Questo articolo è
apparso su la Repubblica (www.repubblica.it) del 23
dicembre
"La lotta di classe è finita, ma la battaglia per l'eguaglianza
è appena cominciata": così Tony Blair all'ultimo congresso del suo partito. Una
felice parola d'ordine, senza dubbio, largamente condivisibile, per lo meno da quanti si
collocano oggi a sinistra. Ma il problema si complica quando per raggiungere
quell'obiettivo si faccia ricorso a misure legislative o amministrative che apparentemente
contraddicono lo stesso principio di eguaglianza.
Mi riferisco, come è chiaro, al sistema delle "quote" e
della "pari opportunità" largamente adottate negli Usa nel corso degli ultimi
trent'anni nel settore dell'istruzione superiore e dell'occupazione a favore delle
minoranze etniche e delle donne, per combattere la drammatica discriminazione razziale e
poi la evidente discriminazione di genere.
In Italia l'argomento viene trattato con sufficienza e non di rado con
ironia, ma nel mondo anglosassone l'argomento è materia di un ampio dibattito in sede
scientifica, giuridica e filosofica. Il che non significa che tutti ne condividano le
ragioni, e ne apprezzino i risultati. Al contrario. Ma dell' argomento si discute
seriamente, per valutarne i risultati alla luce di un interrogativo: le politiche
antidiscriminatorie messe in atto fin dal 1963, prima con l'Equal Pay Act e poi con il
titolo VII del Civil Right Act sono riuscite e in che misura a fare di quella americana
una società più eguale nella quale cioè a tutti, uomini e donne, bianchi e neri,
fossero garantite uguali possibilità di affermazione e di successo?
Bianca Beccalli, docente di sociologia a Milano, tenta con questa
ricerca (Donne in quota, Feltrinelli, pagg. 200, lire 25.000) di dare una risposta
all'interrogativo, attingendo alla ricchissima bibliografia e alla giurisprudenza
americana che si è espressa sulla materia a seguito dei ricorsi di quanti si sono
ritenuti danneggiati dalla applicazione delle "azioni positive". Anzi, la
Beccalli fa di più. Sulla base della esperienza Usa, ne tenta la tematizzazione anche in
chiave italiana, mettendo a confronto, sulle stesse pagine, in una sorta di ideale
contraddittorio le opinioni di altri ricercatori, filosofi, giuristi e politologi offrendo
così al lettore, o alla lettrice, gli elementi necessari a formarsi una propria opinione.
Cosa non facile in verità perché se i dati che la esperienza ci offre
hanno una loro incontrovertibile valenza, le interpretazioni e le conclusioni che se ne
possono trarre, muovono in direzioni diverse e persino opposte. Ad esempio. Tutte le
ricerche americane riconoscono che la politica delle quote adottata nelle Università a
favore delle minoranze etniche è stata coronata da successo: se ne sono avvantaggiati
giovani che, neri ispanici o asiatici, in assenza di tale "azione positiva" non
avrebbero mai avuto accesso ai vertici dell'istruzione.
Gli stessi giovani poi, usciti dall'Università, si sono brillantemente
affermati nelle rispettive professioni. E tuttavia c'è qualcosa che non ha funzionato. Al
venir meno di quelle "azioni positive" infatti si è tornati esattamente al
punto di partenza con un vero e proprio tracollo nella presenza di studenti provenienti da
quelle minoranze etniche. Le porte attraverso le quali quei giovani erano felicemente
passati, si sono improvvisamente richiuse. Un esempio per tutti: alla Scuola di Legge
Boalt Hall di Berkeley che dal 1969 in poi aveva ammesso ogni anno una media di 24
studenti neri, tutti laureatisi poi con successo, nel 1997 (dopo la approvazione da parte
degli elettori californiani della Proposizione 209 che vieta ogni trattamento
preferenziale a favore delle minoranze) ne è stato ammesso uno solo.
Ma quali conseguenze trarre da questo risultato? Secondo Ronald Dworkin
il dato, lungi dal mettere in discussione l'efficacia della politica delle quote, starebbe
soltanto a dimostrare quanto siano ancora radicate nella società americana le dinamiche
di esclusione sociale. Per contrastarle con efficacia la politica delle "quote"
andrebbe non solo continuata ma intensificata. Secondo Marco Santambrogio, invece, quel
risultato starebbe a dimostrare che il sistema delle quote e delle azioni positive, pur
giustificabile ed efficace sul breve termine, non è in grado di risolvere stabilmente il
problema della diseguaglianza che si ripropone non appena quel sistema venga sospeso.
E dunque, secondo lo studioso italiano, la "lotta per
l'uguaglianza" per rifarsi alla parola d' ordine di Blair va combattuta con altri
provvedimenti, più difficili e radicali ma capaci di intervenire sulle cause originarie
della diseguaglianza. Riservare un certo numero di posti agli appartenenti alle categorie
ed etnie discriminate sarebbe solo un palliativo temporaneo che non risolverà il problema
fino a quando alle categorie ed etnie discriminate non verranno garantite uguali
condizioni di partenza. Siamo dunque di fronte a due diverse concezioni dell'eguaglianza e
dei modi per raggiungerla. Il passaggio si fa molto più delicato quando si voglia
affrontare, come fanno la stessa Beccalli e Antonella Besussi, il problema delle
diseguaglianze nell'arena politica, che resta monopolio quasi esclusivamente maschile, un
"gigantesco e reiterato delitto" come ricorda e deplora nella sua prefazione
Giuliano Amato.
Il passaggio si fa delicato perché se il lavoro e l'istruzione si
configurano come un diritto costituzionalmente protetto (e quindi tutelabile anche, se del
caso, attraverso il sistema delle quote), altrettanto non può dirsi della partecipazione
alle assemblee elettive e ai posti di direzione politica. Da questo punto di vista,
nonostante il diverso parere di molti studiosi e studiose, non sembra del tutto arbitraria
la decisione della nostra Corte Costituzionale che nel 1995 ha sancito la
incostituzionalità di due precedenti leggi attraverso le quali veniva garantita una più
equa rappresentanza delle donne in Parlamento e nei consigli regionali.
La sentenza, qui esaminata con finezza di argomentazioni da Alessandro
Pizzorusso e Marzia Barbera, affermava che "in tema di elettorato passivo la regola
inderogabile è quella dell'assoluta parità, sicché ogni differenziazione in ragione del
sesso non può che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni
cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri,
appartenenti a un gruppo che si ritiene svantaggiato".
Discorso chiuso, dunque? Non del tutto. Dopo la bocciatura della Corte
infatti si è imboccata la strada, più lunga ma più limpida, della revisione dell'art.
51 della Costituzione. La proposta, già discussa nella Bicamerale e riproposta
recentemente a Montecitorio, potrebbe infatti superare, se approvata, il contrasto che
negli anni scorsi si è manifestato tra il legislatore e la Corte. Una analoga soluzione
è stata adottata in Francia, dove, dopo un lungo dibattito, è stata approvata una
riforma costituzionale che apre la strada ad una Assemblea nella quale siano rappresentati
in modo paritario uomini e donne.
Dal dibattito sulle "quote" alla "parità" nella
rappresentanza politica: il passo sembra molto lungo ma non è escluso che anche le forze
politiche italiane possano farlo, non tanto forse per risarcire le donne di una ingiusta e
lunga discriminazione, quanto piuttosto nel tentativo di dare nuovo vigore a un sistema
politico in crisi facendo ricorso a energie e intelligenze che finora ne sono state
escluse. Lo ammette apertamente Lionel Jospin, fermo sostenitore della "parità"
di rappresentanza, quando sostiene che la "femminilizzazione della vita politica è
necessaria a far saltare i chiavistelli politici e istituzionali che impediscono la
modernizzazione della nostra vita pubblica".