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Marathon: l’ultimo spettacolo di Giancarlo Sepe al Teatro Quirino.


Angelica Alemanno

 

Marathon, lo spettacolo di Giancarlo Sepe in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 23 gennaio, è una vera e propria gara di resistenza, come la maratona olimpica, quella che vede gareggiare a piedi, su strada, atleti che devono percorrere una distanza pari a quella tra Atene e la città di Maratona. Questa volta però gli atleti sono attori e la corsa è un ininterrotto disegno coreografico, atto a valorizzare più che le capacità atletiche, le attitudini espressive e mimiche. Una prova di resistenza collettiva in cui il corpo del singolo è subordinato al disegno che coinvolge il gruppo e nello stesso tempo permette ad ogni individuo di aderire in modo personale ad uno stesso brano musicale.

Dopo "E ballando… ballando", il regista teatrale Sepe torna a cimentarsi con una formula collaudata, che pare lo abbia già consacrato in America Latina. Ritmi coinvolgenti, costumi colorati, basta tutto ciò a fare di uno spettacolo una forma di teatro originale? Il successo di pubblico testimonia la sua attrattiva,. resta da capire cosa ci sia davvero di nuovo. Il musical americano è un tipo di spettacolo composto da parti recitate, cantate e danzate, mutuato dall’operetta francese e viennese dell’’800, poi filtrato in Italia nei primi del ‘900 attraverso i lavori di Costa, Renzato, Mascagni e Leoncavallo. Una forma eclettica, dunque, nata in ambito europeo e poi trasformata, all’interno dell’industria americana, attraverso la semplificazione musicale e la spettacolarizzazione.

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Marathon, pur rifacendosi al musical, ha perso ogni aspirazione narrativa. Tutte le parti cantate o recitate, ancora presenti in ‘E ballando…ballando’, sono scomparse a favore di un'astrazione tersicorea, di un distacco da qualsiasi riferimento al mondo esterno che rendono la messa in scena - come dichiara lo stesso regista - un evento assoluto, svincolato da qualsiasi condizionamento che non sia quello della musica.

Ma il balletto, la danza, è già di per sé astratta rispetto al ‘mondo esterno’, è essa stessa narrazione attraverso un linguaggio ‘altro’, quello del corpo. E se la danza è linguaggio, qualcosa deve per forza dire, che siano suggestioni, allusioni, o emozioni. E il voler comunicare un’astrazione ci sembra pressoché tautologico; il programmatico disimpegno ci sembra celare una forma di slealtà.

Nel secondo atto di Marathon si sente la necessità di raccontare un evento, naturalmente ‘astratto’ anch’esso, in cui tre militari servi del potere del Silenzio costringono una massa di ballerini invasati a rinunciare alla musica. Le soluzioni originali e divertenti da parte della massa per ovviare a tale costrizione sono il ricorso ad alcuni calici fatti "suonare" con il dito indice e la furtiva apparizione di un ribelle che balla al suono di uno stereo clandestino. Anche il denaro fa la sua comparsa: una pioggia di soldi (rigorosamente dollari, ma ci avrebbe divertito di più un’autoironica caduta di Euro…) coglie di sorpresa il gruppo dei ‘maratoneti’, li fa gioire, giocare, lottare…e poi? I quadro finisce lì e l’unica soluzione è chiudere il sipario per pulire il palcoscenico tra primo e secondo atto.

Molto divertente la trovata dei ballerini incatenati la cui voce di protesta è affidata a un dialogo jazz tra trombe di timbri diversi. Esilaranti, per i primi cinque minuti, le scarpette che prendono vita ai piedi degli abitanti di Marathon, costretti a danzare freneticamente sulle note di un violino gitano troppo coinvolgente. Dopodichè un reggae uniforma ipnotici ragazzotti che ancheggiano come un unico corpo ritagliato da un unico fascio di luce e la luce, che segue impercettibilmente il movimento del gruppo o del singolo, gioca continuamente all'interno della scena, bagnando garbatamente porzioni di spazio vaste o piccolissime.

Ma è proprio vero che la musica può essere fine a sé stessa? Ci sembra che lo spettacolo di Sepe, pur coinvolgente e a tratti divertente, aspiri a meno di quello che potrebbe dare, soffermandosi a volte troppo su esercizi di stile dell’autore ( ed estenuanti esercizi fisici e attoriali degli interpreti ) che troppo ricordano il teatro-laboratorio, la cui funzione didattica interessa gli allievi e molto meno gli spettatori.

Nonostante questo la messa in scena ci ha suscitato alcuni interrogativi, ai quali il regista ha gentilmente risposto, in una breve intervista, immediatamente dopo la prima di Marathon:

 

Come si costruisce uno spettacolo di questo genere?

In spettacoli come questo, in cui il movimento è centro propulsore di ritmo e di narrazione, si studiano disegni coreografici che siano insieme proposte degli interpreti e suggerimenti registici, e solo dopo aver sperimentato tutte le proposte si conservano quelle più rilevanti.

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Nel rapporto con la musica, è il pezzo a guidare la scelta dei movimenti coreografici o sono questi ultimi a guidare la scelta dei brani musicali?

Si provano varie musiche e poi si scelgono quelle più significative, non in rapporto a un disegno precostituito, ma in base al grado di maggiore suggestione che queste suscitano negli interpreti. Il brano deve essere comuque recepito e assimilato dalla maggioranza degli attori, altrimenti viene eliminato.

 

La scelta dei costumi, che si rifà a un periodo che va dagli anni ’40 agli anni ’50, è diversa da quella, più ampia, sulla musica, che si avvale invece di pezzi dalle provenienze più disparate, dal valzer della Vedova Allegra a Kurt Weill, da Benny Goodman a Bob Marley, dai Beatles a Nino Rota. Perché?

Marathon nasce come una città virtuale che possiede il tempo della memoria, memoria soprattuto del musical americano- di qui i costumi-, e vuole anche essere una rievocazione non scientifica di sentimenti, delle atmosfere di un periodo e di un genere. Credo che oggi in Italia si abbia la voglia di ripercorrere la vie del musical senza necessariamente avvalersi di una tecnica specificatamente tersicorea, ma piuttosto attoriale. Nessuno dei ragazzi di Marathon è ballerino di professione. Io stesso lavoro con loro sull’improvvisazione durante le prove.

 

Se in Italia lei crede che ci sia voglia di musical, perché non provare a utilizzare anche brani del nostro vastissimo repertorio, come ad esempio i ritmi napoletani (e abbiamo visto come nel cinema, per Roberta Torre ad esempio, la musica partenopea sia una sorta di musa ispiratrice)?

Perché penso che la matrice del musical sia anglosassone, per cui ho voluto dare a tale origine il giusto merito, evitando il rischio di equivocare un'intenzione che non ho, cioè quella cioè di ricreare un genere all’italiana.

 

Quali capacità sono maggiormente richieste a un attore che si accinge a sottoporsi a un provino per un tuo lavoro?

Innanzitutto una grande dimestichezza con la musica, una sorta di ritmo connaturato che deve permettere all’attore di poter camminare su una musica, di ballarci, giocarci, di esprimersi attraverso atteggiamenti gestuali, anche se non necessariamente coreografici. È da questo che io capisco se un attore ha un'attitudine e una versatilità tale da affrontare questo tipo di lavoro. I provini sono estenuanti, e vanno dalle cinque alle sette ore ciascuno… qualcuno l’ha fatto anche quattro volte!

 

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