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Repubblicanesimo, liberalismo e comunitarismo


Maurizio Viroli


Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it

Con i recenti lavori di Philip Pettit e Quentin Skinner il repubblicanesimo vuole essere non solo una nobile tradizione del passato, ma anche una nuova e ritrovata utopia della libertà politica. Tuttavia, per dare forza allíambizione di essere un progetto intellettuale e politico importante per le democrazie costituzionali, il repubblicanesimo deve chiarire la propria posizione nei confronti delle altre tendenze del pensiero politico contemporaneo, primo fra tutti il liberalismo. La sfida intellettuale che i teorici neo-repubblicani hanno lanciato al liberalismo è una sfida nuova. Nella sua lunga storia il liberalismo è stato criticato in nome della giustizia sociale; in nome della gerarchia sociale e della tradizione; in nome di ideali di perfezione e di rinnovamento morale; in nome di ideali comunitari o in nome di una più ampia partecipazione al potere sovrano. Mai, o raramente, in nome della libertà, ovvero in nome del suo principio fondamentale, tranne quando è stato sfidato in nome della libertà "vera" o "sostanziale" contrapposta alla libertà formale.

Il liberalismo è stato formidabile a difendere gli individui contro le interferenze dello Stato o di altri individui; molto meno a raccogliere le esigenze di libertà degli uomini e delle donne che devono tenere gli occhi bassi o bene aperti per scrutare gli umori del potente che può in ogni momento, senza impunità, constringerli a fare quello che lui vuole, dunque a servire. Quando i liberali hanno voluto lottare anche contro la dominazione, non hanno potuto appellarsi al concetto di libertà come assenza di interferenza, palesemente inetto allo scopo, e hanno dovuto prendere a prestito altri ideali, quali la giustizia, o l'eguaglianza (di qui i vari ibridi peraltro belli: il "Giustizia e Libertà"; "liberalsocialismo"; "liberalismo sociale").

Dal punto di vista storico, il rapporto fra repubblicanesimo e liberalismo è un rapporto di derivazione e innovazione. Il liberalismo è una dottrina derivata dal repubblicanesimo nel senso che ha tratto dal repubblicanesimo alcuni dei suoi principi fondamentali, primo fra tutti quello della difesa dello stato limitato contro lo Stato assoluto. Se è vero, come scrive Bobbio, che tutti gli autori a cui si fa risalire la concezione liberale dello Stato insistono sulla necessità che il potere supremo sia limitato, è altrettanto vero che la medesima esigenza è affermata con altrettanta energia dai teorici politici repubblicani sia per il governo monarchico, sia per le repubbliche. Machiavelli, per fare un ovvio esempio, chiama la "potestà assoluta" "tirannide" e spiega in altro luogo che "un principe che può fare ciò che vuole è pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole, non è savio".

Il liberalismo è una teoria politica individualistica che pone quale fine principale della comunità politica la protezione della vita, della libertà e della proprietà dei singoli. I liberali vantano a ragione tale principio a confronto delle dottrine comunitarie che pongono quale fine della comunità politica líaffermazione di una qualche concezione del bene morale, delle dottrine teocratiche che indicano quale fine della comunità politica il perseguimento della salvezza, infine delle dottrine organicistiche, che indicano quale fine dello Stato il bene della società in generale, o del gruppo, o della nazione. Ma che il fine principale della comunità politica fosse la tutela della vita, della libertà e della proprietà degli individui lo avevano già detto i repubblicani. Cicerone nei De Officiis indica la sicurezza della proprietà come il motivo che ha spinto gli uomini ad abbandonare la condizione della libertà naturale e ad istituire delle comunità politiche; quando Machiavelli spiega in che cosa consiste la "comune utilità che dal vivere libero si trae" non menziona nessun fine collettivo e sottolinea che l'interesse comune che i cittadini traggono dal "vivere libero" consiste nel "potere godere liberamente le cose sue sanza alcun sospetto, non dubitare dell'onore delle donne, di quel de' figliuoli, non temere di sé".

I liberali hanno ragioni da vendere quando proclamano, questa volta contro le dottrine conservatrici dell'armonia sociale e contro l'utopia marxista della società interamente pacifica e pacificata, l'ineliminabilità e la fecondità del conflitto sociale. Ma questa perla di saggezza politica la si deve a Machiavelli, che la propose con la forza dell'innovatore nei Discorsi, dove spiega che i conflitti sociali fra la plebe e il senato nella Roma repubblicana "furono prima causa del tenere libera Roma". Chi poi giustamente ammira Mill per la sua critica del conformismo e per le sue lodi della diversità dovrebbe a maggior ragione ammirare le pagine in cui Machiavelli elogia la varietà del mondo e sottolinea che ognuno deve vivere a modo suo e non alla maniera degli altri.

E' vero che ci sono stati scrittori politici repubblicani che hanno teorizzato la repubblica come una Nuova Gerusalemme in cui deve regnare la morale e la virtù, e altri che hanno sostenuto la necessità della censura e della religione civile, ma il repubblicanesimo classico che precede la nascita del pensiero politico liberale non indugiava in simili fantasie di perfezionamento morale e spirituale.

Un discorso diverso va fatto per il principio della divisione dei poteri. Anche se la riflessione dei teorici liberali è andata su questo tema assai più avanti rispetto ai maestri del repubblicanesimo classico, è del pari vero, come ho mostrato a proposito delle repubbliche, che il principio della divisione dei poteri inteso come distinzione delle funzioni della sovranità, era già ben presente negli scritti dei teorici repubblicani. Propria del liberalismo classico è invece la dottrina dei diritti naturali (o innati, o inalienabili). Benché tale dottrina abbia svolto un ruolo fondamentale per la difesa della libertà individuale e per l'emancipazione di popoli e gruppi, essa soffre di un'evidente debolezza teorica che gli stessi teorici liberali hanno messo in evidenza. I diritti sono infatti tali solo se la consuetudine o le leggi li riconoscono, e quindi sono sempre storici e non naturali, e se non sono storici e non sono riconosciuti dalle leggi sono aspirazioni morali, importanti quanto si vuole, ma nulla di più che aspirazioni morali.

Così come è propria del liberalismo classico, e del liberalismo contemporaneo, la dottrina contrattualistica che presenta le norme fondamentali che devono regolare le istituzioni politiche quali l'esito del consenso che gli individui raggiungono in determinate condizioni (ideali) di scelta. Le varie dottrine contrattualistiche non pretendono di avere valore esplicativo (ovvero di spiegare come si sono formati gli Stati), ma solo normativo, ovvero illustrare per quali ragioni è meglio vivere nello Stato che senza Stato e perchè un tipo di Stato è meglio di un altro. Anche se ci sono stati teorici politici repubblicani contrattualisti (si pensi a Rousseau), la dottrina contrattualistica non appartiene al repubblicanesimo classico. Essi preferivano svolgere i loro argomenti normativi con riferimenti alla storia, paragonando il passato al presente o paragonando le istituzioni di un paese a quelle di un altro. In questo modo non dovevano sobbarcarsi la fatica di passare dal modello ideale alla realtà politica e sociale, e davano alle proprie argomentazioni la forza persuasiva che è propria dell'esempio e della narrazione.

Per quanto sia una tesi tutta da verificare e precisare, si può quindi sostenere che dal punto di vista storico, il liberalismo è debitore nei confronti del repubblicanesimo classico dei principi più validi della sua dottrina, mentre deve solo a se stesso quei principi che alla prova del tempo si sono rivelati meno solidi. E deve soprattutto rimproverare a se stesso, o ad alcuni dei suoi maestri, la colpa di aver dimenticato la concezione repubblicana della libertà politica e di aver in tal modo indebolito, come osservavo poche righe innanzi, la sua capacità di raccogliere le esigenze di libertà come assenza di dipendenza che più di ogni altra è consona all'ideale della libertà civile.

Dal punto di vista teorico, il liberalismo può essere considerato come un repubblicanesimo impoverito, o incoerente, ma non una teoria alternativa al repubblicanesimo. Se accettiamo la tesi di Skinner che i repubblicani, diversamente dai liberali "insistono che vivere in una condizione di dipendenza è di per sé una causa e una forma di costrizione" bisogna concludere che il repubblicanesimo è un liberalismo più radicale e coerente del liberalismo classico. Mentre i liberali ritengono che force or the coercive threat of it constitute the only form of constraint that interfere with individual liberty" (corsivo mio), i repubblicani vogliono ridurre il più possibile la costrizione che pesa sugli individui e per questa ragione sono disposti a lottare anche contro le forme di costrizione che vengono dalla dipendenza.

Se accettiamo la tesi di Pettit che il repubblicanesimo considera la dominazione ma non i vincoli quale nemico principale della libertà, si può sostenere che il liberale considera le leggi (anche le leggi non arbitrarie che mirano a ridurre la dipendenza di alcuni cittadini dalla volontà arbitraria di altri) una restrizione della libertà, mentre il repubblicano considera le medesime leggi quale il più sicuro baluardo della libertà, ed è pertanto ben disposto a sopportare anche severe interferenze per ridurre il peso del potere arbitrario e della dominazione su se stesso e sugli altri.

Questa interpretazione rende tuttavia il repubblicanesimo incompatibile con il liberismo, non con il liberalismo. Molti liberali sono díaccordo con il progetto repubblicano di espandere la libertà oltre i suoi confini presenti. I repubblicani vorrebbero vedere un numero maggiore di donne e di uomini che condividono la cultura della cittadinanza; che considerano l'eguaglianza democratica bella e degna; che non sono disposti a servire altri individui e trattano gli altri con rispetto; che sono pronti ad assolvere i doveri civici e a praticare la solidarietà. Espandere i confini della libertà vuol dire avere più donne e più uomini che non devono dipendere dal giudizio arbitrario di altri per intraprendere una carriera nel settore pubblico o in quello privato; vuol dire che sono sempre meno i cittadini che si sentono indifesi di fronte all'autorità pubblica e alla burocrazia; sempre meno cittadini costretti al silenzio e alla passività perché il loro gruppo sociale, o culturale, o etnico è considerato inferiore, e la loro storia senza valore; sempre meno cittadini discriminati o trattati con arroganza o sufficienza nel luogo di lavoro o che sono confinati, o autoconfinati allíinterno della vita domestica. Per quale ragione i liberali dovrebbero opporsi a questo progetto di libertà? Se i liberali fossero disposti ad incorporare nel loro linguaggio e nelle loro politiche l'ideale della libertà come assenza di dominazione, essi darebbero certamente nuovo vigore al messaggio politico del liberalismo nel prossimo secolo.

Quentin Skinner ha indicato nel linguaggio dei diritti una differenza teorica importante fra repubblicanesimo classico e liberalismo. E' vero che i repubblicani classici, Machiavelli in primo luogo, non parlano di diritti, e tanto meno di diritti innati o naturali dell'uomo. Ma a parte il fatto che vi sono autorevoli teorici liberali che non accettano l'idea di diritti innati o naturali, credo sia importante sottolineare che l'idea moderna dei diritti è perfettamente coerente con l'ideale repubblicano della libertà politica, e con l'ideale repubblicano della vita civile. L'idea, e soprattutto la pratica, dei diritti insegnano ai cittadini un modo di vivere che rifiuta tanto il servilismo quanto l'arroganza, come ha spiegato Tocqueville in un passo ricco di echi repubblicani classici:

Dopo l'idea della virtù, non ne conosco una più bella di quella dei diritti; o piuttosto queste due idee si confondono. L'idea dei diritti non è altro che l'idea della virtù introdotta nel mondo politico. Con l'idea dei diritti gli uomini hanno definito ciò che sono la licenza e la tirannide. Illuminato da essa, ognuno ha potuto mostrarsi indipendente senza arroganza e sottomesso senza bassezza. L'uomo che obbedisce alla violenza si piega e si degrada; ma quando si sottomette al diritto di comandare che egli riconosce al suo simile, si eleva in qualche modo al di sopra di quello stesso che lo comanda. Non vi sono grandi uomini senza virtù; senza rispetto dei diritti non vi è grande popolo: si può quasi dire che non vi è società; infatti cosíè una unione di esseri razionali e intelligenti, il cui solo legame è la forza?.

Nonostante le importanti convergenze che esistono fra liberalismo e repubblicanesimo, ritengo che l'ideale repubblicano della libertà sia per le democrazie contemporanee più utile dell'ideale della libertà come assenza di interferenze. L'ideale repubblicano permette infatti di identificare come mancanza di libertà la dipendenza dalla volontà arbitraria di uno o più individui e soprattutto consente di mettere in evidenza il legame fra libertà e virtù civile in maniera più persuasiva che non líideale liberale della libertà.

Una persona che condivide l'ideale della libertà come assenza di interferenza, potrebbe accettare di compiere alcuni doveri civici - dare denaro a istituzioni di beneficenza, sostenere programmi di solidarietà sociale, partecipare ad associazioni della società civile - o perché ritiene che il suo contributo abbia un valore morale, o perché pensa che il suo atto serva a mantenere la comunità decente e tranquilla, o perché ritiene, come spiegava Benjamin Constant, che l'impegno per il bene pubblico (ovvero il patriottismo, per usare il termine di Constant) serve a difendere la libertà individuale dagli abusi dei governanti e dei cittadini arroganti.

Sarebbe tuttavia difficile convincere la stessa persona ad accettare di essere vincolato dalla legge a dare denaro o a impegnare il proprio tempo per opere di interesse comune in quanto egli vedrebbe nella legge che lo costringe a servire il bene pubblico una limitazione della libertà. La libertà liberale non è solo assenza di interferenza, ma anche "immunity from service", come scrive Hobbes nel Leviathan. I cittadini che accettano l'ideale repubblicano della libertà non chiamano gli atti di servizio per il bene comune che la legge impone una violazione della libertà per la ragione che essi identificano la mancanza di libertà solo con la dominazione, non con l'interferenza. Diversamente dal liberale, che considera il servizio pubblico una restrizione della libertà, i repubblicani considerano il servizio quale il compagno naturale della libertà. Essi sanno, per tornare ancora una volta a Hobbes, che i cittadini di Lucca devono servire il bene pubblico molto più dei sudditi del sultano di Costantinopoli. Nonostante questo essi si sentirebbero molto più liberi a Lucca che a Costantinopoli.

Per quanto importanti siano le differenze fra repubblicanesimo e liberalismo, ancora più marcate sono quelle che separano il repubblicanesimo dalle varie filosofie comunitarie che propongono, quale mezzo per ravvivare la virtù civile dei cittadini, un rafforzamento dell'unità morale e culturale delle nostre società democratiche. Eppure, per ragioni che non è qui il caso di indagare, la convinzione che il repubblicanesimo sia una forma di comunitarismo è largamente diffusa nella teoria politica internazionale. Jurgen Habermas, per citare un esempio significativo, ritiene che il repubblicanesimo sia una tradizione intellettuale derivata da Aristotele che si basa sul principio della cittadinanza come appartenenza ad una comunità etno-culturale che si autogoverna. Il repubblicanesimo, a suo giudizio, è una dottrina che considera i cittadini come parti della comunità che possono sviluppare ed esprimere la propria identità ed eccellenza morale solo all'interno di una tradizione e di una cultura condivise che comprendono una concezione comune del bene morale.

A parte il fatto che l'interpretazione del repubblicanesimo come una forma di aristotelismo politico è un errore storico, per i teorici repubblicani essere cittadini non significa tanto appartenere ad una comunità etno-culturale che si autogoverna, ma significa anche esercitare i diritti civili e politici che derivano dall'appartenenza ad una respublica, o civitas, ovvero ad una comunità politica prima che culturale o etnica, che ha per fine permettere agli individui di vivere insieme nella giustizia e nella libertà sotto il governo della legge. Per i repubblicani il bene comune più importante è la giustizia, perché solo nella città giusta gli individui non sono costretti a servire la volontà di altri uomini e possono vivere liberi. Il fondamento della repubblica è dunque quella stessa idea di eguale diritto o di giustizia che i filosofi comunitari vorrebbero arricchire con una concezione condivisa del bene morale.

Per gli scrittori politici repubblicani, la repubblica non è un'astratta realtà politica, ma un bene che i nostri genitori e i genitori dei nostri genitori hanno contribuito a costruire e conservare e che è compito nostro conservare, se vogliamo che i nostri figli vivano liberi. Ogni città, noi oggi diremmo ogni comunità nazionale, è particolare, ha una sua storia e suoi caratteri che la differenziano dalle altre città, ma per essere una vera repubblica essa deve essere fondata sulla giustizia. Una repubblica che si fonda sulla giustizia e sul governo della legge può rispondere alle esigenze di amicizia, solidarietà e appartenenza che i comunitari sollevano. Ma se costruiamo la nostra città su una particolare concezione del bene, su una particolare cultura, non avremo una città giusta, una città di tutti, ma la città di alcuni e per alcuni.

Un altro errore che deve essere notato a proposito delle interpretazioni contemporanee del repubblicanesimo, è l'idea che il repubblicanesimo considera la partecipazione all'autogoverno quale valore o fine prioritario della repubblica. Come ho già osservato, i repubblicani classici consideravano la partecipazione dei cittadini alla vita della repubblica importante sia per la conservazione della libertà sia per l'educazione civile dei cittadini, e quindi da incoraggiare in tutti i modi ragionevoli. Essi non consideravano però la partecipazione quale il valore o il fine principale della repubblica, bensì come un mezzo per proteggere la libertà e selezionare i cittadini migliori e affidare ad essi incarichi di responsabilità. Avere dei buoni leader è più importante che la partecipazione dei cittadini a tutte le decisioni. Ciò che più conta è che chi governa e chi delibera desideri servire il bene comune, nel significato che ho chiarito.

L'uguaglianza repubblicana non comprende solo l'uguaglianza dei diritti civili e politici, ma afferma líesigenza di garantire a tutti i cittadini le condizioni sociali, economiche e culturali che consentano a ciascuno di vivere la propria vita con la dignità e il rispetto di sé che sono propri della vita civile. I maestri del repubblicanesimo moderno ci hanno lasciato due considerazioni particolarmente preziose sul tema dell'uguaglianza sociale. La prima, formulata da Machiavelli, è che la povertà non deve tradursi né nell'esclusione dagli onori pubblici, né nella perdita della stima. La seconda, che dobbiamo a Rousseau, è che in una repubblica degna del nome nessuno deve essere così povero da essere costretto a vendersi, ovvero a vendere la sua lealtà e la sua obbedienza a cittadini potenti e ricchi, e diventare quindi un servo o un cliente.

Questi due principi sono i presupposti fondamentali dell'uguaglianza repubblicana del nostro tempo. Il primo impone alla repubblica di impedire che la povertà chiuda in faccia ai cittadini poveri le porte delle carriere pubbliche e private, dell'istruzione e della comunicazione: deve impedirlo per ragioni di giustizia, in quanto non può tollerare che molti cittadini siano costretti all'umiliante esperienza dell'esclusione e perché vuole che siano davvero i migliori, non i ricchi e i privilegiati, ad affermarsi nella competizione per gli onori e la distinzione, e proprio perché vuole, e ha bisogno, che siano davvero i migliori a vincere, esige che la gara sia leale.

Il secondo principio, quello rousseauiano impone alla repubblica l'esigenza di garantire a tutti il diritto al lavoro e i diritti sociali che impediscano agli individui di scendere troppo in basso, se la fortuna si accanisce contro di loro. Da un punto di vista repubblicano, i diritti sociali non possono essere tuttavia confusi con l'assistenzialismo che crea dei clienti a vita dello Stato, sanziona dei privilegi e non incoraggia gli individui ad aiutarsi da soli. Non devono neppure essere confusi con la carità pubblica (o peggio ancora privata) che offre l'assistenza come atto di buona volontà dello Stato. La carità pubblica (e privata), per quanto lodevole, è incompatibile con la vita civile perché offende la dignità di chi la riceve. Essere malati, o anziani, non è una colpa; e la repubblica, anche se molti non lo sanno, non è una società per azioni, ma una forma del vivere comune che ha per fine la dignità dei cittadini. Per questa ragione la repubblica ha il dovere di garantire assistenza non come atto di compassione ma come riconoscimento di un diritto che deriva dall'essere cittadini. Deve dunque assumersi l'onere di assistere i suoi cittadini senza fare pesare l'aiuto che essa offre e senza affidare a privati l'onere che è suo.


 

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