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Due modelli di repubblicanesimo (e di liberismo)


Nadia Urbinati


Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it

1. L'affermazione della teoria normativa liberaldemocratica e la rinascita del pensiero repubblicano come progetto teorico sono stati due fenomeni concomitanti. I testi che hanno segnato l'identità della disciplina in questi ultimi tre decenni sono del resto due, A Theory of Justice di John Rawls (1971) e The Machiavellian Moment di J.G.A. Pocock (1974). L'egemonia (accademica) liberale, laddove questa esiste, non è mai riuscita a sopire la sfida del repubblicanesimo, la cui presenza è in effetti tutt'altro che marginale.

Il confronto tra liberalismo e repubblicanesimo ha in certo qual modo influenzato entrambi: il liberalismo prende in prestito dai repubblicani una teoria liberale della cittadinanza che esso non ha ed è pronto a stringere un'alleanza con il repubblicanesimo di matrice neo-romana contro quello comunitario, suggerendo ad alcuni studiosi di opporre il "liberale" Machiavelli al platonico Rousseau; il repubblicanesimo, che ha metabolizzato la contestata coppia libertà positiva-libertà negativa fino a riconoscersi come una famiglia composita, divisa tra una corrente aristotelica e una neo-romana o ciceroniana.

A Rawls si deve la legittimazione da parte liberale di una prospettiva repubblicana non pregiudizialmente nemica delle prerogative dell'individuo privato (classical republicanism) contro una fondamentalmente illiberale che assegna alla cittadinanza un valore in sé (civic humanism). A Quentin Skinner si deve, infine, la distinzione tra repubblicanesimo vero e proprio (filosofia del vivere civile) e aristotelismo, intendendo con il primo una teoria della libertà politica e con il secondo una teoria della vita buona attraverso la politica.

Come per Pocock anche per Skinner il perno è Niccolò Machiavelli: nell'un caso, un Machiavelli che riconferma l'estraneità del repubblicanesimo alla dottrina della libertà negativa; nell'altro, un Machiavelli che è, se così si può dire, liberale prima ancora della nascita del liberalismo perchè ha una teoria della libertà che è strumentale all'acquisto di altri beni, non un bene in sé. La libertà come sicurezza dei possessi e come padronanza di sé è, secondo Skinner, il nocciolo della teoria politica di Machiavelli e del repubblicanesimo in generale.

Se si scorre la produzione teorica e storiografica degli ultimi tre decenni, si vedrà che il tema centrale del discorso repubblicano è restato per lo più ancorato ai suoi rapporti con il liberalismo. Fin qui, del resto, la teoria democratica - quella partecipativa non meno di quella pluralista - non ha offerto al repubblicanesimo punti di riferimento qualificanti. La prima è rimasta fedele, se non altro fino alla diffusione del pensiero di Jurgen Habermas, alla dottrina della libertà positiva, e - così nel mondo di lingua anglosassone - ha insistito essenzialmente sulle forme dirette della sovranità e sul valore dell'unità del corpo politico, confermando le sue radici rousseauiane.

Quando non ha seguito questa strada radicale, la teoria democratica ha per lo più mantenuto un rapporto preferenziale con la teoria delle Èlite e delle procedure di selezione elettorale. Se per gli uni la rappresentanza è quasi niente e la partecipazione quasi tutto, per gli altri è vero il contrario; in quest'ultimo caso, la stabilità democratica è direttamente associata ad una cittadinanza apatica.

Relativamente alla teoria pluralista della democrazia, il rapporto con il repubblicanesimo è stato essenzialmente un rapporto con il costituzionalismo madisoniano. Per Robert Dahl due sono i repubblicanesimi possibili: l'uno insiste sugli internal checks ovvero sulla formazione della virtù civile attraverso l'educazione; l'altro, invece, insiste sugli external checks ovvero sulle procedure istituzionali che producono esiti virtuosi a partire da attori non virtuosi. La conclusione di Dahl è che rispetto alla democrazia costituzionale moderna solo uno è il repubblicanesimo spendibile, quello non aristotelico. La sua proposta richiama quella di Rawls, ma con un'importante differenza: Dahl usa la lettura di Pocock e mette Machiavelli fra gli aristotelici e i comunitari, mentre Rawls si affida alla lettura di Skinner ed espunge l'autore del Principe dalla compagnia anti-liberale.

Dei due, il meno convincente è il primo, se non altro perchè leggere Machiavelli semplicemente come un teorico della formazione del "super-ego" - via religione civile - impedisce a Dahl di vedere che il costituzionalismo madisoniano può essere letto come un caso di trasferimento della teoria machiavelliana del conflitto come fonte di libertà dal piano sociale (patrizi e plebei) a quello istituzionale (checks and balances).

Teoria liberale e teoria democratica hanno viaggiato, se così si può dire, su binari intersecanti, in quanto entrambe hanno adottato come loro fulcro interpretativo il criterio delle due libertà. Un'interessante innovazione interpretativa rispetto a questo panorama teorico modellato su un liberalismo agnostico potrebbe venire dalla teoria habermasiana della democrazia deliberativa. Infatti, nonostante Habermas rimanga fedele ad una lettura aristotelica del repubblicanesimo - una lettura mutuata da Hannah Arendt - che non gli consente di vedere alcuna possibilità di cooperazione tra repubblicanesimo e teoria normativa della democrazia, tuttavia mi sembra che la nozione stessa di democrazia deliberativa contenga interessanti potenzialità, tanto per la teoria liberale quanto, soprattutto, per quella repubblicana. Essa infatti sposta l'accento dall'individuo privato e i suoi diritti alla costruzione della comunità politica democratica attraverso il discorso e la dialettica tra attori sociali, integra cioè il discorso liberale delle garanzie giuridiche con il discorso democratico dell'istituzionalizzazione dell'agire politico.

La teoria deliberativa della democrazia può, mi sembra, consentire di mettere in luce aspetti finora ignorati tanto della tradizione liberale quanto di quella repubblicana. E' questa l'ipotesi che orienterà il mio breve intervento, il quale sarà niente di più che un'annotazione schematica del percorso teorico e interpretativo che sto attualmente portando a termine.

Nella prima parte traccerò la genealogia del rapporto preferenziale del repubblicanesimo con il liberalismo. Mostrerò come il liberalismo della dicotomia libertà positiva-libertà negativa si sia originariamente imposto come argine contro la teoria repubblicana settecentesca e sia stato un prodotto essenzialmente francese, spendibile tuttavia contro altri giacobinismi. Ma né quel liberalismo né il repubblicanesimo da esso rappresentato erano le uniche versioni disponibili in Europa, anche se sono state quelle vincenti. In Inghilterra, infatti, dove le forze liberali non avevano nemici a "sinistra" ma a "destra", il liberalismo non era mosso dalla necessità di rivendicare una contrapposizione fra le libertà liberali e la libertà politica. Semmai, esso doveva difendere la proposta di estendere quest'ultima mostrando che, contrariamente ai timori dei seguaci di Edmund Burke, la trasformazione liberal-costituzionale non avrebbe né abbassato il tenore delle virtù civili (azzerando il contributo della "higher class") né legittimato l'assalto degli interessi particolari alle istituzioni politiche.

In sostanza: tanto Jean-Jeacques Rousseau quanto Thomas Carlyle prendevano il passato a modello: l'uno per trovarvi un linguaggio politico capace di rovesciare, nel presente, l'ordine plurale dei corpi intermedi, l'altro invece per resistere a quel progetto e difendere quell'ordine gerarchico. Radicali come John Stuart Mill e George Grote (sul quale ha scritto pagine straordinariamente belle Arnaldo Momigliano) non solo non hanno seguito le orme dei loro contemporanei francesi Benjamin Constant e Francois Guizot, ma hanno inoltre criticato la loro lettura ideologica della libertà degli antichi e proposto un'interpretazione del repubblicanesimo più interessante e più plausibile.

Ora, questo liberalismo preoccupato a cercare i fondamenti storici della transizione dei moderni verso la democrazia rappresentativa ha intrattenuto un rapporto con il repubblicanesimo che non è stato né di contrapposizione né di emarginazione. L'esigenza di giustificare la funzione "civica" delle istituzioni rappresentative ha portato i contemporanei inglesi di Constant e Guizot da un lato, a soffermarsi sulle similitudini - anziché sull'incomparabilità - tra le forme antiche e le forme moderne della deliberazione pubblica e dall'altro, a distinguere tra forme diverse di repubblicanesimo. Per Mill e Grote, l'assemblea dei governi rappresentativi era un adattamento moderno dell'agorà, certo non per la sua composizione, ma invece per la forma del linguaggio politico e del processo di formazione del consenso che essa implicava: dibattito pubblico, stile forense, ancoraggio delle decisioni politiche alla giustificazione.

Delle repubbliche del passato - e dei teorici repubblicani - essi esaltavano quindi un aspetto diverso e che aveva poco a che fare con il fanatismo della "felicità pubblica" denunciato da Constant: quello del dissenso, dell'antagonismo politico e ideale, del confronto pubblico e libero delle opinioni e degli interessi.

Come mostrerò nella seconda parte, da questa tradizione liberale - preoccupata non tanto di definire che cosa la libertà politica dei moderni non poteva essere, ma come quella libertà poteva esprimersi - è emersa una lettura duale dell'esperienza repubblicana che può essere ancora interessante: da un lato un repubblicanesimo che chiamerò deliberativo e antagonistico, dall'altro un repubblicanesimo razionalista e armonicista.

2. Il dibattito sulla libertà degli antichi e la libertà dei moderni ha segnato l'età della Restaurazione ed è culminato nella teoria del governo rappresentativo. Esso ha avuto per protagonisti due tipi di liberalismo: uno fondato sulla teoria dell'incompatibilità tra libertà individuali e virtù politiche (Constant e Guizot) e uno persuaso che le due forme di libertà potessero cooperare (Mill). Lo spettro del giacobinismo (il "liberalismo della paura") ha decretato la vittoria del primo modello segnando anche l'identità del liberalismo contemporaneo e, per converso, del repubblicanesimo - la teoria delle due libertà di Isaiah Berlin è figlia di questa tradizione. Constant ne è stato il primo raffinato teorico, ma le sue tracce si trovano già negli scritti di Montesquieu e di David Hume.

Il primo ha infatti contribuito a identificare la libertà delle antiche repubbliche con un'economia agraria e a sottolineare l'antitesi tra commercio e virtù - nell'immediato ha legittimato i sentimenti di diffidenza verso la civiltà del consumo e il lusso e il richiamo nostalgico alle virtù degli antichi; in prospettiva avrebbe dato buoni argomenti a quei liberali che, come Constant e Guizot (o Tocqueville), cercavano di provare quanto estranea fosse ai moderni la virtù degli antichi. Circa Hume, infine, egli ha ancora più esplicitamente associato la virtù delle repubbliche antiche alla pratica della conquista, e opposto la socievolezza e moderazione dei mores dei moderni allo spirito guerresco degli antichi.

Il progetto anti-repubblicano si è concretizzato negli anni compresi fra la fine dell'Impero e la rivoluzione di luglio, cioè in concomitanza alla messa a punto delle istituzioni del governo rappresentativo. Insisto sulla Francia e non sull'Inghilterra, perché mentre dobbiamo a quest'ultima il modello istituzionale parlamentare, è dalla Francia che proviene il bagaglio dottrinario e ideologico del liberalismo contemporaneo. Il liberalismo che si trova in Considerations on Representative Government di Mill non presenta gli stessi caratteri anti-repubblicani e soprattutto è costruito non contro, ma a partire dall'esperienza degli antichi.

Come ho già accennato, le ragioni di queste differenze prospettiche sono senza dubbio storiche: gli antagonisti di Constant, com'egli stesso ha scritto, appartenevano al recente passato, erano Malby e Rousseau i teorici che avevano creato il mito degli antichi e soprattutto di Sparta. Gli antagonisti di Mill erano i Tories suoi contemporanei. Anche questi ultimi si servivano del passato, ma per farne un'arma polemica contro un presente che evolveva verso la democrazia. Del passato essi produssero pertanto un'immagine dicotomica opponendo l'ordinata Sparta alla disordinata Atene. Lo storico William Mitford, autore di una popolare storia della Grecia e l'esponente del pensiero anti-liberale inglese con il quale Mill e Grote si confrontarono, diede di Sparta uníimmagine opposta a quella che ne diedero i repubblicani francesi. Rifacendosi a Hume, egli ne avallò una lettura conservatrice: anziché un modello di buona repubblica, nelle sue mani Sparta diventò di fatto uníoligarchia agraria simile alla società britannica che i Tories idealizzavano, dove gli "iloti erano i lavoratori. Gli spartiati erano i soldati e i gentlemen". Al contrario, Atene diventava il simbolo della repubblica degenerata in democrazia, a causa della sua assemblea popolare, dove tutti potevano liberamente intervenire e dove la retorica regnava sovrana impedendo alla saggezza di governare.

Che fossero i "reazionari" a difendere Sparta rese il compito dei radicali inglesi molto diverso da quello dei liberali francesi. Se per questi ultimi occorreva mettere una distanza incolmabile tra gli antichi e i moderni per liberare i secondi dal mito della perfetta eguaglianza comunitaria, per Mill e i suoi alleati radicali si trattava invece di opporre non i moderni agli antichi, ma invece Atene a Sparta, la democrazia della deliberazione pubblica alla repubblica ordinata e oligarchica. Per gli uni e gli altri il repubblicanesimo non significava dunque la stessa cosa. Furono gli inglesi a mettere in luce due forme del repubblicanesimo, una fondata sull'idea di unità e di eguaglianza come identità, l'altra fondata sul pluralismo delle forze sociali e politiche; una ispirata a un linguaggio politico di tipo razionalistico da dove dissenso e retorica erano banditi, líaltra ispirata a una visione deliberativa della formazione della decisione politica.

E' precisamente il modello statico e non argomentativo che Mill respinge. A questo egli oppone la Roma dei Tribuni e, soprattutto, l'agorà ateniese. Ora, poiché i Tories ammiravano Sparta proprio perché la sua Costituzione imponeva una distinzione netta fra discussione (riservata al senato) e voto (riservato all'assemblea), Sparta venne identificata da Mill con un modello statolatra e conservatore di repubblica. In conclusione, non era tanto la partecipazione o la presenza fisica nellíassemblea che bastava a qualificare una repubblica come democratica, ma invece la forma e lo stile della partecipazione.

Anziché distinguere tra la libertà degli antichi e quella dei moderni, i liberali inglesi proposero dunque qualche cosa di diverso: da un lato, di distinguere all'interno dell'esperienza repubblicana fra un modello armonicista e uno antagonista; dall'altro di considerare anacronistica e storicamente infondata una lettura uniforme del repubblicanesimo classico come inclusione totale dell'individuo nella vita dello Stato. Come ha recentemente mostrato Mogens H. Hansen, si deve ai radicali inglesi l'avere messo in luce cioè che da Constant fino a Berlin i liberali hanno invece completamente trascurato, e cioè che líinterpretazione della democrazia che ci viene dallo stesso Aristotele, e che trova conferma nell'orazione funebre di Pericle, non contempla soltanto il principio dell'autonomia politica (i cittadini governano e sono governati a turno), ma anche quello dell'autonomia morale (ciascuno ha la libertà di "vivere come gli piace").

Mill criticò decisamente "ciò che sentiamo spesso dire" sul "totale sacrificio, nelle antiche republiche, della libertà dell'individuo a un immaginario bene dello Stato". Parafrasando Machiavelli, del quale egli usava spesso citare i Discorsi, Mill era persuaso che la bontà della libertà politica fosse confermata prima di tutto dalla dinamicità della società civile.

3. Ma è il discorso dei radicali inglesi sui due modelli repubblicani di deliberazione che interessa di più. Nella recensione della History of Greece di Mitford, pubblicata nel 1826, Grote avanzò due tesi: innanzi tutto che la lettura di Mitford della democrazia ateniese come dispotismo di un'assemblea demagogica era storicamente infondata, e infine che un governo retto su un'assemblea che non si limitava soltanto a votare ma discuteva era indicativo di un buon ordine politico che sapeva trarre profitto dal conflitto della società civile. La conclusione di Grote era che la retorica e il piacere della discussione denotavano non soltanto un governo più libero, ma anche una società civile più dinamica e progressiva.

L'opinione che i radicali inglesi contestavano aveva una lunga e autorevole tradizione che attraversava la stessa cultura repubblicana. Il riferimento a Sparta come archetipo della buona repubblica è illuminante, perché Sparta prima di diventare un modello per i conservatori inglesi aveva goduto di grande reputazione presso gli autori repubblicani, soprattutto a partire dall'età post-umanistica. Sparta fu un modello per James Harrington come per Rousseau, non per Machiavelli e neppure per Francesco Guicciardini. Machiavelli preferì Roma a Sparta, Guicciardini le preferì Venezia (e Roma). Circa i liberali inglesi ottocenteschi, questi identificarono il mito di Sparta con un modello razionalistico deduttivo, che essi chiamarono "dogmatico" e anti-socratico.

Schierarsi con Sparta significava, tra le altre cose, assegnare all'assemblea popolare una funzione molto limitata e passiva, e infine concepire la pace sociale e l'ordine come più importanti dell'auto-governo e della libertà. Il disprezzo della retorica e l'ammirazione per il laconismo dell'assemblea spartana erano tra loro strettamente legati mentre riflettevano il clima razionalistico della filosofia politica post-cartesiana e post-hobbesiana. L'apprezzamento della retorica e dellíarte della disputazione pubblica apparteneva ai tempi di Machiavelli non a quelli di Cartesio e di Hobbes, al repubblicanesimo delle libere città italiane più che a quello inglese.

I capitoli diciotto e cinquantotto del primo libro dei Discorsi (da dove Mill usava prendere la citazione in difesa della capacità del popolo di scegliere con saggezza) sono i luoghi dove Machiavelli riconosce ai cittadini una virtù che è soltanto loro, ovvero la capacità deliberativa. Il popolo riunito in assemblea non era ritenuto capace soltanto di "giudicare" le proposte che venivano dal senato e di votare. L'ordine romano era "buono" perché permetteva a ciascun cittadino di esporre liberamente ciò che pensava fosse bene per la repubblica scegliere o respingere: "ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire l'opinione sua, acciò che il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere meglio".

A Roma, continuava Machiavelli, non soltanto il senato ma anche "poteva uno tribuno e qualunque altro cittadino proporre al Popolo una legge, sopra la quale ogni cittadino poteva parlare o in favore o incontro, innanzi che la si deliberasse". Infine nel Dialogo del reggimento di Firenze di Guicciardini è proprio il realista e conservatore Bernardo del Nero che offre buoni argomenti in favore della pratica deliberativa del Consiglio Grande, "l'anima" della Repubblica fiorentina. I senatori "digerivano" le informazioni ricevute dai rappresentanti dei quartieri e infine le sottoponevano all'assemblea, nella quale i cittadini avevano facoltà di discutere e contraddire e di "parlare più di una volta", cosicché dopo che "ciascuno" aveva avuto l'opportunità di "difendere" o "mutare la opinione sua" aveva luogo la votazione finale.

La retorica e la fiducia nella deliberazione pubblica caddero in discredito insieme allo sviluppo dell'epistemologia scientifica. Il repubblicanesimo di James Harrington, come è delineato in Oceana, condivideva la stessa fiducia di Hobbes nella razionalità quando trasferiva la funzione discorsiva dall'incompetente assemblea al competente senato. Contrariamente all'opinione di Machiavelli, ora l'assemblea riceveva le proposte e le votava senza discutere. Il suo era un lavoro fatto "in silenzio". Più interessante ancora è vedere che il criterio che Harrington propone per distinguere il buon commonwealth dalla democrazia (che per lui è la degenerazione della repubblica) è proprio il carattere dell'assemblea, non semplicemente la presenza di un'aristocrazia o le forme e l'estensione del suffragio. La virtù di discutere liberamente è solo dei "pochi". Questo spiegava perché benché tanto Sparta quanto Atene avessero un senato e uníassemblea popolare, tuttavia soltanto la prima era riuscita a godere di una lunga stabilità. Atene (come anche Roma) degenerò perché la sua Costituzione consentiva al popolo "di risolvere e troppo spesso anche di discutere". Un'assemblea "tumultuosa" come l'aveva immaginata Machiavelli rifletteva, e soprattutto stimolava, i conflitti sociali, le divisioni del corpo politico e infine l'anarchia.

Come Hobbes prima e Mitford dopo di lui, Harrington situava il difetto della democrazia nel sofismo e nella retorica. Quanto il popolo è stato istruito ad evitare dispute, si legge nella History of Greece di Mitford, l'assemblea non è più pericolosa. Le leggi di Licurgo davano al popolo di Sparta "soltanto il potere di confermare o annullare una proposta del senato, proibendone il dibattito: all'assemblea era solo consentito assentire o dissentire, senza tuttavia poter parlare o dichiarare le ragioni del voto".

Mitford si compiaceva di sostenere la sua opinione con le parole di Rousseau. E aveva ragione, perché Rousseau non diede una descrizione diversa del corpo legislativo in una repubblica bene ordinata. Rousseau condizionava l'esistenza delle buone leggi all'assenza della retorica oltre che alla semplicità dei costumi: meno sofisticato il ragionare dei cittadini meno improbabile che gli interessi particolari vincessero sulla volontà generale. Il bene pubblico, si potrebbe dire, stava prima del voto, il quale serviva a svelarlo non a costruirlo. Per Rousseau la presenza politica non doveva articolarsi secondo forme indirette, perciò se non ammetteva la rappresentanza era perché prima ancora non ammetteva il discorso pubblico. Egli voleva che il ragionamento avvenisse nel silenzio della mente, perché solo così la volontà generale poteva stare al riparo dall'influenza delle opinioni e del potere persuasivo dell'argomentare.

Le conclusioni di autori così diversi tra loro per affiliazione politica, come Harrington e Rousseau da un lato e Mitford dall'altro, confermano di una sorprendente similarità con l'idea di Hobbes secondo la quale la fine dell'ordine politico comincia nel momento in cui i sudditi discutono e dibattono liberamente. Nello stabilire un legame profondo tra passioni e politica, Hobbes aveva derivato la vanagloria, la più bassa e pericolosa delle passioni, dal piacere della disputa, un'opinione che Bentham rimise in onore nell'età di Mill (e che Mill criticò).

Parafrasando Mill, per "Platone il dogmatico" come per Hobbes o Bentham, "la conoscenza politica, e della verità in generale, era essenzialmente una scienza dell'ordine che indicava la giusta relazione tra gli uomini, le cause del male, e infine prescriveva il modello perfetto per l'intera comunità". Non fu un caso che Mill giustificasse la necessità di distinguere fra un Platone dogmatico e un Platone socratico alludendo agli esiti illiberali che venivano da una trattazione delle discipline umane more geometrico.

Mill assegnò dunque all'assemblea rappresentativa lo stesso carattere che Harrington aveva criticato dell'assemblea ateniese e del tribunato romano. Come lui anch'egli pensava che a caratterizzare la democrazia non fosse tanto l'assenza di una aristocrazia (l'elezione era in realtà una forma di selezione aristocratica), ma il fatto che soltanto in una democrazia l'assemblea era un'arena dove le ragioni dell'assenso e del dissenso erano espresse liberamente ed esplicitamente. L'assemblea rappresentativa di Mill era perciò molto diversa dall'assemblea di Harrington e di Rousseau, e molto simile a quella descritta da Machiavelli.

Dunque, se dal liberalismo della dicotomia delle due libertà spostiamo l'attenzione al liberalismo del "governo per mezzo della discussione" vediamo che quest'ultimo ha rimesso in circolazione la tradizione deliberativa del repubblicanesimo pre-razionalista facendone la sorgente stessa della democrazia moderna. In questo modo, esso ha contribuito a mettere in luce un aspetto della teoria repubblicana che è stato invece trascurato dalla letteratura contemporanea. Mill ha compreso che era proprio la forma rappresentativa dell'assemblea moderna a rendere necessario che l'assemblea adottasse il modello dell'agorà e del tribunato. Ciò avrebbe dato ai cittadini la possibilità di partecipare in qualche modo al dibattito politico - per esempio attraverso i mezzi di informazione, i partiti e le associazioni - così da mantenere un contatto continuo con i propri rappresentanti, per controllarli e giudicare il loro operato.

In conclusione, mi sembra che líacquisizione di una visione più articolata e ricca della tradizione repubblicana passi necessariamente attraverso una visione più articolata e ricca della tradizione liberale. Una visione attenta non soltanto alle garanzie giuridiche delle libertà individuali, ma anche alle forme attraverso le quali si esprime e si struttura la partecipazione politica e la legittimità democratica.

 

 

 

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