fonda sullassimilazione del moderno repubblicanesimo giuridico
con la linea aristotelico-comunitarista.
Non cè dubbio, comunque, che fra gli autori che dichiarano di ispirarsi alla
tradizione repubblicana queste differenze emergano con evidenza. Da una parte ci sono
personaggi come Sandel e MacIntyre, che vedono nel repubblicanesimo una presentabile
traduzione politica delle loro tesi sullidentità, la virtù e lappartenenza
comunitaria. Dallaltra parte vi sono autori repubblicani che si distaccano dalla
concezione della politica come fine connaturato alla natura umana e recuperano dalla
tradizione una visione della libertà che non si identifica con nessuna delle alternative
nella classica contrapposizione fra libertà negativa e libertà positiva. Sono
significative alcune espressioni di Frank Michelman:
Qui non sto raccomandando un repubblicanesimo «forte». Non so cosa è bene per
lanima. Non so in cosa consiste essenzialmente la libertà personale (se consiste in
qualcosa). Non so se la cittadinanza è un bene umano fondamentale. Quello che sostengo è
che la concezione repubblicana della politica [...] è una concezione di cui una buona
spiegazione ed analisi costituzionale contemporanea non può fare a meno.
Considerazioni analoghe si potrebbero trovare nei testi di Cass Sunstein o di Philip
Pettit. Ma né in Sunstein, né in Michelman, né in Pettit si trovano riferimenti alla
distinzione fra le due linee della tradizione repubblicana nei termini enunciati da
Skinner. Tuttavia emergono ulteriori articolazioni, riferite soprattutto allepoca
più tarda del dibattito che precede e segue la Rivoluzione americana.
Sarebbe dunque opportuno che ogni volta che si utilizza il termine «repubblicanesimo»
si chiarisse che cosa si intende. In particolare, se si pensa ad un filone di pensiero di
ascendenza aristotelica, che considera luomo per essenza zoon politikon e la
politica come forma di realizzazione della «natura umana», o se si pensa al
repubblicanesimo «machiavelliano». Tale riferimento esplicito sarebbe opportuno anche
perché non tutti i repubblicani non aristotelici, o «neo-romani» ci restituiscono la
stessa immagine del paradigma a cui si ispirano. Alcuni elementi, che appaiono
caratterizzanti e fondamentali ad alcuni, si perdono in altri. Per spiegarmi intendo ora
utilizzare al limite del plagio quella che a me appare una delle
ricostruzioni più lucide di una linea di frattura interna alla tradizione repubblicana.
Mi riferisco a quella proposta da Marco Geuna in un suo saggio su Adam Ferguson.
Geuna suggerisce di distinguere nel repubblicanesimo protomoderno un paradigma
«harringtoniano» da uno «machiavelliano». Comune alla linea machiavelliana, oltre alla
concezione «negativa» della libertà ed allaccettazione delleconomia
moderna, è unapologia del conflitto politico. Per Geuna tale nozione non è che una
rielaborazione dellapologia machiavelliana del conflitto fra patrizi e plebei in Discorsi
. Si tratta, come ha insistito lo stesso Skinner, di una novità rivoluzionaria nella
storia del pensiero politico occidentale. Geuna sottolinea che la valutazione positiva del
conflitto è stata criticata duramente da Francesco Guicciardini, laltro classico
del repubblicanesimo fiorentino («Laudare la disunione è come laudare in un infermo la
infermità, per la bontà del rimedio che gli è stato applicato»), e abbandonata dal
massimo seguace teorico repubblicano di Machiavelli, James Harrington. Per contro,
lapologia del conflitto ritorna in autori come A. Sidney, W. Mole e T. Gordon e
soprattutto in Montesquieu. Ferguson arriva a sostenere che «luomo che non ha mai
lottato con i propri simili è estraneo alla metà dei sentimenti dellumanità». In
base a queste considerazioni, Geuna propone di distinguere nellambito del
repubblicanesimo protomoderno tra teorie «harringtoniane» e «machiavelliane» in questi
termini:
Le prime insistono sulla partecipazione dei cittadini proponendo una nozione positiva
di libertà, le seconde tematizzano una nozione negativa di libertà; le prime ritengono
che debba esistere una nozione condivisa di bene comune tra tutti i cittadini; le seconde
non propongono una nozione sostantiva di bene comune; le prime sono portate ad escludere
il conflitto politico dalla fisiologia del corpo politico; le seconde attribuiscono un
ruolo positivo ai conflitti politici che si mantengono entro certi canali istituzionali;
le prime delineano un ordine politico che, esclusi i conflitti, è in qualche modo da
sempre fissato; le seconde vedono lordine politico emergere dal conflitto; le prime
assumono come mito Venezia, città del governo stretto; le seconde Roma, città della
feconda disunione tra senato e plebe; le prime hanno alla loro base unantropologia
prevalentemente positiva; le seconde, unantropologia negativa.
Si può dunque parlare di una peculiare originalità e di una persistente influenza del
pensiero machiavelliano nel corso della modernità. Leredità di Machiavelli non si
esaurisce nella linea hobbesiana secondo la tesi di Strauss né in quella
harringtoniana secondo la tesi di Pocock. Piuttosto, è possibile individuare «un
modello o paradigma machiavelliano, irriducibile agli altri due ed in costante tensione
con essi» .
Particolarmente istruttivo è proprio il confronto sul nesso ordine-conflitto. Nella
prospettiva aristotelica, lordine è dato per natura, e le relazioni agonali che si
stabiliscono nella polis non dovrebbero originare veri conflitti. Per contro,
lordine per Hobbes nasce dal conflitto ed è artificialmente costruito. Ma la
costruzione dellordine artificiale consiste precisamente nella neutralizzazione del
conflitto, che appartiene alla patologia del corpo politico una volta che si è
costituito.
Anche lordine machiavelliano nasce, in parte, sul terreno artificialistico
moderno: luomo non è per natura un animale politico. Ma non fa sua lidea che
lordine si costituisca solo al prezzo della perdita della politicità dei cittadini.
A differenza dellapproccio aristotelico prevede il conflitto, ma non lo usa
hobbesianamente al fine di una sua neutralizzazione, di una spoliticizzazione. Riesce anzi
a rendere produttivo il conflitto, individuando gli spazi istituzionali nei quali esso
può manifestarsi; ridà così nuovo spazio e nuovo significato alla partecipazione
politica, alla virtù, del cittadino. Lordine dei machiavelliani assume alcuni dei
presupposti artificialistici moderni, senza condividere dellartificialismo
hobbesiano la negazione radicale del conflitto, per timore che esso degeneri in guerra
civile.
Se le cose stanno così, secondo me riferirsi alla linea machiavelliana e
soprattutto a Machiavelli apre la via ad unutilizzazione della tradizione
repubblicana almeno parzialmente differente da quelle che fino a qui sono state tentate.
In esse, infatti, mentre si ricostruisce una specifica concezione della libertà e una
visione «deliberativa» della politica, mi pare che harringtonianamente si
tenda a mettere fra parentesi proprio il tema machiavelliano del conflitto, che viceversa
in questa ricostruzione appare di importanza centrale. Prendere sul serio lesistenza
di due repubblicanesimi, accreditando la persistenza e la vitalità di un Machiavellian
paradigm, invita per contro a riorientare la discussione sullutilizzazione
teorica del repubblicanesimo. Non solo rispetto allimpostazione dei comunitaristi da
un lato, e di Habermas dallaltro, ma anche, almeno in parte, rispetto a quelle di
Skinner, Michelman o Viroli. E questo vale anche per quello che finora appare come il
tentativo più sviluppato di elaborare una teoria politica ispirata al repubblicanesimo
classico: Republicanism. A Theory of Freedom and Government di Philip Pettit.
Ritorneremo fra breve su questi temi. Credo comunque che sia opportuna una
considerazione generale. Il migliore approccio per una utilizzazione teorica della
tradizione non mi pare consista nellindividuare alcuni concetti-chiave, a cominciare
nel caso di Pettit da quello di libertà, per costruire su di essi una
(ennesima) filosofia politica normativa più o meno sistematica. Fra laltro, non
sembra questa la lezione della tradizione. Gli autori repubblicani, piuttosto che fare
questo piuttosto che immaginare «repubbliche e principati che non si sono mai
visti né conosciuti essere in vero», hanno ricercato nella tradizione concetti e
linguaggi tali da poter tematizzare problemi della loro contemporaneità ed argomentare le
loro soluzioni. E questo è anche quello che sembra suggerire Skinner, quando afferma che
riscoprire concezioni diffuse ed accreditate in altre epoche rende consapevoli che le
modalità nelle quali oggi concepiamo principi e valori «riflettono una serie di scelte
compiute in tempi differenti fra differenti mondi possibili».
Dalla tradizione repubblicana, o almeno da una certa tradizione repubblicana, o da una
certa lettura della tradizione repubblicana, potremmo dunque ricavare indicazioni per
affrontare i nostri problemi, per tematizzare alcune istanze decisive della politica a noi
contemporanea. Per costruire strumenti critici e valutativi, piuttosto che sistemi
normativi.
Temi repubblicani
La tradizione repubblicana soprattutto il filone di ascendenza machiavelliana
può offrire contributi importanti su temi come la concezione della libertà e
dellappartenenza, i nessi democrazia-cittadinanza e ordine-conflitto, la fondazione
dei diritti. Tratterò brevemente in questa sezione dei primi quattro, per poi soffermarmi
maggiormente sullultimo nella sezione conclusiva. Nel fare questo, non mi sottrarrò
ad un confronto pressoché obbligato con le tesi di Habermas.
La libertà tre. Su questo punto mi sembra siano da condividere nella sostanza le
tesi di Skinner e di Pettit. La classica distinzione proposta da Berlin fra libertà
negativa e libertà positiva lascia molte cose fuori dal campo, soprattutto se la si
ricollega alla tradizionale contrapposizione fra libertà degli antichi e libertà dei
moderni. Fra la libertà come positiva capacità di determinare le decisioni che ci
riguardano, tale da esprimere una peculiare caratteristica politica della natura umana, e
la libertà come non interferenza cè un ampio spazio teorico, particolarmente
importante per chi non si colloca né fra gli aristotelici né fra i liberali
individualisti. Insomma, ha un qualche senso sostenere che i cittadini che scrivevano
sulle porte delle proprie mura la parola libertas erano più liberi dei sudditi del
sultano, senza per questo ritenere che in tal modo realizzassero la loro natura più
autentica.
Credo anche che lo slittamento che si è determinato fra la prima ricostruzione di
Skinner e limpostazione di Pettit sia opportuno. Skinner differenzia la concezione
della libertà di Machiavelli dalla libertà positiva. Ma il fare della libertà
repubblicana una sottocategoria della libertà negativa lasciava qualcosa di inespresso.
Che viene recuperato in buona parte nella proposta di Pettit di considerare la liberty
as non-domination come una terza forma di libertà. Questo non solo per motivi
storico-filologici (cè un elemento attivistico, «positivo» nella politica
repubblicana, a cominciare da quella machiavelliana, difficilmente cancellabile). Credo
infatti che una concezione della libertà adeguata alla società contemporanea non possa
esaurirsi nella non interferenza. Si pensi soprattutto alla tensione fra la libertà
«negativa» e lautonomia individuale. Un soggetto esposto alla comunicazione dei
media gode di unampia libertà negativa: può scegliere il canale che preferisce o
spegnere la televisione; ma si trova a confrontarsi con una «realtà» in gran parte
filtrata e costruita dai media stessi. E lo sviluppo della libertà «negativa»
nel mercato televisivo rafforza paradossalmente questi effetti. Analogamente, ci si può
chiedere fino a che punto la libertà politica è garantita da elezioni segrete e da una
pluralità di candidati, se lattribuzione del consenso non è autonoma e spontanea e
le parti non offrono una reale pluralità di programmi. E in generale la libertà
«negativa» di espressione appare insufficiente, in assenza di un diritto positivo
allinformazione.
Da questo punto di vista il libro di Pettit offre interessanti contributi. Lidea
del non dominio si ricollega infatti al tema dellautonomia personale.
Significativamente, Pettit rinuncia ad unidea troppo forte di autonomia,
allidea che ogni credenza e ogni desiderio che il soggetto ha fatto propri siano
stati elaborati «in un processo storico di auto-costruzione». Piuttosto, per essere
autonomo il soggetto deve essere «capace di sottoporre ciascuna delle sue credenze e
ciascuno dei suoi desideri ad appropriati test». Lindividuo autonomo può agire,
per gran parte del suo tempo, sulla base di credenze e desideri ricevuti; è autonomo se
non è vittima di queste credenze e desideri, ha la possibilità e la capacità di
esaminarli e metterli in questione. E, analogamente, la collettività che si autogoverna
è quella che ha la possibilità e la capacità di contestare le decisioni e imporre la
loro modifica.
Credo che in questa capacità e possibilità di mettere autonomamente in questione le
decisioni, le scelte, lagenda, i valori diffusi consista il nucleo irrinunciabile di
libertà «positiva», vitale per la sopravvivenza della democrazia anche e soprattutto
nella società complessa. Si può però muovere a Pettit il rilievo di non evidenziare le
tensioni potenziali e reali che si danno fra i vari tipi di libertà, e in
particolare fra lautonomia e la libertà «negativa».
Lappartenenza repubblicana. La tradizione repubblicana ci offre un modello di
appartenenza alla comunità politica che permette di evitare la Scilla
delluniversalismo liberale e la Cariddi del comunitarismo. I repubblicani
protomoderni avvertivano un forte legame con la loro polis, ma questo legame non
veniva tematizzato in termini di ascendenze etniche o genealogiche. Piuttosto, essi si
sentivano i continuatori di una storia comune e soprattutto i fruitori di una «libertà»
che valeva la pena difendere.
Anche Habermas, comè noto, negli scritti sul «patriottismo della costituzione»
(Verfassungspatriotismus) si è pronunciato per un modello «repubblicano» di
appartenenza. Con ciò intendeva una nozione di identità collettiva dal significato
politico-giuridico, che prescindeva da riferimenti allo ius sanguinis ed alla
«comunità di storia e di destino». Lappartenenza al demos nelle moderne
liberaldemocrazie si è emancipata per Habermas dalla sua connotazione etnica. La
«nostra» forma di vita si definisce in base ad un sistema di diritti e ad una cultura
politica liberale. Habermas tenta insomma di tenere insieme il particolarismo
dellappartenenza e luniversalismo. Nella sua ottica, questo è possibile
perché i diritti delluomo e la democrazia hanno un significato universale, in
quanto possono essere fondati a partire dai presupposti quasi-trascendentali della
comunicazione linguistica.
È su questo aspetto che si possono misurare le affinità e le differenze con la
concezione repubblicana. Lappartenenza alla repubblica è un sentimento di lealtà
ad un ordine definito in termini politico-giuridici. Ma come ha opportunamente
notato Viroli è appunto un sentimento, una passione: gli elementi affettivi e
simbolici hanno qui grande rilievo. Ed è lappartenenza ad una repubblica
particolare, sostenuta dalladesione ad una cultura specifica. Analogamente, il
concetto di «popolo» proposto da Michelman (e anche da Ackerman) è interamente
costruito in base a riferimenti politico-giuridici. Ciò che conferisce unità al soggetto
dellautogoverno non è un ethos sostantivo comunitaristico ma un processo collettivo
di reinterpretazione e mutamento dei fondamentali principi costituzionali. Michelman ha
esplicitamente escluso che la sua visione del processo «giurisgenerativo», o del constitutional
discourse, presupponga il riferimento allethos di una comunità già integrata,
a un «thick, substantive consensus». Esso richiede certamente un sentimento di
condivisione e di appartenenza, il riferimento ad un contesto storico-culturale «un senso
di condivisione collettiva di una qualche situazione storico-culturale». Daltronde,
rileva Michelman, anche Habermas ammette che per sostenere una morale universalistica è
necessaria una forma di vita che incorpori gli elementi di una cultura politica liberale,
e in particolare che sostanzi quella connessione fra autonomia privata e civica che è
stata istituzionalizzata nel diritto moderno. Ma in questo modo la concezione repubblicana
non fa che suggerire lidea di «a Sittlichkeit of communicative ethics». Il
punto di distacco è sullidea che le questioni di giustizia possano in linea di
principio essere distaccate dal riferimento a specifiche forme di vita.
Nella tradizione repubblicana gli «ordini» non sono né la specificazione del diritto
di natura, né lespressione di un ethos sostanziale, né ovviamente la traduzione
dei presupposti inevitabili del discorso. Più modestamente, costituiscono
unessenziale precondizione per lintegrazione sociale e per lo svolgimento
«virtuoso» della vita politica (dove «virtù» ha un significato specificamente
politico). È dunque scorretto parlare qui di comunitarismo. Si potrebbe piuttosto, su
questo punto, rivolgere unaltra critica a Michelman, ma questa andrebbe estesa allo
stesso Habermas: entrambi fanno gravare sul diritto un eccessivo onere, tendendo ad
affidare ad esso la decisiva funzione di garanzia dellintegrazione sociale. In
realtà, nelle società contemporanee sono allopera meccanismi che riducono
notevolmente il senso di appartenenza socialmente necessario. Se la coesione sociale
dipendesse esclusivamente dalla razionale adesione ai principi costituzionali, dagli
effetti integratori del diritto e dai sentimenti di lealtà le nostre società sarebbero
assai più disgregate.
Ricordo infine che nella tradizione repubblicana circola lidea di
unarticolazione verticale ed orizzontale dellappartenenza: qualcosa che
ricorda le tesi di Walzer sulla società civile come «ambiente di ambienti» nel quale
nessun ambito di vita esprime le potenzialità essenziali degli individui.
Lappartenenza repubblicana oltre ad articolarsi verticalmente in dimensioni
culturali, etniche, associative, religiose non può non prevedere vari livelli di
identità politica: da quello vicinale, di quartiere e di villaggio, al territorio, alla
regione, fino a possibili identità sovranazionali. In questa pluralità di appartenenze,
accanto a quella nazionale, assume un particolare rilievo quella cittadina. È probabile
che nellepoca della globalizzazione e della rivoluzione telematica le città
costituiscano un luogo privilegiato per una politica più controllabile dai cittadini,
tale da attivare le risorse disponibili di «patriottismo» e senso civico. Ed anche il
terreno di coltura per unalternativa civica alle appartenenze etniche ed
organicistiche.
Democrazia e cittadinanza. La tradizione repubblicana offre spunti interessanti per
una «ricostruzione» della teoria democratica. La politica repubblicana
opportunamente ricondotta da Pettit alle nozioni di non-domination e contestability
supera la contrapposizione fra concezione procedurale e concezione sostanziale
della democrazia. Le procedure sono essenziali, costitutive, sono la sostanza stessa della
democrazia. Daltra parte, procedure svuotate di significato, lontane dai sentimenti
dei cittadini, non sostenute da un quantum di ethos civico e di cultura politica
sono impotenti.
Coerenti con questa impostazione mi sembrano le critiche al modello «poliarchico» di
democrazia. Mi pare promettente il superamento di una concezione della rappresentanza come
adattamento, in favore di un chiaro riconoscimento della divisione politica del lavoro,
alla radice del rapporto di trust che si stabilisce fra cittadini e governo
repubblicano. Altrettanto interessante mi sembra la discussione sul nesso fra democrazia e
costituzionalismo, elaborato soprattutto da Ackerman e da Michelman in base ad un doppio
livello di legalità; al di là delle differenti ed a volte criticabili
soluzioni specifiche, esso esprime lidea che collocare alcuni fondamentali principi
costituzionali in una condizione di «indisponibilità» rispetto alla pratica politica
ordinaria non costituisce una minaccia al carattere democratico dellordinamento; e
soprattutto segnala che le revisioni costituzionali costituiscono passaggi delicati, se
non drammatici, rispetto alla politica ordinaria, e devono coinvolgere in un dibattito
allargato il «popolo»; che in questo modo si riappropria della sua sovranità in una
forma sia pur mediata di autogoverno.
Ordine e conflitto: la politica deliberativa. Se non si assimila la concezione
repubblicana al comunitarismo, allora ne risulta unimmagine della politica che
finisce per essere assai più realistica della concezione habermasiana, fondata sulla
distinzione fra discorsi «etici», discorsi «morali», argomentazioni «pragmatiche».
Habermas ovviamente riconosce che la prassi legislativa non può essere ridotta alla
modalità discorsiva: «Nella politica legislativa, il reperimento dinformazioni e
la scelta dei mezzi razionali rispetto-allo-scopo sintersecano a bilanciamento
dinteressi e a formazione di compromesso, autochiarimento etico e formazione di
preferenza, formazione morale e controllo giuridico di coerenza». Mantiene però
lidea che la teoria discorsiva sia in grado di distinguere e gerarchizzare
i diversi modelli di prassi, ispirandosi in ultima analisi alla prospettiva
universalistica della morale deontologica. Ma se, come ha convincentemente sostenuto
Alessandro Ferrara, riconosciamo che non cè una discontinuità qualitativa fra i
discorsi «etici» ed i discorsi «morali», allora su questo punto posizioni come quelle
di Sunstein e di Michelman assumono una maggiore legittimità.
Daltra parte, ho già accennato allidea che la centralità del conflitto
nel repubblicanesimo machiavelliano andrebbe presa sul serio. Nella modernità si afferma
lidea che il conflitto politico se avviene entro una determinata cornice
istituzionale ed esprime gli «umori» fondamentali della cittadinanza non è di
per sé patologico. Il conflitto, anzi, può innescare una virtuosa spirale di lotte per
il riconoscimento che finiscono per rafforzare la coesione sociale. Tuttavia, anche fra
gli autori che tentano unattualizzazione del repubblicanesimo classico, molti
e non solo quelli di ispirazione comunitaristica mi pare tendano a sottovalutare
questo aspetto. Questo vale anche per Pettit, che pure in certi passaggi allude ad una
nozione attivistica ed agonistica della difesa dal dominio e sottolinea il ruolo della
mobilitazione di associazioni e movimenti.
Mi pare però che anche in Pettit come in Sunstein, nello stesso Michelman, e
per altri versi nella riproposizione da parte di Viroli della «politica» repubblicana
emerga un cortocircuito teorico fra la critica del concetto economicistico di
politica e quello che viene definito il modello «deliberativo» di politica, nel quale la
politica si avvicina molto allagire comunicativo. Non cè dubbio che la
concezione della politica elaborata sulla falsariga delleconomia mercantile, e in
particolare la riduzione dello zoon politikon ad un homo oeconomicus alla
ricerca di compromessi utili ad ottimizzare i suoi risultati nellallocazione delle
risorse, risulti inadeguata, e sia criticabile sia sul piano epistemologico che per la sua
ridotta capacità euristica nellanalisi empirica. Ma quella che viene presentata
come la concezione deliberativa della politica nelle sue differenti versioni
non è lunica alternativa possibile. Nellelaborare questa concezione mi pare
che anche i neorepubblicani che più o meno esplicitamente prendono congedo dalla
tradizione aristotelica rivelino un debito sostanziale con limpostazione di Hannah
Arendt. A cui si aggiunge probabilmente linfluenza delle loro fonti principali: i
padri della Costituzione americana.
Da questo punto di vista è interessante soprattutto la ricostruzione di Sunstein. Egli
elabora una critica del «pluralismo» contemporaneo e della sua riduttiva concezione
della politica, ricalcata sul modello delleconomia. Riferendosi ai dibattiti
dellepoca di elaborazione della Costituzione americana, Sunstein riconosce che il
repubblicanesimo degli «anti-federalisti» implicava una concezione della politica,
identificata con lautogoverno popolare e incentrata sullantitesi
virtù-corruzione, difficilmente riproponibile nelle società moderne. È proprio in
questepoca che comincia a venire elaborata la moderna concezione «pluralista». Ma
esiste anche una terza alternativa. Sarebbe infatti errato identificare la proposta dei
federalisti, e di Madison in particolare, con un proto-pluralismo. Piuttosto, questa
concezione «riformulava i principi del repubblicanesimo nel tentativo di sintetizzare
elementi del repubblicanesimo tradizionale con la teoria rivale pluralista». Questa
riformulazione vede con favore la formazione di repubbliche di vaste dimensioni, ammette
una forma di rappresentanza ed elabora un sistema di checks and balances. Non può
comunque essere confusa con la riduzione della politica a bargaining e trade-offs
. Lidea della partecipazione diretta viene abbandonata. Ma daltra parte i
rappresentanti devono distaccarsi dalle pressioni immediate del proprio elettorato e
deliberare in vista di «qualcosa come un bene comune oggettivo». Nella concezione
«ibrida» della rappresentanza «i legislatori non dovevano né seguire ciecamente le
pressioni dellelettorato né deliberare in un vuoto».
Uno dei punti in cui il «repubblicanesimo madisoniano» differisce da quello degli
anti-federalisti è proprio sulla valutazione della turbulence. Lalternativa
alla concezione pluralistica è allora quella di una «politica deliberativa»
esercitabile sulla scala macroscopica di una repubblica vasta e di una società complessa.
In essa, lelemento del contrasto fra gli interessi e quello deliberativo
rappresentano i due poli di un continuum. In un passo criticato da Habermas, Sunstein
scrive:
Ciò che alla fine vediamo emergere è un «ventaglio» senza soluzioni di continuità.
Al suo primo estremo troviamo casi in cui dominano largamente le pressioni delle lobby, e
dove lemanazione legislativa può essere intesa come una «transazione»
dinteressi in conflitto. Allestremo opposto vediamo invece i legislatori
impegnarsi in una consultazione deliberante in cui i cosiddetti gruppi dinteresse
non giocano nessun ruolo, oppure un ruolo minimo. Lungo questo ventaglio viene a disporsi
unampia gamma di decisioni, i cui esiti dipendono sempre da un «mix» di fattori
come pressione, consultazione discorsiva ecc. Con un test semplice non potremo mai
distinguere tra loro casi collocati su punti diversi del ventaglio.
Ciò che secondo me va criticato in questa immagine non è come sostiene
Habermas la mancanza di un netta discontinuità fra i due aspetti della politica.
Piuttosto, va rilevata lunidimensionalità della concezione di Sunstein. Qui sembra
che la politica sia riducibile o allo scontro di interessi ed alla ricerca di compromessi
qualcosa di analogo al mercato o alla deliberazione consensuale, o a una
qualche mescolanza delle due. Ma nella tradizione repubblicana almeno in quella del
repubblicanesimo machiavelliano emergono anche altre dimensioni della politica.
Questo non solo perché, evidentemente, dal punto di vista empirico la politica
contemporanea è tuttaltro. Si ha anche limpressione che la prassi
comunicativa non solo non valga come una rappresentazione adeguata della politica reale
(su questo Habermas sarebbe daccordo) ma neppure sia il miglior modello ideale. Gli
elementi fronetici, simbolici, intuitivi, strategici sembrano qualcosa di insito
nellagire politico, a differenza che nei processi comunicativi finalizzati
allintesa. Il buon politico non necessariamente il Realpolitiker o il caudillo,
anche il politico ispirato da alti convincimenti morali è capace di cogliere le
tendenze in atto, di interpretare il senso degli accadimenti, di dare «forma» agli
eventi, di individuare le possibilità aperte nelle condizioni date. È evidente che qui
ho in mente le figure machiavelliane di politici virtuosi non solo il principe
nuovo ma anche i leader repubblicani e che penso allimportanza che nella
riflessione machiavelliana hanno i codici forma/materia e fortuna/occasione/virtù. E a
questo si deve aggiungere il rilievo che nella politica hanno i sentimenti e le passioni,
a cominciare dalla paura. Se non si tiene conto di questa pluridimensionalità della
politica si rischia di cadere nellerrore che Habermas opportunamente individua in
Rawls quando parla di «impotenza del dover essere» e afferma che i modelli normativi
devono trovare un qualche riscontro nella realtà effettuale.
Fondare i diritti
Un approccio alla politica ed al diritto ispirato alla tradizione repubblicana esclude
una fondazione giusnaturalistica ed universalistica dei diritti «delluomo». Questo
significa che si deve abbandonare il linguaggio dei diritti? Ci sono serie proposte in
questo senso. Qui non mi riferisco tanto a quelle di parte comunitarista. Anche fra gli
autori che fanno propria la distinzione fra repubblicanesimo aristotelico e
repubblicanesimo machiavelliano, e ricercano una «terza via» fra liberalismo e
comunitarismo, emergono posizioni di questo tipo. Richard Bellamy, ad esempio, ispirandosi
alle tesi di Onora ONeill, ha proposto una concezione «repubblicana» della
cittadinanza che antepone i doveri ai diritti. Credo che di fronte a questa prospettiva
sia difficile non avvertire una qualche forma di disagio. Se abbandonassimo il linguaggio
dei diritti, per sostituirlo con nozioni come «vita buona», virtù e doveri, ci
coglierebbe un senso di vuoto. Che cosa significa questo senso di vuoto?
La positivizzazione dei diritti fondamentali nelle Costituzioni novecentesche
lidea, ad esempio, che la Repubblica italiana «riconosce» i diritti fondamentali
(art. 2 Cost.) crea indubbiamente qualche problema al giuspositivismo tradizionale.
Daltra parte, nellepoca del pensiero post-metafisico, credo sia pressoché
improponibile presentare i diritti delluomo come lespressione di una presunta
«natura» umana.
Habermas, comè noto, considera superata la fondazione giusrazionalistica dei
diritti delluomo. In Faktizität und Geltung i diritti fondamentali risultano
1) il «precipitato» della sostanza normativa un tempo ancorata nellethos
tradizionale, oggi differenziato nei codici normativi della morale post-convenzionale e
del diritto positivo; 2) la condizione necessaria perché si costituisca il codice
diritto, che richiede la garanzia dellautonomia privata e pubblica; 3)
limplementazione, attraverso una «genesi logica dei diritti», del principio
normativo generale della teoria del discorso il «principio D» per quanto
riguarda lambito politico-giuridico. Ciò riconduce in ultima istanza i diritti
fondamentali alle strutture quasi trascendentali del discorso. Su questa via, Habermas
attribuisce ai diritti delluomo una validità tendenzialmente universalistica. Per
Habermas, infatti, è vero che la prassi legislatrice, entro i limiti stabiliti dal
principio del discorso e dal medium giuridico, è libera di elaborare i cataloghi dei
diritti. Ma daltra parte i vari cataloghi storici dei diritti sono letture
differenti «duno stesso sistema dei diritti»:
Non esiste il sistema dei diritti sul piano della purezza trascendentale.
Tuttavia, più di due secoli di sviluppo costituzionale europeo ci forniscono ormai un
numero sufficiente di modelli. Essi possono guidarci ad una ricostruzione generalizzante
delle intuizioni su cui poggia la prassi intersoggettiva di una legislazione intrapresa
con strumenti di diritto positivo.
Credo non sia difficile dimostrare che la fondazione habermasiana rimanda ad un
contesto storico, sociale e culturale ben definito. Habermas tratta dellevoluzione
dei sistemi sociali, politici e giuridici occidentali. È in Occidente che si
realizza la «genesi cooriginaria» di diritti fondamentali e sovranità popolare, Stato
di diritto e democrazia, cui Habermas allude. E quando considera i diritti come il
presupposto necessario del codice giuridico, si riferisce non a ogni ordinamento
giuridico come tale, ma al diritto positivo moderno (cioè a un sottosistema
sociale e a un codice normativo tipicamente occidentali, autonomizzatisi progressivamente
a partire dal diritto romano e gestiti da un ceto di operatori specifici, che adopera un
sapere particolare) in senso specifico, non in unaccezione lata come nelle teorie
istituzionalistiche (ubi societas ibi ius).
In realtà, in tutti i luoghi in cui Habermas argomenta il carattere universale dei
presupposti inevitabili del discorso, aggiunge una clausola del tipo «per tutti coloro
che vogliano intendersi reciprocamente». Non affrontiamo la questione se in questo modo
si esprime la forma più autentica di comunicazione, qualcosa come ciò cui gli atti
comunicativi in ultima analisi tendono di per sé. Ma se da questo livello di alta
astrazione epistemologica ci abbassiamo a quello della fondazione interculturale dei
diritti, ci rendiamo conto che il volersi «mettere daccordo», limpegnarsi
nellinterazione comunicativa, il porre la propria verità a disposizione
dellinterlocutore, costituisce in realtà il gesto decisivo. Accettare di discutere
e confrontarsi è già quasi tutto. È un atteggiamento cui la cultura occidentale è
pervenuta gradualmente, con molta fatica ed in modo incompleto. Ed è una conquista
evolutiva fragile e sempre in pericolo, come dimostra la storia di questo secolo e anche
dellultimo decennio.
Non mi sembra molto più promettente la recente proposta habermasiana di vedere i
diritti umani come uno standard normativo che rappresenta la risposta obbligata alla
modernizzazione. In questottica, secondo Habermas anche le società non occidentali,
in primis asiatiche, di fronte alle sfide della globalizzazione non potranno che
far proprio questo codice normativo. Questa idea mi pare pericolosa: rischia di
autorizzare una visione dei diritti umani come laltra faccia
delloccidentalizzazione, e di connotare il loro rifiuto come un elemento della
resistenza alle minacce di genocidio culturale e di impoverimento economico. Ma
soprattutto qui vacilla il pilastro centrale della fondazione habermasiana dei diritti. Se
i diritti individuali sono un portato della globalizzazione economica (dunque vengono
imposti da forze impersonali, se non addirittura da corporations multinazionali,
anziché essere scelti consapevolmente dai cittadini per regolare la loro convivenza con
strumenti di diritto positivo) si scinde il nesso fra diritti umani e sovranità popolare.
Se si riposiziona il repubblicanesimo giuridico rispetto alla contrapposizione fra
individualismo e olismo, e fra comunitarismo e liberalismo, è possibile reinterpretare
anche il suo contributo su questo punto specifico. Mi pare evidente che il confronto fra
tradizione liberale e tradizione repubblicana in Faktizität und Geltung presuppone
una certa immagine del repubblicanesimo, che viene interpretato alla luce della linea
Aristotele-Arendt. Habermas non afferma che Sunstein e Michelman non utilizzino il
linguaggio dei diritti. Piuttosto, partendo dallidea (errata) che sono repubblicani,
e dunque aristotelici, e dunque considerano la politica il fine dellindividuo entro
la comunità, interpreta limportanza da loro attribuita ai diritti politici come
sintomo di una concezione comunitaristica della politica.
Habermas stabilisce un nesso, sia pur problematico, fra problemi etici, dimensione
dellautorealizzazione, tradizione repubblicana da un lato, e problemi morali,
dimensione dellautodeterminazione, tradizione liberale dallaltro lato. Per i
liberali preoccupati della «tirannia della maggioranza» i diritti umani
sarebbero un dato prepolitico e un limite alla sovranità. Per i repubblicani
costituirebbero invece un elemento della tradizione storica, e verrebbero riconosciuti dai
membri delle singole comunità politiche solo in quanto espressione «del proprio
autentico progetto di vita».
A me pare opinabile che nella linea del repubblicanesimo machiavelliano che
certamente non considera i diritti come espressione della legge di natura prepolitica
il valore politico centrale sia lautorealizzazione piuttosto che
lautodeterminazione. Lautodeterminazione politica è la condizione perché i
singoli possano perseguire la propria autorealizzazione. Né, se diamo qualche credito a
Pettit, i repubblicani sottovalutano il pericolo della «tirannia della maggioranza».
Secondo Habermas la via duscita dalla contrapposizione fra diritti umani e
sovranità popolare passa attraverso la fondazione della legittimità mediante la teoria
dellagire comunicativo. La legittimità del diritto, in questottica,
corrisponde al consenso dei consociati giuridici come partecipanti a un discorso
razionale. Il sistema dei diritti garantisce per contro sia lautonomia privata che
lautonomia pubblica, senza subordinare luna allaltra.
Di conseguenza il richiesto nesso interno tra sovranità popolare e diritti umani
consisterà nel fatto che il «sistema dei diritti» definisce precisamente le condizioni
per cui le forme di comunicazione necessarie a una produzione giuridica legittima possono
essere anche esse giuridicamente istituzionalizzate. Il sistema dei diritti non è
riducibile né a una lettura morale dei diritti umani né a una lettura etica della
sovranità popolare, in quanto lautonomia privata dei cittadini non può essere né
sottordinata né sovraordinata alla loro autonomia politica.
Questa soluzione habermasiana non pare in antitesi con la lettura repubblicana
machiavelliana dei diritti individuali. Il passo machiavelliano sulla libertà in Discorsi
II. 2 mi sembra esprimere in forma molto meno elaborata unintuizione
analoga a quella del nesso fra autonomia privata ed autonomia pubblica.
Considerazioni analoghe si possono fare a proposito della discussione di Habermas sulle
tesi di Michelman relative al ruolo della giurisdizione costituzionale. Habermas colloca
esplicitamente Michelman sulla linea aristotelica-harringtoniana dellumanesimo
civico ricostruita da Pocock.
Se i concetti di diritto romano servono nella modernità a definire le libertà
negative dei cittadini garantendo la proprietà e il commercio degli individui
privati dalle intromissioni di quel dominio politico-amministrativo da cui erano stati
esclusi il linguaggio delletica e della retorica custodisce invece
limmagine di una prassi politica che realizza le libertà positive dei
cittadini partecipanti su un piede di parità giuridica. Il concetto repubblicano di
«politica» non riguarda i diritti a vita, libertà e proprietà garantiti dallo Stato ai
privati, bensì la prassi di autodeterminazione dei cittadini orientati al bene comune,
che sintendono come liberi ed eguali partecipanti ad una comunità di cooperazione e
autogoverno. Diritto e legge sono cose secondarie rispetto al vitale nesso etico di
una polis in cui può svilupparsi e consolidarsi la virtù di unattiva
partecipazione alle faccende pubbliche. Soltanto in questa prassi civica luomo può
realizzare il telos della sua natura [Gattung].
Habermas non potrebbe essere più esplicito nellindicare i presupposti della sua
discussione con il repubblicanesimo giuridico. Per Habermas la tradizione repubblicana
identifica la politica con «la forma di riflessione di un vitale nesso etico» ed è
costitutiva del processo di socializzazione. La nozione repubblicana di cittadinanza,
inoltre, è ispirata dallideale della libertà positiva come mezzo per la
realizzazione etica dellindividuo. In questottica i diritti «soggettivi»
rinviano ad un ordine giuridico «oggettivo» e la politica obbedisce alla logica dei
processi comunicativi orientati allintesa. Di questa concezione così ricostruita,
Habermas approva lenfasi sul «nesso interno tra sistema dei diritti ed autonomia
dei cittadini». Ma critica lidea che nelle fasi ordinarie della prassi
politico-giuridica la Corte costituzionale svolga una funzione vicaria della politica
deliberativa. In questo modo per Habermas la Corte assumerebbe una funzione paternalistica
di «luogotenente repubblicano» delle libertà positive. Tutto ciò per Habermas
dipenderebbe dalla concezione della cittadinanza «non in termini di diritto ma di etica»,
e verrebbe superato dalla teoria del discorso.
Se sostituiamo al repubblicanesimo di cui parla Habermas il repubblicanesimo
machiavelliano la valutazione non può che essere diversa. Al posto della libertà
positiva compare la libertà «tre» e soprattutto la politica non può essere vista come
la forma di realizzazione dellautentica natura delluomo-cittadino. Se
lobiettivo essenziale della politica repubblicana è mantenere aperta la
possibilità di contestare il potere, allora la giurisdizione costituzionale ben
lungi dallessere il luogotenente paternalistico di una politica deliberativa
irrealizzabile nelle società complesse diviene uno degli elementi essenziali di
garanzia e il referente istituzionale dellattivismo civico; una condizione
necessaria, non sufficiente, che richiede comunque un ruolo attivo dei cittadini e la loro
capacità di mobilitazione.
La concezione discorsiva viene proposta da Habermas come unalternativa al
comunitarismo ed al liberalismo. In essa «la ragion pratica non risiede più nei diritti
universali delluomo o nella sostanza etica duna comunità particolare, bensì
in quelle regole del discorso e forme argomentative che derivano il loro contenuto
normativo dalla base di validità dellagire orientato allintesa, dunque
in ultima istanza dalla struttura della comunicazione linguistica e
dallordinamento insostituibile di una socializzazione comunicativa».
A mio parere è piuttosto il repubblicanesimo machiavelliano a suggerire una diversa
«terza via» fra liberalismo e comunitarismo (o umanesimo civico, o repubblicanesimo
aristotelico). Non cè dubbio che il linguaggio dei diritti è estraneo ai
repubblicani romani o a Machiavelli. Ma già per gli autori «neo-romani» del XVII secolo
la libertà viene intesa nel senso del godimento effettivo di un insieme specifico di
diritti civili. Nei testi di Sunstein e di Michelman il linguaggio dei diritti è ben
presente. Nella loro argomentazione i diritti politici godono di uno status analogo
a quello che lo stesso Habermas attribuisce loro: la loro particolarità è
nellessere autoreferenziali, nel permettere cioè lavvio di procedure
democratiche attraverso le quali si possono conquistate e tutelare ulteriori diritti. Né
i diritti civili sono trascurati; sono piuttosto considerati come le precondizioni o come
gli esiti di un processo deliberativo. Per Sunstein molti dei diritti tutelati nella
Costituzione americana, che difendono lautonomia privata dallo Stato «can be
justified in a republican fashion», mentre il sistema dei checks and balances
corrisponde «alla concezione repubblicana centrale secondo cui il disaccordo può essere
una forza creativa». Quello che stride con la concezione repubblicana è la teoria dei
diritti di natura:
I repubblicani naturalmente credono nei diritti, concepiti come il risultato di un
processo deliberativo ben funzionante; di conseguenza approvano con entusiasmo luso
del costituzionalismo per il controllo delle maggioranze popolari. Ma i repubblicani sono
scettici nei confronti di approcci alla politica e al costituzionalismo che fanno
affidamento su diritti presentati come antecedenti la deliberazione politica.
Secondo Michelman la tradizione repubblicana attribuisce particolare valore
allordine legale ed alle condizioni socioeconomiche che permettono lactive
citizenry, la vigilanza contro il dominio. Di qui deriva a republican attachment to
rights:
Questi includono ovviamente la libertà di espressione e il diritto di proprietà.
Possono anche includere diritti di privacy, forse più estesi di quanto
auspicherebbero molti liberali contemporanei. Tuttavia la concezione repubblicana non è
meno legata allidea dellattività politica popolare come sola fonte e garanzia
dei diritti, che allidea del diritto, compresi i diritti soggettivi, come
precondizione della buona politica. La visione repubblicana pertanto richiede una qualche
concezione del modo in cui leggi e diritti possono essere le libere creazioni dei
cittadini e, allo stesso tempo, i dati normativi che costituiscono e sottendono un
processo politico capace di creare diritto costitutivo.
Il fondamento dei diritti va dunque ricercato in «una riserva di materiale
normativamente effettivo», riconoscibile e contestabile, sempre già disponibile. E
questa idea ha forti affinità con limmagine del diritto come integrity
proposta da Dworkin. Michelman allude a un processo di political jurisgenesis cui
partecipano i corpi deliberativi istituzionalizzati, la giurisdizione (in primis
quella costituzionale), e tutte le arene di dibattito pubblico aperto ai cittadini. È in
questo processo che si realizza una dialettica di foundership e citizenship,
«uninterazione reciproca senza fine tra il principio di legalità (che implica il
rispetto per il retaggio storico) e lauto-governo (che implica il rispetto per la
capacità umana di autorinnovarsi)».
Dovrebbe essere chiaro che su questo punto non sussiste un contrasto fra una concezione
comunitaristica che vedrebbe il diritto come il prodotto di una comunità eticamente
integrata e una concezione deliberativa più adeguata alla modernità. Piuttosto,
Michelman è più conseguente di Habermas nel riconoscere il carattere irriducibilmente
contestuale di ogni fondazione anche della morale universalistica, del sistema dei
diritti e del diritto moderno e dunque evita le antinomie in cui Habermas finisce
per cadere. In Sunstein e in Michelman a mio parere opportunamente non si
può giustificare quella netta discontinuità fra questioni «pragmatiche», «etiche» e
«morali» che Habermas sembra presupporre. Sunstein vede la politica moderna come un
continuum in cui entra sia lo scontro di interessi che la prassi deliberativa. E Michelman
nega la possibilità di distaccare le questioni di giustizia dal riferimento al contesto
politico, giuridico e culturale entro cui sorgono. Inoltre Michelman considera il rapporto
fra il principio del rule of law e quello del self-government in termini
dialettici, alla luce di una potenziale antinomia; e anche questo mi sembra un approccio
più promettente del modo eccessivamente conciliatorio in cui Habermas sviluppa
lidea di una scaturigine «co-originaria» di sistema dei diritti e sovranità
popolare.
Cè però un aspetto della tradizione repubblicana cui questi autori accennano,
ma che a mio avviso sviluppano in maniera insufficiente e non «prendono sul serio»
abbastanza. Sunstein ricorda che per i repubblicani il conflitto, la turbulence
può avere effetti positivi, ed elabora un modello «madisoniano» in cui vi è la
possibilità per singoli e gruppi di perseguire i propri interessi. Nel processo
giurisgenerativo di Michelman la mobilitazione e lattivismo hanno unanaloga
importanza. Lo stesso Habermas considera fondamentali i diritti politici perché a loro
volta consentono la mobilitazione per la difesa dei diritti acquisiti e la conquista di
ulteriori diritti. Anche i diritti sociali, che pure potrebbero essere concessi
paternalisticamente, sono riletti alla luce del principio di autonomia e visti nella
prospettiva di un attivismo dei cittadini utenti. E, riprendendo le tesi di Axel Honneth,
Habermas afferma che i criteri che permettono di individuare le categorie da trattare in
modo «eguale» nellallocazione delle risorse e nellerogazione dei servizi,
possono essere definiti solo sul presupposto di una «lotta per il riconoscimento». Una
lotta che costituisce una reazione a sofferenze ed offese, che non possono essere
individuate da altri che dagli interessati. Ma anche in Habermas questa istanza
attivistica e conflittuale finisce per rimanere oscurata dalla generale tendenza ad
enfatizzare gli elementi comunicativi, le istanze di giustizia, gli approcci
universalizzanti. E finisce per andare dispersa nel modello della «politica
deliberativa» proposto dai repubblicani. Invece, una maggiore consapevolezza della
centralità che il conflitto assume in un ampio settore della tradizione repubblicana
potrebbe favorire unelaborazione teorica originale. In particolare, lidea che
la concezione repubblicana dei diritti non esprime il legame con una comunità eticamente
integrata ma piuttosto lattivismo, il conflittualismo, il senso di unidentità
collettiva politica, finalizzata alla tutela degli individui dal dominio.
Da questo punto di vista, è significativo che in alcuni autori britannici della prima
modernità, e in particolare in Ferguson, lapologia repubblicana del conflitto si
incontri con il linguaggio dei diritti:
Ogni contadino ci dirà che un uomo ha dei diritti e che violare questi diritti
costituisce una ingiustizia. Se gli domandiamo che cosa intenda con il termine diritto,
lo costringiamo probabilmente a sostituire ad esso un termine meno espressivo e meno
appropriato; oppure gli chiediamo di spiegare quello che è un modo originario della sua
mente e un sentimento al quale egli, in ultima istanza, si riferisce quando vuole spiegare
a se stesso un suo particolare modo di esprimersi.
I diritti degli individui possono riferirsi a una molteplicità di oggetti ed essere
compresi sotto differenti capitoli. [...] Non è qui compito mio seguire la nozione di
diritto in tutte le sue applicazioni, ma solamente ragionare sul sentimento di
predilezione con il quale questa nozione viene accolta nella mente.
Qui i diritti non sono «naturali» in senso razionalistico, nel senso che il loro
contenuto corrisponda alla natura delluomo come tale; piuttosto esprimono un
sentimento ed un atteggiamento generalmente umano di affermazione della propria dignità.
Qualcosa di analogo al sentimento di ostilità al dominio, al profondo desiderio umano di
dignità, di cui parla Pettit. È da questo punto di vista che la concezione repubblicana
della libertà ha un appeal tendenzialmente universalistico: costituisce un ideale
«capace di ottenere la fedeltà dei cittadini delle società multiculturali sviluppate,
al di là delle loro più particolari concezioni del bene». È possibile rileggere la
storia dellaffermazione del diritto moderno anche come una storia di lotte per il
riconoscimento da parte di individui e gruppi, che hanno affermato e rivendicato i propri
diritti in quanto hanno reagito a situazioni di oppressione. E qualcosa del genere vale
anche a livello interculturale. Quellinsieme di principi che si è sviluppato in due
secoli di storia costituzionale europea, cui Habermas fa riferimento, non può essere
visto come leffetto di un lineare processo di evoluzione, ma piuttosto come il
risultato di una «lotta per i diritti». Se cè qualcosa di universale nei diritti,
consiste forse proprio nel gesto di affermarli, di mobilitarsi per ottenerli, di reagire a
condizioni di sfruttamento ed oppressione prendendo coscienza di unidentità,
affermandola, rivendicando poteri e libertà.
La fondazione dei diritti può allora essere ricondotta ad una sobria ricostruzione del
processo dialettico attraverso il quale si sviluppa il sistema costituzionale entro un
ordinamento giuridico, connettendosi con il dibattito etico-politico sui principi, a
condizione che questa idea venga integrata con lelemento attivistico e conflittuale
(che oltretutto mette al riparo dal «paternalismo» che la giurisdizione, ordinaria e
costituzionale, potrebbe esercitare). I diritti non sono un attributo della natura umana,
né il linguaggio dello Spirito del mondo, né lespressione di presupposti
ineliminabili del linguaggio. Sono concetti attraverso i quali si è riusciti a
sistematizzare e a rendere operativo un essenziale strumento di integrazione e di
trasformazione sociale il moderno diritto positivo e si è riusciti ad
esprimere (a «riconoscere») concezioni etico-politiche che si sono via via affermate e
generalizzate nel corso della modernità, divenendo parte integrante della cultura
etico-politica ereditata dallIlluminismo.
Spero di aver mostrato in queste brevi note qualche esempio di quella che a mio avviso
può essere una possibile utilizzazione della tradizione repubblicana nel dibattito
filosofico-politico e filosofico-giuridico. Ritrovare le tracce di un linguaggio
repubblicano è unoperazione storiografica necessaria per evitare di appiattire
tutto il pensiero politico dellEuropa protomoderna sul giusnaturalismo
contrattualistico, impoverendo la nostra conoscenza delle origini ideologiche della
modernità. Altrettanto importante è individuare le tensioni e le linee di frattura
interne al pensiero politico repubblicano, evitare di assimilarlo alla tradizione
aristotelica e riconoscere la persistenza di un paradigma «machiavelliano». La
consapevolezza di queste tensioni rende probabilmente più ardua lelaborazione di
una teoria normativa, più o meno sistematica, ispirata al repubblicanesimo. Per contro, a
mio avviso permette di tematizzare in modo più perspicuo alcuni problemi della teoria
politica contemporanea. In questo articolo, riferendomi alla «terza» concezione della
libertà, alla concezione dellappartenenza, dellordine e del conflitto, alla
fondazione di diritti individuali, ho provato a mostrare come una più attenta distinzione
fra le varie anime del repubblicanesimo protomoderno permetta di individuare soluzioni
più originali, o comunque di porre i problemi in modo più perspicuo, di quanto non
facciano gli stessi neorepubblicani contemporanei.