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La generazione degli svuotati

Umberto Galimberti

 

Questo articolo è apparso su la Repubblica (www.repubblica.it) del 5 gennaio

Non abbiamo occhi, non abbiamo schemi di lettura per capire qualcosa di questi ragazzi compresi tra i 12 e i 16 anni che, in bande di dieci o quindici componenti, assaltano i loro coetanei per impossessarsi del loro orologio, del telefonino, dei soldi. Ma al tempo stesso non possiamo accontentarci della diagnosi dell'assessore alla Sicurezza del Comune di Milano Paolo Del Debbio che, a proposito dell'ultimo colpo messo a segno da una baby gang in corso Vercelli a Milano ha dichiarato al "Corriere della Sera" che si tratta di "pochi gruppi di deficienti" che "possono essere trovati e puniti con un lavoro di intelligence che contro i cretini dovrebbe essere più facile". Se questa è la diagnosi, lascio a voi intuire quanto generico, inutile e demagogico sarà il rimedio.

Eppure questa generazione al di sotto dei quindici anni è stata studiata, classificata, vivisezionata da istituti di ricerca come mai era capitato ad altre generazioni di giovani. Di loro si parla come del "pianeta degli svuotati", dove il progetto ha il respiro di un giorno, l'interesse la durata di un'emozione, il gesto non diventa stile di vita e l'azione si esaurisce nel gesto.

È una generazione che ha un basso livello di autoconsiderazione, una sensibilità gracile, introversa, indolente, un'inerzia provocata da un'eccessiva esposizione agli influssi della televisione, un'unica preoccupazione: procurarsi un'incredibile quantità di prodotti, di oggetti, di beni di consumo e di esibizione, perché il rapporto d'amore con i loro genitori è passato solo attraverso le cose e non attraverso il tempo, la disponibilità, la comunicazione.

Di qui le frequenti fughe nel mito, il mimetismo nella ricerca neppure troppo spasmodica di un'identità venata dalla nostalgia relativa all'impossibilità di reperire radici proprie, il tutto condito con un acritico consumismo, reso possibile da un'inedita disponibilità economica che, per disinteresse o per snobismo, questi giovani neppure utilizzano, perché le cose sono a disposizione prima ancora di averle desiderate.

E così a questa generazione del malessere viene attribuita una valenza di mercato prima che di identità. Su di essa si buttano le nuove aree di profitto che hanno fatto proprie le istanze stilistiche, comportamentali ed espressive tipiche della condizione psichica di questa generazione che la pubblicità, la produzione dell'abbigliamento, le agenzie di viaggio e l'industria del divertimento hanno decodificato molto meglio di quanto non abbiano fatto le statistiche sociologiche, le analisi psicologiche del profondo, i politici e gli assessori alla sicurezza, la cultura devitalizzata della scuola dove molti insegnanti neppure si accorgono che quei giovani, che sono ogni giorno sotto i loro occhi appannati, non avvertono più alcuna corrispondenza tra quanto si apprende in classe e quanto si intravvede dalle finestre dell'aula.

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E così tra gli 11 e i 15 anni, quando incomincia a crescere la forza biologica, emotiva e intellettuale, i nostri ragazzi vivono parcheggiati in quella terra di nessuno dove la famiglia non svolge più alcuna funzione e la società alcun richiamo, dove il tempo è vuoto, l'identità non trova alcun riscontro, il senso di sé si smarrisce, l'autostima deperisce.

Sono queste le premesse che favoriscono la formazione di personalità psicopatiche o sociopatiche che lo psichiatra tedesco K. Schneider distingue dalle psicotiche perché la personalità sociopatica non è destrutturata, e dalle nevrotiche perché il disturbo non nasce da un conflitto, ma da una immaturità affettiva che nasconde una puerilità di fondo con conseguente insofferenza alle frustrazioni, incapacità di esprimere sentimenti positivi come simpatia e gratitudine, abbozzi sessuali impersonali e non coinvolgenti; apatia morale con mancanza di sentimenti di rimorso o di colpa, mancanza di responsabilità, falsità e insincerità sistematiche; condotta antisociale non episodica o impulsiva, ma costante e programmata che spesso mette capo a comportamenti delittuosi realizzati con freddezza e indifferenza.

La psicoanalisi a orientamento freudiano vede l'origine della personalità sociopatica nei primi rapporti del bambino con la figura materna inconsistente, anaffettiva o ambigua, e la figura paterna assente. Ma a sentire il sociologo tedesco Falko Blask oggi la psicopatia o sociopatia non sarebbe più la sindrome di alcuni, ma il modo di vivere di un'intera generazione ben descritta nel romanzo "Blue Belle" dello scrittore americano Andrew Vachass, dove il sociopatico "segue solo i propri pensieri, procede per la sua strada, avverte solo il proprio dolore. Sì. Non è forse la via giusta per sopravvivere in questo letamaio? Aspetta il tuo momento, abbassa la visiera. Non lasciare che ti leggano il cuore".

Abbiamo smesso di dire "noi" dopo il '68, l'abbiamo detto sempre meno dopo il crollo delle ideologie, ci siamo rifugiati in quello pseudonimo di noi stessi che ripete ossessivamente "io" dalle pareti strette come quelle di un ascensore. E di quella dimensione sociale che non ha più trovato dove esprimersi: né in chiesa, né a scuola, né nelle sezioni di partito, né sul posto di lavoro, è rimasto solo quel tratto primitivo o quel cascame che è la banda. Solo con gli amici della banda oggi molti dei nostri ragazzi hanno l'impressione di poter dire davvero "noi".

Cari genitori, dei figli che assaltano e derubano e dei figli assaliti e derubati, che dire e che fare? Che fare non lo so, che dire ci provo. Penso che la generazione dei nostri figli abbia, rispetto alla nostra di genitori, un'emotività molto più potente e uno spazio di riflessione molto più modesto. Il loro fondo emotivo è stato sollecitato fin dalla più tenera età da un volume di sensazioni e di impressioni eccessive rispetto alla loro capacità di contenimento. A partire dai primi anni di vita hanno fatto troppa esperienza (televisiva e non) rispetto alla loro capacità di elaborarla.

Di loro abbiamo detto: "Come sono intelligenti, noi alla loro età eravamo dei cretini". E non l'abbiamo detto solo a noi, l'abbiamo detto anche a loro. E loro ci hanno creduto, avviandosi con la nostra benedizione e la nostra compiacenza su quella strada ingannevole dove si confonde l'intelligenza con l'impressionabilità a cui segue una risposta immediata. In questo gioco di inganni abbiamo confuso la loro risposta immediata con la prontezza dei riflessi e la velocità di ideazione, mentre era semplicemente un corto circuito. Ora questi nostri figli si trovano ad avere un'emotività carica e sovraeccitata che li sposta dove vuole, a loro stessa insaputa, senza che un briciolo di riflessione, a cui non sono stati educati, sia in grado di raffreddare l'emozione e non far confondere il desiderio con la pratica anche violenta per soddisfarlo.

L'eccesso emozionale e la mancanza del raffreddamento riflessivo portano sostanzialmente a tre soluzioni: o lo stordimento dell'apparato emotivo attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della droga; o il disinteresse per tutto, messo in atto per assopire le emozioni attraverso i percorsi dell'ignavia, della non partecipazione che porta all'atteggiamento opaco dell'indifferenza; o infine alla genialità creativa se il carico emotivo è corredato da buone autodiscipline. Autodiscipline, non divieti immotivati e punizioni casuali. E perché le autodiscipline si formino occorre aver passato tanto tempo con i figli, perché la teoria secondo cui è decisiva la qualità del tempo che si passa con i figli e non la quantità è una patetica storia che noi genitori ci siamo raccontati a nostra giustificazione, lasciando ai nostri figli una gran quantità di tempo da passare in solitudine con un carico emozionale eccessivo senza strumenti di contenimento.

Ma ormai questo parere, se ha una sua plausibilità, può tornar utile a chi mette al mondo figli oggi. Per chi li ha già in quell'età che possiamo definire dell'adolescenza infinita, resta solo da dire: non interrompiamo mai la comunicazione, buona o cattiva che sia, qualunque cosa i nostri figli facciano. A interromperla ci pensano già loro e, come ci dicono le cronache di questi giorni, anche in maniera distruttiva.

 

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