Questo articolo è apparso sul Corriere
della Sera (www.corriere.it) del 25 Gennaio 2000
Di paragonabile al Collège de France, per ora, ci sono soltanto i cassettoni
rinascimentali e gli affreschi del Cinquecento. E lui, fino a prova contraria, non è
Francesco I. Ma l'autostima non è mai stata il suo problema. «Penso - dice Umberto Eco -
a un luogo dove si organizzino corsi slegati da ogni facoltà, aperti al mondo scientifico
e accademico, e anche ai cittadini. Lezioni magistrali, tenute da personalità di rilievo
internazionale. Un po' come il Collège, appunto. Cominciamo il 31 gennaio con Elie
Wiesel, testimone dell'olocausto, scrittore e premio Nobel per la Pace, che parlerà del
Talmud. Seguirà Luciano Berio, con una serie di conferenze sulla musica». Si vedrà. Per
intanto, bisogna pensare a dettagli più prosaici. I divani non passavano dalle porte, li
hanno dovuti issare con una gru, e sono finiti nella stanza sbagliata. Tutto da rifare.
C'è un gran trambusto al piano nobile di Palazzo Marchesini, nel centro di Bologna:
qui, l'8 febbraio, si installa ufficialmente la Scuola Superiore di Studi Umanistici,
fondata e presieduta dal professor Eco. Cinquecento metri quadrati di cenacolo per
«turbolaureati», la crema dei dottorandi: filosofi, letterati, psicologi, linguisti,
scienziati politici. Il Collège de Bologne. Un progetto a lungo accarezzato dal principe
della semiologia atterra nella città di Guazzaloca. A inaugurarlo forse verrà il
presidente Ciampi, che da buon «normalista» è molto sensibile a queste iniziative. «Il
brusio sulle cosiddette scuole di eccellenza - dice Eco - sta attraversando da un po' di
tempo il mondo universitario italiano. E non solo italiano. Anche all'estero lamentano
l'abbassamento del livello degli studi. L'università di massa è inevitabile, ma richiede
dei correttivi di élite».
Nella sua casa di Milano, dove ci riceve, il professore ha le valigie pronte. A giorni
parte per Timbuctù, nel cuore dell'Africa. Con la scusa del solito convegno, realizza un
vecchio sogno. «Era la capitale dell'impero del Mali, durato fino al Rinascimento. Un
luogo salgariano. Ho ritrovato delle corrispondenze straordinarie di Mario Appelius che
raccontano la città negli anni Trenta». Ma l'avventura più eccitante, in questo
momento, è proprio la Scuola. Patrocinata dal rettore bolognese, Fabio Roversi Monaco, e
dal preside di lettere, professor Walter Tega, che se ne accollerà i costi (meno di cento
milioni il primo anno), avrà caratteristiche di estrema flessibilità.
Spiega Eco: «Invece di puntare sull'hardware, come potrebbe essere un collegio
universitario, o un facsimile della Normale di Pisa, ci accontentiamo del software: il
coordinamento delle scuole di eccellenza già esistenti, cioè i corsi di dottorato. Hanno
già aderito i colleghi di Scienze della Formazione, di Lingue e di Scienze Politiche. È
come un supermarket: ognuno pesca quello che vuole. Per ora non rilascerà titoli di
studio particolari. Il che non esclude che in futuro alcuni corsi avanzati di
specializzazione possano incardinarsi nella scuola. A me piacerebbe, ad esempio, un master
biennale di editoria ad altissimo livello».
I maligni diranno che Eco si è fatto il suo ateneo personale.
«Pace, tanto tra qualche anno vado in pensione, e ci penserà qualcun altro. Del resto
io sono il presidente, ma c'è un collegio dei probiviri, con intellettuali come Ezio
Raimondi, Lucio Gambi, Roberto Leydi, personaggi autorevoli e fuori dai giochi
accademici».
Ma che cosa faranno i vostri dottorandi se gli attuali ricercatori diventassero tutti
professori ope legis?
«Che cosa vuole che facciano? Andranno a zappare. Questa idea della sanatoria è
immorale per almeno due motivi. Il primo è che nell'università ci devono essere solo
promozioni per merito. Il secondo, che la sanatoria riguarderebbe i borsisti imbarcati
all'inizio degli anni Settanta, dopo la legge Misasi che liberalizzò gli accessi, e poi
nominati in massa ricercatori, appunto, con una sanatoria. In tutto questo tempo, i più
bravi sono andati in cattedra. Ci sarà pure rimasto qualche sfortunato ingiustamente
emarginato, ma la maggior parte sono entrati e si sono adagiati sugli allori. Ora, se
mettiamo in ruolo tutti questi ricercatori ultracinquantenni, i giovani si troveranno la
strada sbarrata».
Il nuovo sistema dei concorsi universitari non è esattamente quello che Eco aveva
suggerito.
«No, ma è pur sempre meno traumatico del vecchio concorso nazionale. Lascia più
libertà di scelta alle facoltà. Intendiamoci, le porcate si possono fare anche nelle
elezioni del Papa in conclave. Bisogna vedere qual è il limite. I commissari non possono
perdere la faccia e promuovere un candidato che non sia degno di entrare in una lista
degli idonei. E se la scelta è indecente, qualcuno dei commissari si dimetterà. Speriamo
in un'onestà statistica».
L'importante è che ci sia qualche forma di sanzione per chi sgarra.
«La sanzione sarà fatale. Si diffonderà la voce che quella facoltà assume i cugini
del preside. Se è una facoltà di giurisprudenza, uno potrà comunque presentarsi al
concorso di magistratura, e passarlo. Se invece è di economia, non avrà molte chance di
essere assunto alla Fiat. Le aziende sanno che un laureato della Bocconi vale ben di più
di uno che ha studiato a Roccacannuccia».
Il problema vero è che in Italia, dopo il liceo, esiste solo l'università. All'estero
ci si può anche iscrivere a scuole superiori più orientate a un mestiere.
«Con il "tre più due" questo problema potrebbe essere in parte risolto.
Molte lauree triennali saranno appunto "professionalizzanti". A lettere questo
non è facile da realizzare, ma si può pensare a corsi di "multimedialità"
rivolti al mondo pubblicitario, e altri che invece preparino all'insegnamento. Una laurea
in giurisprudenza piena, quinquennale, dovrebbe schiudere le porte dell'avvocatura o della
magistratura. Ma le imprese e le pubbliche amministrazioni sono piene di laureati in legge
per i quali basterebbe un corso di tre anni».
Ma lei crede davvero che con questo sistema riusciremo a eliminare la piaga dei
fuoricorso? «Io vedo che molti si arenano sulla tesi: e il primo livello toglie
quest'ansia. Ma certo la riforma non basta, ci vogliono altre forme di incentivazione,
come borse di studio collegate all'obbligo di frequenza».
Sia sincero, Eco: se non le avessero regalato questa scuola, lei sarebbe molto più
arrabbiato con il ministro. «No, la verità è un'altra. Quando ho visto che la mia idea
dei corsi a numero chiuso si urtava contro tutto e contro tutti, ho dovuto arrendermi. E
mi sono persuaso che lo sbarramento, invece che all'inizio, si poteva spostare alla fine
del triennio. Chi non ce la fa, chi non ha conseguito i crediti necessari, non viene
ammesso al livello superiore».
Che futuro ha la cultura umanistica nella società dell'informazione?
«Secondo me è la carta vincente. Nell'universo del software può essere molto più
percettivo chi ha studiato greco antico che non un esperto di elettronica. Il
quattordicenne che con il suo pc entra nella banca dati del Pentagono è, a suo modo, un
umanista. Una cultura umanistica intesa non come rievocazione nostalgica del passato ma
come metodologia, come spirito logico e filosofico, è cruciale nel mondo d'oggi. Non per
niente tanti miei allievi sono andati a lavorare nelle nuove tecnologie, si sono inventati
un mestiere. È quello che diciamo a tutti gli studenti di Scienza della Comunicazione:
non veniteci a chiedere a che cosa serva questa laurea. Tra il momento in cui vi iscrivete
e il momento in cui uscirete di qui saranno successe cose tali che voi saprete che cosa
inventare e noi no. Se pensa che quando abbiamo iniziato il corso, otto anni fa, non
esisteva Internet e nessuno parlava di ipertesti... L'era digitale richiede flessibilità,
immaginazione. Io non dimenticherò mai che Adriano Olivetti, agli albori dei computer,
preferiva assumere dei bravi laureati in filosofia o in lettere piuttosto che degli
ingegneri».