Caffe' Europa
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L'abc della democrazia


Giovanni Sartori con Giancarlo Burghi

 

Questa intervista farà parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

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Nel corso della storia possiamo rintracciare due tipi di democrazia: la democrazia diretta o partecipativa e la democrazia indiretta o rappresentativa. Si tratta, per parafrasare una celebre espressione di Constant, rispettivamente, della democrazia degli antichi e di quella dei moderni: la democrazia della polis e quella dello Stato, la democrazia come esercizio diretto del potere e la democrazia come controllo e limitazione del potere. Professor Sartori, per iniziare questa nostra conversazione, vogliamo fare luce su questa distinzione?

La differenza è radicale: nella democrazia degli antichi il popolo, appunto, esercita direttamente il potere, e per questo si definisce "democrazia diretta". Nella democrazia dei moderni il popolo è titolare della sovranità, ma non esercita in proprio il potere. E tanto per cominciare nel mondo antico non c'era distinzione tra titolarità e esercizio del potere. Questa è una distinzione medioevale, che caratterizza, però, lo Stato e tutte le entità politiche più grandi della polis. Quindi, finché rimaniamo in una dimensione ridotta tutto può stare insieme: Atene infatti ha avuto al massimo 35.000 abitanti, ossia su 300.000 abitanti solo 35.000 erano cittadini, individui che avevano "effetti" politici. Più ci si riferisce a entità politiche di grandi dimensioni e più bisogna dividere le cose. Nella democrazia dei moderni la titolarità e l'esercizio sono divisi, mentre in quella degli antichi tale distinzione non sussisteva. Il limite oggettivo della democrazia degli antichi è che essa finisce con la città, non è capace di oltrepassare il territorio di una piccola città, perché è una democrazia, come si dice in inglese, face to face , "faccia a faccia": si risolve in un'assemblea, sempre di poche migliaia di persone, le quali appunto si possono "vedere" reciprocamente. Nel grande Stato territoriale questo invece sparisce.

Bisogna comunque stare attenti, quando si parla di democrazia antica, a non definirla "democrazia della città-Stato": lo Stato infatti non esisteva. La caratteristica propria della democrazia greca del IV secolo a. C. è di essere una comunità senza Stato, nel senso moderno del termine. La parola "Stato" compare solo con Machiavelli e acquista le connotazioni che ha oggi solo nell'Ottocento, e ancor più nel Novecento. In sintesi, la democrazia degli antichi era costituita da una comunità che si poteva autogovernare perché era piccola e non aveva Stato. Lo Stato erano loro, i cittadini: un’unica cosa.

 

A prima vista potrebbe sembrare però che la rappresentanza dei moderni, cioè il fatto che il popolo non esercita direttamente tutto il potere, implichi un impoverimento o addirittura un tradimento del concetto di democrazia. Secondo lei invece la democrazia indiretta è un correttivo positivo. Insomma la democrazia dei moderni è migliore - questa è la sua tesi - ammesso che sia possibile fare un bilancio. Ma perché, anche se fosse possibile, non sarebbe auspicabile, a Suo giudizio, mettere in atto la democrazia diretta?

Intanto non è possibile per ragioni di grandezza. Ma anche se fosse possibile - quindi il discorso è congetturale -, non sarebbe migliore della nostra, di quella moderna. E questo lo si ricava dall'analisi dell'esperienza antica, perché in verità la democrazia antica degli Ateniesi riuscì a durare appena un secolo e mezzo, e poi si autodistrusse. Ecco, il punto è proprio questo: perché si autodistrusse? Per moltissime ragioni. Una concerne il fatto che il demos, il "popolo", a un certo momento si mise a fare e disfare le leggi a suo piacimento e quindi distrusse la stessa nozione di "legge", che era invece fondamentale anche per la democrazia antica. Quindi ci fu, per così dire, un "suicidio" di tipo legislativo. Se legge è tutto quello che il popolo vuole in qualsiasi momento lo voglia, la nozione di un ordine regolato dalla legge svanisce. L'altro inconveniente era il grandissimo tasso di prestazione politica richiesta al cittadino ateniese, perché, appunto, Atene si reggeva economicamente sugli schiavi, perché il cittadino doveva solo lavorare per la sua città. Questi trascorreva tutto il giorno facendo il cittadino, quindi esercitando i suoi diritti e il suo potere di polites. E in questo caso si crea - sostengo - uno squilibrio impossibile da gestire, a lungo termine, tra realtà economica e realtà politica, tra ipertrofia della politica e ipotrofia o impoverimento dell’economia. Infatti il sistema della polis si reggeva sugli schiavi e sulla guerra, sulla conquista. Ma questa non è una struttura opportuna per un'organizzazione sociale. Si creava quindi un profondo squilibrio.

Infine - e questo forse è il punto più importante - c'era il problema della libertà individuale. Secondo la formula antica ateniese, il cittadino era libero solo nella misura in cui era partecipe del potere. Ma egli era partecipe del potere, se i cittadini erano 35.000, solo per un 35 millesimo. Ciò non rappresenta una grande protezione dell'individuo. Quindi l’individuo era libero come partecipante, ma solo per la frazione di partecipazione che gli spettava. In realtà - come poi disse efficacemente Hobbes - la città era libera, non il cittadino. In ultima analisi, il problema della libertà individuale, in quel contesto, non si poneva e anche se si fosse posto, non sarebbe stato risolvibile.

 

I Greci non erano liberi nel senso moderno della parola. Quando si impone il valore dell'individuo separato dalla comunità, dalla città, dallo Stato? Quando il singolo comincia a porsi il problema di una tutela dei suoi diritti rispetto al potere?

La nozione di libertà degli antichi è diversissima dalla nozione di libertà, e in specie di libertà politica, che hanno i moderni, perché nel mondo antico non si era ancora costituito il concetto dell'individuo-persona, che è di origine cristiana e non poteva perciò preesistere al cristianesimo. Questo concetto viene in seguito elaborato e consolidato soprattutto mediante il giusnaturalismo, quindi già 1500 anni dopo, e poi definito in senso politico, in modo soddisfacente, dal costituzionalismo liberale. Tutti questi elementi nel mondo greco ovviamente non esistevano. La spiegazione più semplice di questa "assenza" rimanda alla nozione di "privato", che in greco si qualificava con il termine idion . I diritti sono, sì, personali e privati, ossia appartenevano alle persone -, ma il "privato". quello che noi riteniamo invece l'essenza dell'essere individuo-persona, era invece un essere difettivo, un essere incompleto, un essere mancante, un idion, un 'idiota' (la nostra parola 'idiota' deriva appunto da idion). Quindi il cittadino, per Aristotele e per il mondo antico, è tale in quanto cittadino della polis, si identifica con la sua polis: è un individuo nella comunità, o, in altre parole, viene definito dalla comunità alla quale appartiene. D'altronde ciò è anche spiegabile, perché quelle in questione erano allora comunità "di vita o di morte", cioè dovevano mantenersi nella guerra contro altre comunità.

Ricordiamo che, quando una polis veniva conquistata, alcuni degli uomini venivano venduti come schiavi e tutti gli altri venivano uccisi. Tutto ciò per noi comporta il disprezzo assoluto del valore della persona. Non era così nel mondo antico dove c'era un’unione cemento fortissima allora tra l'individuo e la sua comunità, perché questa rappresentava la sua sopravvivenza. In esso non compariva la nozione che a mano a mano si è affermata e che noi oggi cerchiamo, terminologicamente, di caratterizzare dicendo "individuo-persona": all'individuo come singolo viene riconosciuto il valore di persona. Ed è questa che allora ci fa dire che non dobbiamo uccidere gli altri. Io allora mi schiero nettamente dalla parte della libertà dei moderni, perché se torniamo invece a quella libertà degli antichi, torniamo alla libertà di un insieme, di una comunità, ma non dell'individuo-persona.

 

 

Non bisogna dimenticare che, sotto la stessa parola: "democrazia", i moderni sottintendono la nuova parola "libertà" o il "liberalismo". Ed è su questo che ora dobbiamo soffermarci per entrare un po' nel cuore della nostra discussione. Cominciamo con una definizione di "libertà politica". Qualcuno lamenta che la libertà politica, intesa come tutela dei diritti dell'individuo rispetto all'abuso del potere, è troppo poco. Secondo lei, invece, questa libertà politica - che poi dovremo precisare meglio - è qualcosa di decisivo ed è una condizione assoluta. Vuole spiegare in che senso?

Le libertà sono molte e una di queste è la libertà politica. Quindi la libertà come totalità non è altro che l'insieme di tutte le libertà. Non si può pretendere che ogni singola libertà sia libertà in tutto e di tutto, vanno infatti distinte. La libertà politica, anche se è soltanto tale, è però pregiudiziale rispetto a molte altre. In genere viene definita, in senso negativo o "protettivo", come libertà dallo Stato, nei confronti dello Stato, quindi nei confronti di un potere maggiore, perché anche l'individuo rispetto allo Stato è un potere. Ecco, se non c'è questa "libertà da" - dallo Stato o da poteri maggiori - tutte le altre libertà al positivo, che quindi si dicono "libertà di", vengono a mancare. Hobbes, che era un teorico dell'assolutismo, ma anche un pensatore di straordinaria intelligenza, ci ha dato la migliore definizione di libertà politica. La libertà - egli diceva - è "assenza da impedimento": "libertà da". Se siamo impediti, tutto finisce. Siamo schiavi e andiamo, veniamo cacciati in galera, veniamo uccisi.

In ultima analisi, se non viene rimosso l'impedimento, non sussiste libertà. Questa è la formula della libertà politica: libertà come non impedimento. Dopo di che si affermano le "libertà di", o libertà al positivo, ma esse sono tutte sorrette dalla prima forma di libertà, che perciò ha la priorità. Qui non è in gioco la seguente questione: quale è più importante, quale meno importante, quale è la libertà che preferiamo. La questione è che qui c'è un ordine procedurale irreversibile. Prima deve venire la "libertà da", poi verranno le tante "libertà di". Dunque la libertà politica è protezione, abbiamo detto, dell'individuo dall'abuso di potere.

 

A questo punto dobbiamo introdurre un nuovo elemento su cui soffermarci, quello della legge. Se si può essere liberi - questa è la formula apparentemente paradossale, ma da indagare con attenzione -, lo si può essere soltanto quando si obbedisce a leggi e non a padroni. Sorge quindi il problema di quella che lei chiama la "libertà liberale", cioè la soluzione che il liberalismo ha dato al problema della libertà politica. E in questo senso il liberalismo - veniamo così alla tesi forte, centrale nella nostra conversazione - il liberalismo è costituzionalismo, Stato di diritto, Stato liberal-costituzionale. Cerchiamo allora di definire chiaramente questi termini che abbiamo introdotto: "legge", "costituzionalismo", "Stato di diritto".

Sì, dobbiamo chiarire, come premessa, questo nesso tra libertà e legge. Anche se esso era chiaramente noto a Aristotele, chi lo ha espresso in formula lapidaria è stato Cicerone, perché è sua la frase - nell'Oratio pro A. Cluentio Habito: "Legum servi sumus ut liberi esse possimus", "Siamo servi delle leggi per poter essere liberi". Questa è, per così dire, la formula magica che intendo spiegare: siamo liberi - come cittadini, si intende -, solo in quanto obbediamo a leggi, ossia a comandi impersonali validi per tutti, e non ad altri uomini. Se dobbiamo obbedire ad altri uomini, non siamo liberi. Questo è il senso della sentenza e il nesso tra libertà e legge. Ma una cosa è stabilire questa regola - ripeto, ho letto la formulazione ciceroniana, ma anche Aristotele ne conosceva il senso - un’altra cosa è invece attuare questo principio. Questa stessa formula viene poi ripetuta da Rousseau in maniera "allucinante".

Rousseau scrive quaranta, cinquanta volte che siamo liberi solo nella legge e, se non siamo governati da leggi, allora siamo servi di altri uomini. Questa è anche la concezione rousseauiana, soltanto che Rousseau non ci spiega come fare. Cioè: compreso il problema, come lo si risolve strutturalmente, istituzionalmente, in un grande Stato, e non più in una piccola comunità? Qui si deve cominciare dall'osservazione che, anche se la nozione di libertà nella legge comincia con i Greci, questi non riuscirono a mantenere quello che noi chiameremmo "Stato di diritto", perché i loro nomoi, le loro leggi, vengono scavalcati da una volubile volontà popolare. Quindi i Greci fallirono in questa costruzione della libertà nella legge, perché la loro legge divenne troppo "volontaristica", troppo volubile.

I Romani invece arrivarono abbastanza avanti, ma nel settore privatistico. Essi crearono una giurisprudenza, che poi venne codificata, la quale tutelava il privato nelle liti, e quindi sostituiva il giudice al duello. Invece di ammazzarsi si andava dal giudice e c'erano leggi secondo le quali veniva amministrata la giustizia. Ma il sistema romano, mentre organizzava in questa chiave la vita civile e anche la vita economica dei cittadini romani, non coinvolgeva il potere politico. Detto altrimenti, questa nozione disciplinava la vita privata, ma non il potere pubblico. L'imperatore sovrastava tutti e faceva ciò che voleva. Quindi, per trovare una struttura che crei un sistema di libertà nella legge, dobbiamo arrivare al costituzionalismo liberale, il quale rappresenta, nella nostra ricostruzione, la terza soluzione, il terzo modo di concepire e di istituzionalizzare il rapporto tra libertà e legge. Il costituzionalismo per un verso riconosce che le leggi si cambiano, si debbono cambiare, quindi il divenire del mondo delle leggi, ma per l'altro, almeno finché è vero costituzionalismo liberale, mantiene il principio che tutti - inclusi i legislatori - sono sottoposti alle medesime leggi. L'attuazione della massima ciceroniana si ha quindi solo con il costituzionalismo, il quale concilia la dinamica della produzione delle leggi, quindi le leggi come frutto di legislazione, ma con un controllo e un limite nei confronti del "fare leggi". Ecco, questa è la concezione costituzionale, la quale comincia in sostanza con Locke e dura fino al positivismo, al formalismo giuridico, quindi fino alla fine del secolo scorso o all'inizio del Novecento.

Riguardo alla questione se i due termini, "costituzionalismo" e "Stato di diritto", siano equivalenti semanticamente o sussista tra loro una differenza, si può dire che se si dà solo una definizione formale del diritto, ossia se basta solo la sua "forma", allora tutti gli Stati sono "Stati di diritto". Per un certo periodo nell'Ottocento, la nozione di Rechtstaat, di "Stato di diritto", e la nozione di "Stato costituzionale" si sovrappongono largamente. Appena si afferma la nuova concezione puramente formalista, kelseniana, questo nesso invece si spezza.

 

Noi normalmente siamo abituati a vedere in Rousseau il padre della democrazia egualitaria, il critico del liberalismo, il critico della proprietà privata, il propugnatore della democrazia diretta: in questo senso sia il giacobinismo che il marxismo si sono ispirati a lui. Secondo lei - e questo è un punto di grande originalità e ricchezza del suo libro La democrazia -, Rousseau non supera in senso democratico il liberalismo: al centro della riflessione rousseauiana, a suo giudizio, non ci sarebbe la nozione di "sovranità popolare", di popolo legiferante, ma il tema dell’istituzione di una legge impersonale. Un Rousseau liberale dunque o forse ci spingiamo troppo avanti?

Sicuramente ci spingiamo molto, troppo avanti. Rousseau del liberalismo non aveva nessuna nozione, tant'è vero che avversava Montesquieu, che si ispirava all'evoluzione costituzionale inglese e che quindi è uno degli autori del liberalismo. Per Rousseau Montesquieu era il "diavolo" e quindi contraddiceva quest’ultimo su tutto tranne che sul principio della libertà nella legge. Dunque Rousseau è l'autore che tutti riprendono; egli è stato rivalutato non solo dalla democrazia avanzata, ma anche dai contestatori del '68, che a lui si rifacevano esplicitamente. Io mi sono invece avvicinato a Rousseau attraverso i documenti. Chi legge il mio libro può notare infatti che ci sono centinaia di citazioni; tra l'altro è un autore che scrive in un francese molto bello. In ogni caso sostengo che Rousseau precede il liberalismo. Quel poco di liberalismo che c'era si trovava in Montesquieu, in Locke, due autori che egli detestava.

Ma Rousseau non era nemmeno democratico, in nessun senso della parola, perché, intanto il vero soggetto de Il contratto sociale e di tutti gli scritti "politici", è la repubblica. Quindi il nucleo intorno a cui si costruiscono tutti i discorsi di Rousseau rimanda all'ideale della repubblica, e non della democrazia. La parola "democrazia" è usata di rado ed è una delle possibili sottospecie della repubblica. La democrazia può essere buona soltanto se applicata a piccoli Stati immobili e al di là di questi è impossibile. L'ideale di Rousseau è la repubblica e il popolo per lui non è il populace: è un'élite. Quando egli si rivolgeva ai cittadini di Ginevra, il loro numero ammontava soltanto a un migliaio di persone, e questo era il popolo. Per appartenere al "popolo" nel senso rousseauiano si doveva essere abilitati da un cursus honorum. Quindi solo pochi erano il popolo e avevano titolo a governare e a parlare. Ma il dato che, secondo me, appunto spiega meglio questa, non dico antidemocraticità, ma certo non democraticità di Rousseau, è che tutto il sistema rousseauiano si aggancia alla "volontà generale", non alla "volontà di tutti".

Democrazia è il diritto, il diritto di tutti, non dico all'esercizio del potere, ma comunque ad avere voce in capitolo. Rousseau voleva il governo della volontà generale, che è una, indivisibile e ferma: essa è il soggetto di tutta la volontà generale. Per di più Rousseau non era neanche un riformatore. Diceva: per carità, se avete istituzioni che funzionano, tenetevele. E se lo Stato è grande, è perduto, non c'è nulla da fare, e quindi tenetevi i pastori e le capre, lo Stato piccolo. Le leggi non le dobbiamo mai cambiare. Al di là di tutto, come costruzione politica siamo nel trogloditico.

 

Come si spiegano le interpretazioni in senso ultrademocratico e persino totalitario di Rousseau, soltanto con l'ignoranza dei lettori e degli interpreti, oppure qualche appiglio in questo senso la dottrina rousseauiana lo concedeva?

Ma l'appiglio è un rigo, l'unico, il quale ripete fermissimo il punto che, per Rousseau, la libertà è nella legge e che la legge deve essere immobile. Ci devono essere poche leggi, santissime e intoccabili. Quindi in Rousseau non si trova la concezione legislativa, ma la concessione del grande legislatore, del "Licurgo", il quale dà le leggi fondamentali, poche e intoccabili. Tutta la celebrazione di un Rousseau democratico e "avanzato" risiede in un rigo, dal quale si è ricavato che la libertà per Rousseau è autonomia. Invece Rousseau lo nomina una volta e poi abbandona questo termine in tutti i suoi scritti. La libertà come obbedienza alla legge è ripetuta mille volte, l'autonomia una sola volta. E l'autonomia dunque è la libertà di chi dà le leggi a se stesso, alla lettera vuol dire questo.

Come documento bene nel mio libro, questa nozione non fa affatto parte del discorso fondamentale di Rousseau. Se c'è - e nella misura in cui c'è - è collegata al contratto originario. Cioè è nel momento nel quale si stipula il contratto, e non in altri casi, che ognuno è libero nel senso che è autonomo. L’autonomia è collegata alla piccola città, ovviamente, ma, a prescindere da tutto questo, tale nozione veramente in Rousseau non esiste. È difatti un'invenzione kantiana, ma che si riferisce alla libertà morale, alla libertà interiore, e quindi non serve per la libertà politica. Kant non lo adopera infatti per definire quest’ultima. Dopo di che essa passa a Hegel e da Hegel torna indietro e viene riattribuita a Rousseau. Questo è un esercizio acrobatico dei filosofi, che alle volte si divertono a andare avanti e indietro nel tempo. Ma, in verità, la nozione di "autonomia" in politica è hegeliana, non rousseauiana. In definitiva, la tesi secondo cui il concetto di autonomia appartiene a Rousseau, sostenuta anche in Italia nell'immediato dopoguerra, ad esempio da un bravo filosofo come Galvano della Volpe, è, a mio giudizio, un assoluto falso.

 

Kant interpreta la libertà nel senso dell'autonomia, per cui sono libero moralmente quando obbedisco a una legge che io mi sono dato. Ma questa è una libertà – come lei sottolineava – semplicemente interiore, del volere (morale), e non dell’azione (politica). Secondo lei la riduzione della libertà ad autonomia può però arrivare a legittimare l'oppressione e quindi a capovolgersi nel suo contrario. Cerchiamo di spiegare questo punto che risulta decisivo.

Sì, perché se si nega la definizione liberale – per cui libertà politica è la "libertà da" e libertà come assenza di impedimento - e la si sostituisce con l’idea per cui la vera libertà è autonomia, è interiore – in termini di autonomia si è liberi anche in campo di concentramento o in prigione, perché è libertà del volere –, intanto si è persa la libertà decisiva. Una volta persa, si può fare quel che si vuole. E infatti dopo avere negata la definizione liberale di "libertà", la libertà come autonomia significa che io do a me stesso le mie leggi. Per quanto riguarda la politica voglio qui citare un passo – perché è rivelatore – di Guido De Ruggiero, un liberale assoluto, un crociano, che ha scritto uno dei migliori libri sul liberalismo: la Storia del liberalismo europeo. È, questo, un libro straordinariamente bello nella parte storica, ma in quella teoretica incorre nel "vizio hegeliano".

Citerò dapprima me stesso: "Abusiva è la nozione di autonomia – scrivo – abusivamente legittimata da Rousseau, spacciata per libertà politica, rimanipolata dialetticamente da Hegel, e così incoronata come "libertà maggiore"". Per questa via si arriva alla conclusione che – e qui cito De Ruggiero – "Lo Stato, l'organo della coercizione per eccellenza, è divenuto la massima espressione della libertà". Di fronte a questa posizione io dico: "Dio ci scampi e liberi!". Commento e dico: "Ho il terrore di quella autonomia che è – dico io – un pensarsi liberi quando siamo in carcere". E concludo: "No, la libertà da e la libertà come autonomia sono due libertà del tutto diverse, eterogenee, e non è che la seconda scavalchi la prima". Ora la prima è la libertà politica, l'altra è una libertà interiore, in interiore homine e umanista, il "foro morale".

 

Dunque solo la libertà politica, la libertà nella legge, ci garantisce dall'oppressione. Torniamo ora al costituzionalismo. Siamo liberi perché chi fa le leggi non può farle secondo arbitrio, ma essendo sottoposto alla legge. E la legge, per il costituzionalismo, è un vincolo rispetto al potere, è un limite impersonale. Il problema allora si sposta: cosa fa di una legge una legge e non un abuso? Questione decisiva perché lei mette in guardia anche dai limiti di un costituzionalismo procedurale e formale, notando che le regole e procedure formali potrebbero legittimare anche dei crimini.

Si deve capire perché il costituzionalismo liberale, quindi il costituzionalismo garantista, è in pericolo. Io ci vorrei restare dentro e richiamo la definizione di Montesquieu, che dice: "Siamo liberi perché obbediamo a leggi civili". Montesquieu sapeva quali erano le leggi civili: erano quelle espresse dal giusnaturalismo, quelle che tutelano i diritti naturali della persona. E quindi era chiarissimo a tutti che cosa volesse dire. Ma oggi noi, tramontato il giusnaturalismo, ci dobbiamo chiedere: cosa vuol dire leggi, quali leggi sono leggi civili? Il grande protettore delle libertà degli individui, durante tutto il Medioevo, è stata questa nozione del diritto naturale, del giusnaturalismo, ma, una volta finito quest’ultimo, la legge è affidata a se stessa. Rousseau l'ha voluta salvare, affidandola alla volontà generale.

Ma la volontà generale è un'entità metafisica, serve a scrivere un bel libro, ma non serve ad altro. E quindi il quesito è: quand'è che una legge è legge? Che cos'è che è legge, e che cosa non è legge? Il discorso qui è molto complesso, ma – e con qualche abuso di correttezza storiografica –, si risolve facilmente con il ricorso al latino: dunque in latino legge è ius, e il problema della legge, in latino, si libra fra iustum e iussum. Quindi ius, "legge"; iustum, il "giusto"; iussum, il "comando". Allora ius è ius, è "legge" quando è giusta, ius iustum. Se diventa ius iussum, "legge comandata", allora non è più legge, nel senso che interessa il costituzionalismo e la protezione dell'individuo. Quindi finché ius resta avvinto a iustum, a "giusto", abbiamo una definizione sostantiva, cioè sono leggi solo le leggi giuste. Se invece aderiamo a una definizione formale del diritto – è legge tutto quello che ha forma di legge – allora la legge diventa soltanto uno iussum, legittimato dalla sua forma. Tutto quello che comanda lo Stato è legge. E allora lo Stato può comandare tutto quello che vuole. E qui tutta la costruzione del garantismo liberale precipita.

 

Cosa è possibile fare allora affinché si eviti il crollo del garantismo liberale?

Bisogna rifiutare la definizione formale del diritto. Bisogna restare al nesso tra ius e iustum e rifiutarsi di dire, primo, che ogni Stato è costituzionale perché ha una costituzione. Solo gli Stati che hanno costituzioni garantistiche sono stati costituzionali, perché, se "costituzione" equivale, nella definizione formale a: ogni forma di Stato è la sua costituzione, allora abbiamo distrutto la nozione di "costituzione". E lo stesso è vero per il diritto. Se del diritto si dà una definizione puramente formale, allora appunto Hitler o Stalin erano perfettamente a posto, perché seguivano le procedure previste dal loro ordinamento per legiferare. Ma così non va bene. Ora si capisce il nesso tra ius e iustum nei sistemi costituzionali liberali. È stabilito dalle procedure che vincolano la legislazione all'approvazione dei Parlamenti e non soltanto ad essa, ma per questa via anche all'approvazione del cittadino, della pubblica opinione e inoltre a determinate regole, fin dove si può arrivare nel legiferare.

Nel mio libro riassumo tutto questo complesso discorso dicendo: dobbiamo rifiutare una definizione puramente legislativa del diritto. Se il diritto è soltanto quello che vogliono le persone che hanno l'autorizzazione a legiferare, allora siamo effettivamente in pericolo. Sposto allora l'accento del discorso sui diritti. Quindi non solo la costituzione è una legge superiore alle leggi normali e quindi più difficile da modificare, ma tutto l'edificio oggi della protezione costituzionale, indebolito dalla definizione formale del diritto, del diritto come pura forma, si sorregge molto sui diritti, perché questi vengono ritenuti sacrosanti, inviolabili, superiori anche alla volubilità legislativa. Non si tratta però, in un certo senso, di un ritorno a un giusnaturalismo, a un diritto di natura precedente i vari diritti positivi. Questo io non riesco a sostenerlo. Perché, sì, le immagini giusnaturalistiche sono frequenti ormai: si parla infatti di "patto sociale", di "contratto", ma sono metafore. Preferisco dire che, appunto, il diritto non è solo il diritto legislativo, legiferato, ma deve essere sempre espressione di un contenuto di giustizia, espresso fattivamente dai diritti. Che questi diritti siano di natura o meno non vuol dire gran che: il punto è che non siano violabili.

 

Liberalismo, democrazia e socialismo sono un po' le idee guida dell'Ottocento e del Novecento. In qualche modo sono ideologie che nascono tutte dalla Rivoluzione francese. Tra queste, secondo lei, la più fraintesa e bistrattata è forse la nozione di "liberalismo", anche perché è stata confusa con il liberismo economico. Facciamo chiarezza dunque: che cosa si intende per liberalismo in senso classico?

In senso classico, il liberalismo è la teoria della prassi di difesa dei diritti individuali, concepisce quindi un'esercizio del potere che non consente però la violazione dei diritti di libertà e della persona. Questo è proprio il nocciolo. La parola è nata circa due secoli dopo la scoperta di questi meccanismi, principî, che poi portano al costituzionalismo, ma comunque troppo tardi. Cioè la parola "liberalismo" compare solo in Spagna – nel 1810-12, mi pare –, ma era associata, allora, ai ribelli. Anche in Inghilterra liberale, fino alla metà dell'Ottocento, indicava soltanto i seguaci di William E. Gladstone. Cioè la parola si consolida come identificazione di una civiltà giuridica, di una civiltà costituzionale, ma anche di un insieme di valori liberale, cioè come idea-forza, alla pari di "socialismo" o altro, solo alla metà del XIX secolo. E quindi il paradosso è che, quando la parola si afferma, l'esperienza liberale è già in pericolo, perché i tedeschi furono grandi liberali. Kant lo era, von Humboldt ha scritto un libro fondamentale. Il cosmopolitismo illuministico tedesco fa parte integrante della civiltà liberale, ma quando la parola emerse i liberali tedeschi erano già stati sconfitti, nel '48.

L'altro paradosso, per esempio, è che negli Stati Uniti, che poi hanno portato avanti il processo di costituzionalizzazione, della costituzione giuridica di una civiltà liberale, la parola non è mai emersa, perché nel Federalista, cioè nella "Bibbia" della dottrina costituzionale, e anche politica, americana, si parla sempre di repubblica, non di democrazia. Dopo di che si passa nel lessico americano alla nozione di "democrazia", saltando sopra la testa del liberalismo. Quindi il sistema americano è, per definizione, un sistema di costituzionalismo liberale, ma non viene mai chiamato così. Prima era una costituzione repubblicana, nella riforma, e poi diventa una costituzione democratica

Il termine "liberalismo" giunge troppo tardi, quando i frutti sono già avvenuti, ma non sono stati identificati come frutti del pensiero liberale. L'altra sfortuna è che la parola appunto si afferma con la Rivoluzione industriale. La Rivoluzione industriale fu crudelissima, provocò uno sradicamento terribile. Questo venne imputato al liberalismo. La stessa crudeltà è presente in tutte le rivoluzioni industriali, anzi in quella sovietica o in quella cinese è ancora superiore. Ma quindi, in coincidenza della rivoluzione, delle sofferenze e della crudeltà della Rivoluzione industriale, il liberalismo, confuso con il liberismo, venne additato come il capro espiatorio e quindi si meritò l'avversione della classe operaia, che allora era la maggioranza della popolazione. Quindi subito si trovò numericamente in minoranza di fronte all'odio degli operai contro il sistema cosiddetto capitalistico, ma anche, appunto, liberale e liberistico.

E l'altro punto è che si è sempre confuso, e si confonde sempre – e ciò danneggia molto il liberalismo – tra "liberalismo" come nozione politica e "liberismo" come nozione economica. Tutti i testi del liberalismo non hanno niente a che fare con la libera concorrenza e la libertà di fare quel che si vuole in economia. La dottrina liberale è la dottrina di costruzione della città liberale, non dell'economia di mercato. L'economia di mercato esiste, ma non bisogna confondere le due cose, perché si può sostenere che si rinforzano l'una con l'altra, e cioè che una società, una città liberale comporta un sistema di economia di mercato. E si può anche sostenere che l'economia di mercato è il fondamento sul quale si costruisce meglio la città liberale. Tutto ciò non toglie che prima bisogna distinguere le due cose, poi eventualmente vedere quali sono i loro rapporti.

 

Cosa pensa della posizione di Croce sul liberalismo?

La distinzione di Croce, tra liberalismo politico e liberismo economico, è una distinzione che io stesso eredito e mantengo. Croce non mi convince perché del liberalismo, come sistema appunto di strutture costituzionali, come sistema di difesa giuridica dell'individuo-persona, lui non parla nemmeno: non lo considera. Il suo è un liberalismo stratosferico: è il principio metafisico della libertà pura. Quindi per Croce la "libertà da", di cui si parlava prima, è un fatto del tutto irrilevante. Non che la neghi, ma dice: non è la vera libertà. Quella teorizzata da Croce allora non è la libertà cosiddetta liberale: in ciò risiede, a mio giudizio, il difetto della sua concezione. In ultima analisi, è la distinzione tra sistema politico liberale e sistema economico - liberista, ma soprattutto "di mercato" - che risulta fondamentale. Guai a non farla.

 

Veniamo a un altro problema cruciale: il rapporto tra liberalismo e democrazia, libertà e uguaglianza. E' giusto affermare che l'ideale liberale e l'ideale democratico storicamente sono in antitesi? Anche su questo punto bisogna infatti fare un po' di chiarezza. Lei ricorda, nel suo libro, anche Guido Calogero, il suo tentativo di superare il liberalismo crociano e di fondare un progetto liberalsocialista. Calogero pensava che giustizia e libertà potessero essere concepite in modo dialettico. È nota la risposta di Croce che parlava a proposito di un 'ircocervo', di mostruosità logica. Secondo lei, è possibile far coesistere democrazia e liberalismo, società democratica e Stato liberale? E, eventualmente, in che senso e in che misura?

Questo è il problema cruciale. Alla domanda se sia possibile la coesistenza di democrazia e liberalismo, di società democratica e Stato liberale, rispondo: certo che è possibile. Infatti è ciò che, in sostanza, è già avvenuto. Però i due addendi sono diversi in origine: mentre il concetto o il criterio fondante del liberalismo è la nozione di "libertà", il concetto e il criterio fondante della democrazia come tale, pura – non della democrazia liberale –, è l'eguaglianza. Quindi se consideriamo la genealogia storica di queste due forze, vediamo che storicamente sono non solo diverse, ma potenzialmente antagonistiche. Fu Tocqueville che cambiò le carte in tavola, fino al '48. Perché anche per Tocqueville ne La democrazia in America la caratteristica della società americana, come società democratica, era l'eguaglianza sociale, quindi il valore era l'eguaglianza. E Tocqueville solo con la rivoluzione del '48 cambiò gli schieramenti, cioè disse: "La libertà è il valore fondamentale della liberaldemocrazia, la schiavitù è invece la caratteristica del socialismo".

Allora perché libertà e uguaglianza si sposano? Perché, dall'altra parte, nel manicheismo della storia, l'avversario diventava il socialismo. E quindi, nel momento in cui s’istituisce la dialettica delle idee–forza tra liberaldemocrazia o socialismo, allora in questa antitesi, libertà e eguaglianza, da un lato, si coniugano. Si coniugano – si capisce – sempre fermo restando che per i liberali il valore supremo è la libertà e perciò l'eguaglianza si deve acquisire entro la libertà, mentre per i democratici puri il valore prioritario è l'eguaglianza e perciò la libertà viene ad essa subordinata. Ecco, questa dialettica c'è sempre.

Riguardo al liberalsocialismo, negli anni Venti, dunque, l'emergere del socialismo costringe liberali e democratici a congiungersi, perché dovevano combattere un nuovo e diverso nemico, anche se tra il principio della libertà e quello di eguaglianza c'è sempre stato conflitto, ma un conflitto dialettico. Era una questione di quale fosse il criterio regolativo più importante, ma la pace viene raggiunta dicendo: noi serviamo entrambi questi valori. Anche oggi d'altronde i democratici puri vogliono l'eguaglianza delle condizioni e i liberali vogliono l'eguaglianza delle opportunità. Quindi la distinzione tra libertà e eguaglianza si riflette in questo contesto. Quindi uguali opportunità per diventare diseguali è la "versione liberale". Eguali opportunità per diventare tutti uguali è invece la versione livellante del democratico estremo. Quindi, questa dialettica attraversa tutta l'esperienza liberaldemocratica. Poi a un certo momento è venuta fuori la nozione della sintesi: il liberalsocialismo. Liberalsocialismo, attenzione, non liberaldemocrazia, ed ecco che un altro "matrimonio" è avvenuto.

Il socialismo però era il nemico contro il quale veniva affermata la liberaldemocrazia. La distinzione di Tocqueville era infatti questa: da un lato i liberaldemocratici e dall'altro il loro nemico, il socialismo. Con gli anni Venti il socialismo è modificato. Non era più "barricadero", premarxista e poi marxista del '48. E quindi la sintesi, combattuta da Croce, non era la sintesi di libertà e eguaglianza, ma era quella tra liberalismo e socialismo. Ed è per questo che Croce, il quale non credeva alla sintesi liberalsocialista e al Partito d'Azione, attaccò Calogero, che di questa sintesi fu, dal punto di vista filosofico, il sostenitore più fine e più importante. Ma qui, con la sintesi di liberalismo e socialismo del Partito d'Azione, inizia in Italia la prospettiva di una "terza via". Quindi ancora oggi – anzi oggi più che mai –, spentasi l'opposizione liberaldemocrazia/comunismo, ecco che di nuovo si riaffaccia la necessità di una sintesi, di "una terza via". La troviamo in Blair, la troviamo nella socialdemocrazia tedesca. Tutto sommato l'avalla anche D'Alema. Questa "terza via" è però, in verità, una nozione che ha oramai più di cinquant'anni, in quanto fu inventata dal liberalsocialismo, ma torna sempre ad emergere.

 

È possibile da un punto di vista teorico questa "terza via", al di là della sua realizzabilità pratica? Lo studioso della politica cosa dice: è un impensabile oppure no?

No, non è affatto un impensabile. Anzi quello che sto dicendo è che noi facciamo finta che una cosa non nuova sia nuova, che sia una gran scoperta, perché, così come libertà e eguaglianza, pur essendo principi diversi sono contemperabili, allo stesso titolo democrazia o liberaldemocrazia e socialismo sono contemperabili, e lo sono tanto più quanto più vengono meno le opposizioni manichee preesistenti, che erano quelle della Guerra Fredda e quelle create in fondo dal comunismo e dal marxismo. Cioè, una volta che marxismo e comunismo perdono la loro virulenza ideologica, allora tutto si può mediare. Bisogna saperlo fare bene.

 

Ma come si può pensare oggi il rapporto, la coesistenza fra libertà ed eguaglianza, nel senso, però, non di una eguaglianza delle condizioni e di un'eguaglianza marxista?

Sulla libertà siamo d'accordo. Chi non la vuole è perché non se ne occupa, la travolge per stupidità, perché non capisce, ma non è che qualcuno dice: io voglio ammazzare la libertà. Tutti, al contrario, dicono che la libertà è una cosa buona. Il punto è: come vogliamo ottimizzare l'eguaglianza. E quindi qui abbiamo di nuovo le due versioni, che riflettono l'antica distinzione tra libertà e eguaglianza. Quindi l'eguaglianza come eguali

opportunità: tutti devono avere le stesse opportunità, ma non devono essere resi uguali, anzi devono avere la possibilità di diventare disuguali. I più bravi andranno avanti, i meno bravi resteranno indietro. Questa è l'interpretazione liberale del concetto di "eguaglianza". Mentre l'interpretazione socialista è di creare "diseguali" condizioni in modo da rendere tutti più uguali possibili.

E questo è il criterio, ad esempio, della discriminazione alla rovescia: chi nasce, chi parte svantaggiato, per motivi di razza o altro, deve essere aiutato, deve ricevere un aiuto extra. Quindi dobbiamo creare diseguali condizioni per rendere più uguali. È il contrario della posizione precedente, in quanto qui prevale l'istanza dell'eguaglianza sull'istanza della libertà. L'obiezione a quest'ultima è che questa è una via che comporta un’elevata conflittualità, perché, se si stabiliscono trattamenti preferenziali, si viola il principio dell'eguaglianza nella legge e della legge. Comunque, il punto di principio è che, anche nell'approssimare una maggiore eguaglianza, nel massimizzare l'eguaglianza – nei limiti del possibile, per carità! – il criterio liberale è diverso da quello socialista e da quello liberaldemocratico.

 

Per concludere, il suo libro sulla democrazia è "attraversato" dalla crisi dell'89. Ci sono delle parti molto interessanti in cui lei parla della "democrazia senza nemico", del "crollo delle ideologie". Una delle tesi principali del suo libro è questa: la democrazia è una sola, quella liberale, che è anche quella che storicamente ha vinto, come lei giustamente sottolinea. Ma la democrazia liberale è la sola possibile perché ha vinto, oppure ha vinto perché è la sola possibile, l’unica pensabile? Si deve prendere atto che due mondi si sono scontrati e uno ha vinto, oppure l'altra non era in fondo democrazia?

Questo è un libro del '92 – il Muro di Berlino è già crollato - e quindi ho scritto un’intera appendice sulla democrazia dopo il comunismo. Ma il mio primo libro sulla democrazia, che si intitolava Democrazia e definizioni, sosteneva che la versione marxista della democrazia era fraudolenta e che il marxismo, come sistema di costruzione politica, creava un "mondo sbagliato". Io ho sempre detto, prima della vittoria sul comunismo, di essere liberaldemocratico ed anticomunista. Non ho nessuna vergogna a ricordarlo. Sono stato molto anticomunista, finché c'è stato il comunismo. Ora siamo ottimi "amici", ma per merito dei comunisti, non mio. Quindi è chiaro che non è la vittoria che determina il senso del mio discorso. Io mi sono letto quasi tutto Marx, ho fatto anche dei corsi su Marx, su Hegel, perché la mia formazione è legata alla storia della filosofia. Ma con la mia testa ho detto: no, questo è sbagliato, non funziona e non credo che possa funzionare. E ho combattuto il comunismo. E, di fatto, è per motivi indipendenti dai miei scritti che esso ha perso. Ma non si può dire che oramai, siccome ha perso, allora, di conseguenza, questo dimostra che è superiore la liberaldemocrazia: tale tesi difatti l'ho sostenuta trent'anni prima che il comunismo perdesse.

L'altra domanda è se la liberaldemocrazia – come la definisco in questo libro – sia l'unica soluzione possibile. Riguardo alla relativa risposta. Sarei più arrogante di quanto io non sia nel rispondere: sì. Il mio non è il pensiero definitivo. Dunque, non arrivo a sostenere che la liberaldemocrazia sia il solo ordinamento accettabile, possibile. Il possibile chiaramente resta sempre possibile. Voglio dire: possibile implica apertura verso qualcosa che ancora non abbiamo né concepito né previsto. Quindi sicuramente ci sono diversi e nuovi mondi possibili. Dico che fino ad oggi non li abbiamo visti, non li abbiamo scoperti o non abbiamo dimostrato che siano desiderabili. Io mi fermo, in questo senso, a questa considerazione e perciò non decreto, come Hegel, che la storia finisce con il mio pensiero. Insomma, la storia continuerà dopo di me: questo sono pronto ad ammetterlo in tutta umiltà.

 

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