Professor Perniola, sin dalle sue origini la filosofia si è occupata del piacere,
anche i primi filosofi greci infatti hanno riflettuto sulledoné. Che cosa si può
dire oggi di questa riflessione?
Il filosofo che per primo ha sottolineato questa stretta connessione tra il piacere e
la filosofia è stato Aristippo e la sua scuola, che è chiamata cirenaica; i cirenaici
nell'antichità erano definiti come i "raffinati", appunto in virtù della
grande importanza che davano all'esperienza del piacere. La ragione per cui Aristippo
conferisce una così grande importanza al piacere è di carattere gnoseologico, ossia è
strettamente connessa al problema della conoscenza. Secondo Aristippo io non so nulla, la
mente non mi fornisce dei dati sicuri circa la realtà del mondo, e l'unica cosa che io
posso dire, di cui io sono certo è il fatto che io provo in questo istante piacere,
oppure dolore.
Quindi è una ragione gnoseologica, per cosí dire, che porta Aristippo ad affermare il
primato del piacere. Naturalmente per lui il piacere è innanzitutto, e soprattutto, il
piacere sensibile; il fatto che io, qui ed ora, provo piacere o dolore, a suo giudizio, il
criterio fondamentale. Allora, il primo problema è se il piacere o il dolore siano
paritetici, cioè stiano sullo stesso piano. Per Aristippo non stanno sullo stesso piano;
esiste infatti un primato del piacere sul dolore. Egli paragonava il piacere al movimento;
considerava il piacere come un movimento lieve, dolce, (edoné, piacere, deriva appunto da
edys, "dolce" in greco), mentre considerava il dolore come un movimento rude.
Un altro aspetto interessante della concezione di Aristippo è, ad esempio, la
questione del calcolo dei piaceri: secondo Aristippo non è possibile, poiché tutti i
piaceri sono uguali. Egli argomenta in questo modo paradossale: tutti i piaceri sono
uguali, perché se io dicessi che un piacere è più grande di un altro, introdurrei un
calcolo dei piaceri, cioè un'attività della mente, e quindi, dato che la mente, secondo
Aristippo, porta a delle conclusioni quasi sempre incerte, tutti essere devono essere
uguali.
Professor Perniola, secondo la concezione di Aristippo, i piaceri sono uguali per
qualità o per intensità?
Sono uguali, non si può dire quale sia più grande, perché questo implica introdurre
un calcolo e il calcolo introduce un'attività della mente, ossia qualcosa che secondo
Aristippo è dubbio. Questo è un aspetto paradossale di tale filosofia. Per quanto
riguarda la questione della qualità del piacere, Aristippo non dà risposta, nel senso
che tutti i piaceri a suo avviso sono uguali. L'unica cosa che possiamo dire è che il suo
discorso sta veramente abbarbicato su questo unico punto. Io non posso nemmeno, secondo
Aristippo, essere sicuro di recare piacere ad un altro. Questo discorso, così interamente
centrato intorno alla certezza dell'esperienza sensibile, creava già nell'antichità una
grande perplessità, poiché generava l'accusa - che infatti fu fatta nei confronti di
Aristippo - di considerare in fondo l'esperienza come interamente chiusa in se stessa; la
posizione di Aristippo era in fondo una sorta di solipsismo. Il problema discusso appunto
dagli altri allievi di Socrate, da Antistene, da Platone, e poi dai filosofi successivi,
da Aristotele, dai Cinici e dagli Stoici, è appunto come sottrarsi al solipsismo
edonistico di Aristippo, come uscire da questa prigione, per cui io posso sì affermare
qualcosa, ma non posso farlo "sentire" ad altri.
Possiamo allora vedere quali sono le posizioni dei vari filosofi successivi, a
cominciare da Platone?
Ci sono due risposte fondamentali: ci sono coloro i quali cercano di salvare il
rapporto tra la filosofia e il piacere, modificando la nozione di "piacere" data
da Aristippo, dai cirenaici in generale, di piacere. Tra questi cè appunto Platone,
che opera una specie di riforma estetica del piacere, collegandolo con l'idea del bello,
Aristotele, che opera una specie di riforma metafisica della nozione di piacere,
considerandola non come movimento, ma come atto, e Epicuro, il quale distingue poi tra
piaceri statici e piaceri di movimento privilegiando i primi. Queste sono tre posizioni
che operano appunto una riforma della nozione di piacere, pur mantenendo la connessione
tra la filosofia e il piacere. C'è poi un'altra posizione che invece esclude questo
rapporto, ed è quella dei cinici e degli stoici; essi rifiutano il legame tra la
filosofia e il piacere e già Antistene, per esempio, un filosofo della scuola socratica
considerato come un anticipatore dei cinici, diceva: preferisco impazzire piuttosto che
provare piacere.
Professor Perniola; cominciamo allora da Platone: in quali testi egli affronta
direttamente la questione del piacere?
Platone ne parla in moltissimi dialoghi, in almeno una decina di dialoghi - in
particolare il Filebo : è una questione molto importante per lui. La posizione platonica
consiste in fondo nel distinguere i "veri" piaceri dai "falsi" piaceri
e quindi nell'escludere i piaceri sensibili e, in particolar modo, la sessualità.
Platone, da un punto di vista generale, opera una specie di riforma della nozione del
piacere, la cui influenza continua fino ad oggi. La sua riforma implica un privilegiamento
di certi sensi: l'esperienza del bello, ad esempio, è strettamente connessa con la vista
e con l'udito, mentre non è connessa con gli altri sensi. Il senso di questo
privilegiamento consiste essenzialmente nello stretto rapporto che Platone stabilisce tra
il piacere e il bello.
La ragione profonda dellinnovazione platonica della nozione di piacere risidede
comunque nella socializzazione. Il bello costituisce qualcosa di oggettivo, simile al vero
e al bene, ed è allora proprio stabilendo una stretta connessione che esiste tra il
piacere e il bello che Platone riesce ad uscire in qualche modo da quella prigione
edonistica che Aristippo aveva teorizzato. Tutto il discorso platonico si articola quindi
sulla base della distinzione tra piaceri veri e piaceri falsi. I piaceri veri, in primo
luogo, sono quelli connessi con la vista e con l'udito. I piaceri veri sono stabili, e
questo è il secondo elemento molto importante: secondo Platone, infatti, i piaceri
sensibili non presentano, al contrario questa stabilità, soprattutto quando poi sono
connessi al bisogno e al desiderio.
Platone critica una vita intesa unicamente come un continuo fluire, come dimensione del
movimento, la quale, secondo Aristippo, era implicita nella nozione di piacere. A questo
proposito Platone adopera una metafora dicendo che appunto una vita pensata in questo modo
è simile alla vita di un caradrio, un uccello dell'antica Grecia, a cui si attribuiva la
caratteristica di mangiare e di evacuare continuamente; quindi, una vita di piaceri
sensibili, per Platone, è una vita in cui tutto si dissolve nel continuo fluire, in cui
non c'è niente di stabile, mentre il piacere vero deve essere in sé stabile.
Il terzo carattere del piacere vero è la sua purezza: il piacere vero è un piacere
puro, mentre la maggior parte dei piaceri sensibili di cui parlava Aristippo erano
"mescolati". A questo proposito Platone dice che se noi vogliamo cogliere il
vero piacere, non dobbiamo guardare ai grandi piaceri, perché questi sono sempre piaceri
mescolati a grandi dolori; dobbiamo invece guardare ai piccoli piaceri, che sono quelli
che ci portano in qualche modo alla nozione del vero piacere. I piaceri puri sono privi
cioè di mescolanza coi dolori, hanno un carattere esclusivamente positivo. Platone dice
che, se vogliamo trovare i grandi piaceri, li possiamo trovare presso i malati: questa
osservazione è curiosa, perché nei malati c'è una grande mescolanza di piaceri e di
dolori, ma non possono arrivare in qualche modo all'idea di un piacere puro, non
mescolato.
Altro carattere fondamentale che rende il piacere "vero" è la misura.
Naturalmente Platone fa molti esempi di piaceri veri: una vita piacevole è in qualche
modo una vita che ha bisogno di intelligenza, è una che quindi è connessa con quella
capacità di calcolare la quale invece è esclusa dal discorso di Aristippo. Sono piaceri
puri quelli che proviamo nel contemplare le figure geometriche, quelli collegati con la
conoscenza, quando essa non è connessa ad una eccessiva sete di sapere, che implica in
qualche modo uno stato di bisogno. In sintesi, quindi, possaimo dire che la posizione
platonica rappresenta una specie di riforma estetica della nozione di piacere, in cui
questa è messa soprattutto in connessione con l'esperienza del bello.
In Aristotele, invece, come si riarticola il problema?
La strategia di Aristotele è completamente diversa. Aristotele distingue due tipi di
movimenti: il movimento cosí come lo intendeva Aristippo, kynesis, che egli appunto
rifiuta e al quale oppone un altro tipo di movimento che è l' energheia, "l'atto
puro". Quindi tutta la strategia aristotelica sta nello stabilire una stretta
connessione tra il piacere e l'attività. Egli compie una specie di desensibilizzazione
del piacere, ma nello stesso tempo salva i piaceri sensibili perché, a suo avviso, anche
i piaceri sensibili sono "attività", sono "energheia". Lo sono in una
forma e in una misura inferiore ai piaceri intellettuali, tuttavia essi pur sempre sono
"attività". Potremmo dire quindi che il discorso di Aristotele è una riforma
metafisica, filosofica, della nozione di piacere, che, in una certa misura, salva i
piaceri sensibili, anche la sessualità, la quale per Aristotele è un vero piacere, anche
se inferiore ai piaceri intellettuali.
Anche Platone fa, in qualche modo l'elogio, di eros, ma la posizione di Aristotele dà
una valutazione più positiva del piacere sensibile, mentre per Platone è tutto collegato
con la visione del bello e, quindi, tutto viene ad avere un carattere ascensionale, per
cosí dire, per cui è importante la visione dei corpi perché essa consente di passare
alla visione delle idee. Direi che in Aristotele c'è un maggiore riconoscimento del
piacere sensibile in generale.
Quale altro filosofo antico si schiera a favore del piacere?
L'altra grande riforma della nozione di piacere è fatta da Epicuro. La sua posizione
è ancora diversa. A suo modo, anche Epicuro rimane fedele alla connessione, stabilita da
Aristippo, tra la filosofia e il piacere, però il suo punto di vista è di carattere
teologico: se noi vogliamo, dice Epicuro, conoscere l'essenza del piacere, dobbiamo
guardare alla vita degli dei. Quindi la sua posizione è quella di trovare anche nella
vita umana qualcosa che assomigli al piacere provato dagli dei. Per Epicuro questo è
fornito indubbiamente dai piaceri dell'amicizia; egli, infatti, distingue tra
"piaceri in movimento", che egli rifiuta, e "piaceri statici", che
privilegia decisamente; è soltanto nell'amicizia, in particolar modo nell'amicizia
filosofica, che gli uomini diventano simili agli dei.
Per "piaceri in movimento" si possono intendere i piaceri collegati con la
sensibilità, i piaceri collegati coi bisogni, col desiderio, che non hanno e che non
pretendono quella stabilità che caratterizza invece i piaceri veri, ossia quelli statici.
Si può affermare che, per i Greci, i piaceri più puri sono i piaceri che non nascono
dal desiderio?
Non direi per i Greci, ma per questi filosofi. Questi tre filosofi, del resto,
portavano delle opinioni profondamente innovative nei confronti della mentalità greca.
Per la mentalità greca non vi è dubbio che i piaceri sessuali erano più grandi.
Dobbiamo sempre tener presente che i filosofi sostenevano delle opinioni paradossali,
senz'altro contrarie alla opinione comune. I più paradossali di tutti, sotto questo
aspetto, erano i Cinici e gli Stoici.
Per quali ragioni profonde, a un certo punto, la filosofia si schiera contro il piacere
in modo abbastanza paradossale?
Direi che consideravano la filosofia come il contrario del piacere. La posizione più
radicale è quella espressa già da un allievo di Socrate, Antistene, il quale diceva:
"Preferisco impazzire piuttosto che provare piacere". Su questa linea stanno i
Cinici, per esempio Diogene: la posizione cinica nei confronti della vita, il rifiuto
della vita comune.
C'è un rifiuto dei piaceri sensibili o anche dei piaceri intellegibili o
intellettuali?
Questa distinzione non c'era nei Cinici e negli Stoici. Per gli Stoici, ossia Zenone,
Creante e Crisippo, rappresentanti dell'antica Stoà, coloro i quali hanno teorizzato e
sistematizzato questo rifiuto dei piaceri, la ragione era molto semplice: il piacere è
una passione. Gli Stoici ritenevano che le passioni fondamentali fossero quattro: il
piacere, il dolore, il desiderio e la paura, e le rifiutavano tutte e quattro. Queste
erano le quattro passioni fondamentali a cui riportavano una grande varietà di passioni,
allincirca ottanta, tutte riconducibili a queste quattro. La filosofia, l'esperienza
della filosofia, il filosofare era, per gli Stoici, esattamente il contrario che l'essere
preda delle passioni: la ragione di questa opposizione nei confronti delle passioni
derivava dalla netta differenza che essi ponevano tra il saggio e lo stolto. Gli stolti
erano, secondo gli stoici, la stragrande maggioranza dell'umanità, loro stessi si
ponevano come stolti. Ritenevano che di saggi, in tutta la storia della filosofia, ce ne
saranno stati uno, due: Socrate e, forse, qualcun altro che non conosciamo. Ma non si
includevano nell'ambito della categoria dei saggi; soltanto i saggi sono felici, mentre
chi è preda delle passioni non può essere felice. Qui c'è netta la separazione tra
felicità e piacere.
Il fatto che gli stoici considerassero anche il dolore come passione, non significa che
essi davano alla passione un significato diverso da quello che gli diamo noi, dal momento
che noi per passione tendiamo a concepire qualcosa di attivo, mentre per i Greci la
passione era qualcosa di veramente passivo?
Certo, questa sua osservazione coincide pienamente con la riforma che Cartesio ha fatto
della nozione di passione, dicendo che gli antichi non avevano capito nulla delle
passioni. Per i Greci, certo, è qualcosa di passivo e qui era la differenza molto netta
tra il saggio e lo stolto: il saggio è colui che segue il logos, la ragione, e che quindi
è felice; lo stolto è quello che ha un'esperienza tumultuosa della vita. La descrizione
che lo stoicismo ci dà della stoltezza è impressionante: descrive quello che noi
chiameremmo uno schizofrenico, uno che salta continuamente da un sentimento all'altro e
che, quindi, non può vivere in modo coerente, non può seguire un filo, perde il filo
della propria vita.
Questa ricerca, perpetrata dagli stoici, di una grande stabilità, non era già
presente in Platone?
Sì, certo, però negli stoici la preoccupazione fondamentale è quella che non vada
rotta la continuità dell'esperienza, la continuità del mondo. Non a caso negli stoici
c'è questa esperienza cosmica della vita, la cosmicità del mondo, la necessità di dare
il proprio assenso a ciò che avviene nel piano del mondo. L'esperienza cosmica è un
qualcosa di tipicamente stoico: è appunto l'idea che il mondo sia qualcosa che si tiene
tutto insieme. E questa è la ragione per cui gli stoici danno una cosí grande importanza
al tatto; sono gli unici filosofi dell'antichità che danno importanza al tatto perché il
tatto è qualcosa che è più collegato con la continuità, con l'esperienza di una
continuità. Diversamente Platone dava importanza, come ho detto, alla vista e all'udito.
Per gli stoici le passioni turbavano l'assetto del cosmo, rappresentavano in questo
senso una minaccia?
Sì, nel senso che il saggio doveva dare il proprio assenso all'ordine cosmico,
all'ordine del mondo: questo è molto importante. Anche questo è evidente nei primi
stoici, ma è evidente anche negli stoici romani. Nello stoicismo romano vi è il paragone
dell'uomo con un cane legato ad un carro: se questo cane corre volentieri dietro questo
carro è bene, se no viene trascinato. Quindi è necessario una specie di assenso a quello
che non si può cambiare.
Passando alle filosofie moderne, e a partire dal Rinascimento, quale autore riprende,
come centrale, il tema del piacere?
Lorenzo Valla, che è autore appunto di un famoso testo, De voluptate, ma anche del De
vero bono, "Del vero bene", in cui il "piacere", la voluptas è
appunto presentata come un bene, un bene per eccellenza. Ciò che è interessante e nuovo
nella posizione di Valla è la connessione tra il piacere e la vita, l'esperienza del
vivere. Questa interessante concezione è caratterizzata anche dal fatto che Valla pone
sullo stesso piano i piaceri del corpo e i piaceri dell'anima, e mi pare che essa venga
affermata con accenti nuovi, senza dubbio, rispetto al mondo antico. L'altro aspetto molto
importante è il rilievo che il piacere, secondo Valla, ha per la vita, per continuare a
vivere, per la salute. Inizia in fondo con lui, a mio avviso, la nozione moderna del
piacere, la quale è soprattutto posta in connessione proprio col vivere, con l'esperienza
della vita vissuta.
Professor Perniola, la connessione del piacere con lesperienza della vita verrà
ripresa dalla filosofia successiva o resta unoriginalità di Valla?
Hobbes la riprenderà. Egli è infatti un filosofo che dà un grande rilievo al piacere
e lo connette appunto con la vita, con l'esperienza della vita. Direi che ciò che segna
la riflessione moderna sul piacere, rispetto a quella antica, è da un lato questa
connessione con l'esperienza della vita, e dall'altro l'infinità, il carattere infinito,
che viene attribuito al piacere. Sotto questo aspetto, mi pare che il filosofo che
maggiormente ha sottolineato questa dimensione sia stato Leibniz, il quale è
essenzialmente un "filosofo del piacere".
Professor Perniola che cos'è precisamente il piacere per Leibniz?
Per Leibniz il piacere è collegato con la perfezione, con un sentimento di perfezione,
mentre il dolore è collegato, allopposto, con un sentimento di imperfezione. Ma
l'aspetto più interessante e nuovo del discorso leibniziano è il fatto che mette in
evidenza l'infinità, il carattere infinito, del piacere. A questo proposito c'è una
frase che mi sembra molto significativa, in cui Leibniz dice: "Non so se il più
grande piacere sia possibile, credo piuttosto che esso possa crescere all'infinito,
poiché non sapiamo fin dove le nostre conoscenze e i nostri organi possono arrivare in
tutta l'eternità che ci aspetta. Credo dunque che la felicità sia un piacere durevole,
il che non potrebbe aver luogo senza una progressione continua, senza nuovi piaceri".
In che senso, in Leibniz, il piacere ha il carattere dellinfinità?
In fondo c'è una specie di vitalismo nella posizione di Leibniz, perciò mi sembra che
porti alle estreme conseguenze delle intuizioni che stavano già nel Rinascimento, in
particolare in Lorenzo Valla: questa connessione con la vita, con ciò che si muove
dall'interno dei corpi. Una posizione completamente opposta, che ugualmente sottolinea
l'infinità dell'esperienza, è quella del nostro Pietro Verri, autore di un Discorso
sull'indole del piacere e del dolore, pubblicato nel 1773, che è molto significativo
perché è un libro "contro" il piacere. In esso Verri sostiene difatti un'idea
del tutto negativa del piacere; egli dice che in realtà infinito non è il piacere ma il
dolore e che il piacere è unicamente un'interruzione del dolore, esponendo così una tesi
nota fin dall'antichità.
Ma nei confronti della teoria negativa del piacere, il Verri mette l'accento sulla
infinità dell'esperienza del dolore umano e sulla precarietà del piacere, e dice delle
cose molto curiose: parla, ad esempio, di una "sensazione disgustosa" che
portiamo sempre con noi; al riguardo il piacere sarebbe unicamente un modo per uscire, per
sottrarsi a questo dolore o disgusto che sempre ci accompagna. Detto altrimenti, il
piacere quindi non sarebbe altro che una rapida cessazione di questultimo.
Cosa cambia fondamentalmente, nel passaggio dal mondo antico al mondo moderno, riguardo
alla nozione di piacere?
Cambia il fatto che nel mondo antico abbiamo un discorso intorno al piacere molto
determinato e preciso; nel mondo moderno, e in particolar modo a partire dal Settecento,
questo si complica poiché l'esperienza della vita inizia a comprendere sia il piacere che
il dolore. Pensiamo a Sade per esempio. Ci troviamo di fronte ad un tipo di esperienza che
va molto al di là dell'idea un po limitata, angusta, del piacere, di fronte a un
piacere intrecciato anche con il dolore, e ciò fa saltare la intera distinzione tra
piaceri e dolori. A me sembra che il piacere sia stato pensato nella filosofia in modo
coerente soltanto nell'antichità e che per il pensiero moderno, invece, la nozione greca
di edoné, sia troppo povera per spiegare una nuova forma di esperienza, molto più varia
e complessa. Non è un caso, del resto, che nella filosofia tedesca Freud adoperi la
parola Lust e non Genuss, cioè adoperi una parola che significa "voglia",
"brama", "desiderio". Quindi il "principio di piacere"
diventa in Freud qualcosa di estremamente più vasto della nozione ristretta di
"piacere". È implicita in tutta l'esperienza moderna un'ambiguità di fondo,
consistente nell'impossibilità talora di distinguere il piacere dal dolore: si apre così
una dimensione molto più complessa e vasta, inaugurata da Sade e poi, più tardi, da
Masoch.
Facciamo un attimo un passo indietro e parliamo di Hobbes, che ha tematizzato la
nozione di "piacere".
Per Hobbes il piacere è collegato al movimento della vita. Egli fa un esempio pratico:
considera che ci sono due piaceri fondamentali, da un lato il piacere del mangiare,
dall'altro il piacere sessuale; essi hanno qualcosa di affine e riguardano
l"incremento" della vita. In sintesi, è questa la posizione di Hobbes,
sempre molto realistica. Hobbes ha una concezione dell'uomo che è connessa allidea
di un accrescimento continuo della "potenza". Il piacere è considerato
positivamente, ma in qualche modo viene subordinato alla concezione sostanzialmente,
politica, che egli ha del mondo, per cui la vita è paragonabile ad una corsa e quindi ad
una competizione. D'altra parte Hobbes sta alle origini dell'empirismo inglese ed è
naturale che nell'etica propria di questa corrente filosofica al piacere venga assegnata
una importanza notevole. In fondo, la felicità, per l'utilitarismo ad esempio, è
considerata appunto un calcolo dei piaceri e dei dolori. Quindi entriamo in una
concezione, per cui l'etica e il piacere hanno uno stretto legame tra di loro. Viceversa,
nella filosofia tedesca, con Kant , si ha una loro completa separazione; come è noto,
l'etica di Kant è un'etica rigoristica, ascetica, nella quale l'elemento fondamentale è
rappresentato dal "dover essere", dal Sollen. Esso è qualcosa di razionale, di
completamente indipendente dalle inclinazioni sensibili dei piaceri, dalla piacevolezza.
Sotto questo aspetto direi che nella storia filosofica del piacere un grande rilievo ha
la nozione "estetica" di piacere, che rappresenta uninnovazione molto
importante di Kant e che sta alle origini dell'estetica moderna: tale nozione consiste
nell'individuazione di un piacere particolare, appunto il piacere estetico - che è
assolutamente diverso dai piaceri sensibili e anche dai quelli intellettuali -, che non
implica alcun interesse all'esistenza dell'oggetto. Su questo appunto Kant fonda poi la
nozione di "bello" e di "gusto".
Quali analogie e quali differenze ci sono tra il piacere estetico in Kant e la
connessione che Platone aveva stabilito tra il piacere e il bello?
Questa domanda mi sembra molto interessante e giusta, perché in effetti c'è una
continuità. Nella storia del piacere estetico, il primo passo è stato fatto da Platone,
il secondo da Kant. La differenza è che in Platone l'accento è più di carattere
oggettivistico, è messo più sulla bellezza delle idee, del mondo iperuranio, mentre in
Kant l'accento è posto sul soggetto.
Kant però utilizzava un concetto antico di cui non disponeva Platone, e che lui
opponeva al bello, cioè il "sublime".
Ciò è sicuramente molto interessante. Il discorso sul "sublime" è l'altra
faccia della medaglia. Ci sono delle esperienze che si presentano come contrarie al
piacere e queste sono appunto le esperienze del sublime; Kant distingue, ad esempio, tra
il "sublime matematico" e il "sublime dinamico": il sublime matematico
è l'esperienza di un infinito che va contro l'interesse dei sensi e il sublime dinamico
riguarda ugualmente le forze della natura, l'atteggiamento che l'uomo ha nei confronti di
una grandezza smisurata; è quindi l'esperienza che l'uomo prova nei confronti di qualcosa
che va contro l'esperienza dei propri sensi. C'è allora la necessità di recuperare da un
punto di vista estetico lesperienze del sublime. Kant riesce in questo recupero
facendo appello alla nostra destinazione soprasensibile, cioè, in fondo, alla moralità,
al fatto che l'uomo, sì, ha delle esperienze che vanno contro i propri sensi, ma riesce
in qualche modo a comprenderle e capire la propria differenza nei confronti di potenze
sterminate, in quanto soggetto alla legge morale. Quindi il concetto di sublime è molto
importante.
In ultima analisi, ci sono due categorie fondamentali nell'estetica del Settecento, da
un lato il bello e dall'altro il sublime; la nozione di sublime, che era stata
completamente dimenticata nell'estetica della seconda metà dell'Ottocento e del
Novecento, ritorna nei tempi recenti, nel corso degli ultimi quindici anni, per iniziativa
dei filosofi americani nell'ambito del post-modernismo. È comunque Lyotard il filosofo
che recentemente ha sottolineato l'importanza di questa categoria in un libro appunto
intitolato Del sublime, il quale rappresenta un ripensamento molto interessante della
filosofia kantiana.
Tornando al piacere, qual è secondo Lei l'importanza di questo tema, di questa
riscostruzione storica, per la filosofia contemporanea? Perché, in generale, è
importante oggi riflettere sul piacere?
A questo proposito direi una cosa un po paradossale, ossia che la nozione di
"piacere" - nonostante i tentativi, importanti, che sono stati fatti nell'ambito
della filosofia contemporanea, per esempio da Marcuse - mi sembra passata, legata al mondo
antico. Già nell'esperienza moderna c'è una complessità, un rimando reciproco tra
l'esperienza del piacere e l'esperienza del dolore che fa saltare in qualche modo
l'importanza di questa categoria, la quale, a mio avviso, rende impossibile il ritorno ad
una concezione edonistica della vita. Quindi io mi trovo paradossalmente più d'accordo
con gli stoici, con lo stoicismo, con la negazione che esso faceva della categoria del
piacere, poiché se si rimane nell'ambito del piacere non si fa molta strada, anche
nell'ambito dell'esperienza stessa. Sotto questo aspetto Aristippo aveva colto molto bene
un carattere fondamentale del piacere, cioè l'isolamento che genera: nel piacere si
rimane infatti chiusi in se stessi, nella propria soggettività, come in una prigione e
non si riesce perciò ad avere una comunicazione con gli altri.
Professor Perniola, possiamo dire, in conclusione, qualcosa sulle riflessioni sul
piacere, più attuali e quasi contemporanee a noi, di Bataille e Marcuse?
Sì, quella di Bataille mi sembra molto importante e molto attuale. In varie opere, in
vari testi sia di carattere narrativo che di carattere teorico o critico, Bataille ha
esposto una propria teoria dell'esperienza, che lui chiama appunto l'"esperienza
interiore" e che va molto al di là della nozione stretta di piacere; in essa, anzi,
è l'elemento dell'angoscia, dello strazio, del dolore e del male a rivestire la più
grande importanza. Tutti questi aspetti sono posti da Bataille in relazione con la
sessualità; l'erotismo in fondo è, secondo lui, un'esperienza della sessualità che va
molto al di là del piacere così come lo immaginavano gli antichi. Sotto questo aspetto
Bataille introduce degli elementi di drammaticità, degli elementi tragici, nei quali
però vengono in qualche modo portate alle estreme conseguenze le intuizioni di Sade, di
Masoch e di Freud.
L'altro autore importante è giustamente Marcuse. In effetti, egli è l'autore che ha
ripreso certe tematiche estetiche kantiane e schilleriane e ha dato un grande rilievo
appunto alla nozione di "piacere", attraverso anche una lettura molto originale
e interessante dell'opera di Freud, nella quale vengono messe da parte le pulsioni
distruttive, le pulsioni di morte, e rivalutate invece, fortemente, le pulsioni di vita. A
mio avviso, però, anche Marcuse rimane in qualche modo vittima di una concezione
limitata, di una concezione estetica del piacere, che mi sembra ormai superata.