Professor Cases, per quali motivi ha dedicato la Sua vita allo studio della cultura
tedesca?
Nella cultura tedesca mi ha sempre affascinato la simbiosi di letteratura e di
filosofia. Da giovane avevo interessi letterari e anche interessi filosofici, ma non così
forti da dedicarmi esclusivamente alla filosofia. La cultura tedesca offriva un ampio
spazio per chi volesse fondere l'interesse filosofico e quello letterario. Questa è la
ragione principale della scelta di dedicare il mio tempo allo studio dell'universo
culturale tedesco.
Naturalmente a questo si sono aggiunti altri motivi: soprattutto gli avvenimenti della
Seconda guerra mondiale e il trauma che abbiamo avuto tutti, a cominciare da Benedetto
Croce, a causa del fatto che la cultura tedesca ci aveva, per così dire, delusi. Io, in
particolare, come ebreo, ero molto indignato, oltreché deluso, ma, anziché volgere le
spalle alla Germania, ho cercato di superare il trauma dedicandomi con impegno proprio
allo studio di quella cultura che non aveva rispettato le nostre speranze. Questa scelta
mi è stata spesso rimproverata dai miei amici ebrei, i quali avrebbero voluto che io non
mi occupassi di un popolo così sciagurato. Ma ritengo che negli errori e negli orrori
della Germania sia individuabile la manifestazione particolarmente profonda di una crisi
che riguardava tutti e non soltanto i tedeschi. Vi sono, naturalmente, anche fattori
casuali che spiegano l'orientamento della mia vita di studioso: durante la guerra, non
potendo studiare in Italia perché ebreo, studiai chimica a Losanna e a Zurigo dove vissi
per quasi cinque anni. Lì imparai bene il tedesco, un tedesco un po' libresco che mi è
sempre rimasto come caratteristica, perché, al contrario, il tedesco autentico ha sempre
una connotazione dialettale.
Per ogni visitatore della Germania è sconvolgente apprendere che a soli cinque
chilometri dalla casa di Goethe a Weimar, uno dei massimi centri della cultura europea, vi
sia il campo di concentramento di Buchenwald, in cui i prigionieri russi furono massacrati
in maniera atroce. E neppure la distanza temporale è molto grande: Goethe muore nel 1832
e nel 1933 Hitler diventa cancelliere della Germania. E' certamente difficile spiegare
come un popolo che ha dato tanto alla cultura mondiale sia poi caduto in questa immane
barbarie. Lei pensa che vi sia una spiegazione di cosa è avvenuto tra il 1832 al 1933, in
modo tale da rendere meno incredibili gli eventi del nostro secolo?
Bisogna considerare anzitutto il cambiamento dei tempi e della situazione topografica
della cultura tedesca. La cultura tedesca nel 1832, alla morte di Goethe, era un prodotto
di alcune piccole città culturali come Weimar e di alcune città che, sebbene più
grandi, come Francoforte e Berlino, mantenevano, però, dei contatti con il retroterra
provinciale.
Nel corso dell'Ottocento, si sono formate, invece, grandi metropoli come Berlino stessa
che sono state all'avanguardia dello sviluppo urbanistico e quindi, dello sviluppo della
società in generale, anche rispetto all'America. Non è un fatto insignificante che
Hitler volesse vedere un film americano al giorno: dietro la propaganda antiamericana
c'era la coscienza di una profonda affinità e questa affinità si rivela leggendo la
grande letteratura dell'epoca di Weimar. Nella narrativa tedesca come in quella americana
si trova lo stesso senso del disorientamento sociale e della solitudine dell'individuo. La
Germania è stata, quindi, un terreno di sperimentazione dei grandi fermenti dell'epoca e
anche del grande disorientamento della razza bianca.
Si parlava della fine dell'uomo europeo e ciò si avvertiva in Germania più che in
altri Paesi europei, che avevano, come la Francia, una maggiore "resistenza
culturale". I francesi erano forse ancora più antisemiti dei tedeschi, ma avevano
più freni culturali che inibivano loro le conseguenze atroci che l'antisemitismo ha avuto
in Germania. L'antisemitismo conduce qui all'irrigidimento della società, alla tendenza a
cercare delle vie di uscita nella distruzione e nell'autodistruzione. C'è, quindi, un
rapporto tra la Germania di Weimar, la Germania di Goethe e questa Germania dell'orrore.
Tra Weimar e Buchenwald c'è una relazione che non è dovuta ad una evoluzione interna,
spontanea, organica, ma al diverso valore che hanno acquisito certi fenomeni all'epoca di
Goethe o all'epoca di Hitler. Si è avuta allora una specie di esplosione di fenomeni
sociali che erano già immanenti alla società tedesca, ma non esplodevano.
Professor Cases, ritiene adeguata l'interpretazione del nazismo come un tentativo di
modernizzare un Paese che, a causa della sua cultura, faticava a rinnovarsi?
Il nazismo, con la sua ideologia di rinnovamento fondato, però, su valori premoderni
cari ai tedeschi, ha contribuito in maniera determinante a far esplodere fenomeni sociali
di crisi, già presenti da tempo nella vita del popolo tedesco. Infatti, l'evoluzione dal
disorientamento sociale e dal senso di solitudine rintracciabili già nella Germania di
Weimar fino agli orrori di Buchenwald ha significato, per il popolo tedesco, arrivare ad
accettare lo strano connubio, proprio del nazismo, di modernizzazione e riattualizzazione
di valori antichi.
E', però, necessario tener presente che questa evoluzione da Weimar a Buchenwald ha
estremizzato gli esiti di un processo che aveva luogo dappertutto, ad esempio in America.
L'America aveva però altre risorse per fronteggiare i fenomeni di crisi connessi ai
mutamenti sociali ed economici sviluppatisi nel corso dell'Ottocento. Le capacità di
recupero dell'America sono state grandissime; in Germania, invece, il bisogno di
modernità si è trasformato nella tendenza contraria. Si pensi, per esempio, alle
conquiste nel campo sessuale che si erano realizzate nell'epoca di Weimar. Se leggiamo i
romanzi dell'epoca troviamo la testimonianza di una disinvoltura sessuale da cui gli
stessi americani erano in quel momento lontani. Questo desiderio di modernità, in
Germania, ha avuto come conseguenza una reazione violenta in senso contrario e quindi, un
ritorno a concezioni e a modi di vivere che sembravano da tempo superati.
Madame de Staèl ha creato l'immagine del tedesco romantico. Qual è l'impronta
tipicamente tedesca nella formazione e nello sviluppo del Romanticismo?
Una nota tipicamente tedesca, in quel vasto e complesso movimento culturale che è il
Romanticismo, è senz'altro la precocità di questo fenomeno in Germania. Già a scuola ci
insegnano che il primo Romanticismo italiano corrisponde al tardo Romanticismo tedesco, ma
molte sono le inesattezze, perché si considerano romantici anche prodotti letterari dello
Sturm und Drang. Lo stesso Schiller è stato considerato per decenni in Italia come un
grande romantico, mentre la designazione "Romanticismo" dal punto di vista
storico-letterario deve essere destinata al Romanticismo di Jena e di Heidelberg. Fra
Schiller e i romantici non correva, peraltro, buon sangue
Un motivo alla base dello sviluppo del Romanticismo è l'orrore per la modernità; è
comunque lecito chiedersi fino a che punto esso fosse giustificato. I tedeschi sono stati
i primi a pensare, ad esempio, che il telaio meccanico costituisse l'inizio di un'era
catastrofica.
Ma il Romanticismo tedesco non ha avuto una grande risonanza europea. L'unico grande
scrittore romantico che abbia imposto il Romanticismo a tutto il mondo è stato Hoffmann,
il quale ha avuto un successo internazionale ed è stato tradotto dappertutto, ma avendo
sempre, al tempo stesso, la fama dell'eccentrico. I grandi scrittori francesi, come
Balzac, influenzati in parte da Hoffmann e in parte dal Romanticismo tedesco, hanno avuto,
invece, una risonanza internazionale ed è piuttosto attraverso costoro che il
Romanticismo è stato divulgato e reso accessibile. E' questo il motivo per cui il
Romanticismo tedesco è ancora considerato un movimento poco noto, da riscoprire e la cui
riscoperta "salverebbe l'umanità". La traduzione dell'opera completa di Novalis
va, a mio avviso, in questa direzione: si può sperare di trovare in Novalis quella
ricetta che non si trova altrove per salvare il mondo dalla catastrofe.
Quale fu il rapporto di Goethe con il Romanticismo?
Fu un rapporto ambivalente, perché Goethe, in un primo tempo, sperava di poter
contrapporre al Romanticismo il classicismo, vale a dire le dottrine che aveva elaborato
insieme a Schiller tra il 1795 e il 1805. In seguito, si è accorto, però, che quel tipo
di classicismo era un "classicismo di gesso". Goethe ha perciò modificato negli
ultimi anni le sue concezioni, soprattutto nel secondo Faust, un'opera straordinaria la
cui lettura riserva sempre nuove sorprese.
Nel secondo Faust, che è, come è stato detto, "il poema del XIX secolo",
Goethe aveva previsto buona parte di ciò che sarebbe successo nell'Ottocento. Mentre
precedentemente pensava di poter superare l'orrore per la modernità sul piano puramente
estetico, attraverso il ricorso alle dottrine del classicismo, attraverso la resurrezione
di Elena come incarnazione del classicismo, nel secondo Faust capisce che questo non è
possibile e che l'umanità sta precipitando in un baratro da cui è difficile che possa
risollevarsi. Il secondo Faust comunica questa consapevolezza con quella suprema ironia
che è l'arte del vecchio Goethe, ma sottintende comunque che esiste forse qualche
possibilità di redenzione.
Oltre a Goethe, oltre Hoffmann e Novalis, un altro tedesco che ha avuto un forte
impatto sulla cultura europea è Karl Marx. Lei stesso Professor Cases è stato uno dei
grandi intellettuali marxisti di questo secolo. In Marx c'è un'ambivalenza profonda verso
il progetto della modernità: da una parte Marx è uno dei critici più accaniti del
progetto di modernizzazione, dall'altra la sua ricerca sembra superare la modernità
portandola al suo compimento, cioè tenta di usare la modernità come rimedio contro la
modernità stessa.
Che cosa rimane del pensiero di Marx e soprattutto del suo atteggiamento verso il
progetto della modernità dopo il 1989?
E' difficile fare un bilancio. Penso che l'idea di Marx, secondo cui è necessario
spingere avanti il motore della storia fino a trovare il punto in cui l'umanità giunga a
una società senza classi, vada conservata anche se, fino ad ora, è stata votata
all'insuccesso, per ragioni, direi, di sopravvivenza. Si tratta, infatti, di un'idea
motrice che può dare le ali all'umanità. Senza di essa rimangono soltanto rassegnazione
e passività. Ma è certo che lo stesso Marx si rendeva conto dell'impossibilità di
conciliare il progresso con il bene dell'umanità e che l'umanità non sarebbe approdata
ad una soluzione dei suoi problemi. Marx, infatti, afferma, che l'umanità si pone
soltanto problemi che è in grado di risolvere, ma già nelle teorie del plusvalore questa
convinzione vacilla ma cresce, viceversa, al tempo stesso, la fiducia positivistica nel
progresso.
Gli scritti giovanili di Marx sono, invece, ancora influenzati dal Romanticismo e alla
fiducia generale nel progresso si accompagnano la rabbia e l'insoddisfazione per la
necessità di passare attraverso l'asservimento dell'uomo alla macchina. Nell'ultimo Marx,
questa diffidenza è sempre più repressa, mentre è più accentuata la fiducia, perché
nel frattempo Marx ed Engels avevano costruito un edificio politico, avevano creato la
Seconda internazionale, erano sostenuti da una struttura portante e tutto ciò
giustificava il loro ottimismo. Inoltre Engels era, tra i due, il meno profondo e il più
vicino alle tesi del positivismo e alla fiducia nel progresso.
György Lukács è sicuramente, nell'ambito della tradizione marxista, il filosofo più
originale dopo Karl Marx. Qual è stato, secondo lei, il contributo di Lukács
all'interpretazione del nostro secolo dominato dalla "distruzione della
ragione"?
E' necessario, anzitutto, tenere in considerazione l'evoluzione del pensiero di
Lukács; ci sono, infatti, un primo e un secondo Lukács tra loro divergenti. Personalità
come Marx o Goethe, che vivono al centro di grandi rivolgimenti politici e sociali, si
adattano naturalmente a questi rivolgimenti e modificano le loro concezioni. Non si tratta
di un processo di trasformismo, ci si deve interrogare piuttosto sulla peculiarità di un
determinato momento storico, chiedersi perché la storia presenti quel particolare aspetto
e, di conseguenza, sviluppare le proprie riflessioni. Lukács, dopo la conversione al
marxismo, ha mantenuto come punto fermo la sua fiducia nel marxismo e nel partito
comunista, come organo del pensiero marxista. Ripeteva spesso, a questo proposito,
"Right or wrong it's my party", "Giusto o sbagliato è sempre il mio
partito", che era una deformazione del detto inglese "Right or wrong it's my
country".
Per lui infatti, il partito era quello che per un inglese dell'Ottocento era la patria,
ossia qualcosa in cui avere fede nella ferma convinzione che presto o tardi avrebbe avuto
la meglio non solo sugli avversari esterni, ma anche sull'avversario interno, sulle
proprie contraddizioni interne. Questo ha distinto Lukács da tutti i pensatori marxisti
dozzinali ed è stato riconosciuto anche da pensatori antimarxisti. Questa sua grande
fiducia, costantemente riaffermata nella sua opera, colpiva chiunque lo leggesse o lo
conoscesse. Per questo motivo le sue riflessioni apparivano sincere anche quando erano
simulate. Si trattava, infatti, di una simulazione che si imponeva, perché egli pensava
che fosse necessaria in quel momento e questo spesso si capiva attraverso le sue stesse
parole. Il suo linguaggio "esopiano" permetteva di capire anche quello che non
si poteva dire in determinate circostanze.
Il primo grande Lukács degli anni Venti è l'autore di Storia e coscienza di classe,
un libro fondamentale per il pensiero marxista estremo, che postulava quella rivoluzione
che poi non ebbe luogo, la rivoluzione dei Consigli di cui Lukács era allora uno dei
protagonisti. La rivoluzione ungherese dei Consigli e la rivoluzione russa avrebbero
preluso ad una rivoluzione mondiale che poi non venne. Storia e coscienza di classe è
ancora oggi un libro molto importante, perché è la Bibbia di ogni marxismo radicale, di
ogni radicalismo marxista, ma questo radicalismo non fu confermato dagli eventi. Lukács
stesso dovette fuggire dall'Ungheria, la rivoluzione dei Consigli finì e la stessa
rivoluzione russa si concluse male. Lukács avversò infatti il periodo staliniano,
nonostante egli rimanesse sempre del parere che, pur attraverso tutte le deformazioni,
tutti i guasti operati dallo stalinismo, il principio comunista avrebbe potuto sempre
salvarsi. Però, certamente, Lukács si rendeva conto che la situazione era molto brutta.
In una nota intervista del famoso marxista francese che andò a trovarlo a Mosca negli
anni Trenta, egli disse di vivere coraggiosamente nella paura, perché aveva il coraggio
di assumere certi atteggiamenti, di prendere posizione anche quando ormai il terrore era
instaurato.
Lukács condivideva la fiducia hegeliana nella storia, la convinzione per cui la storia
porta sempre a buon fine e, nonostante i riflussi, va sempre avanti in senso positivo. A
questo egli non ha mai cessato di credere anche negli ultimi anni. Lukács non aveva
capito l'entità del male, del "male radicale" avrebbe detto Kant, che
minacciava l'umanità; credeva che ci fosse una soluzione per tutto e che lui aveva
identificato con la prassi dei partiti comunisti, sia pure riveduta, corretta, migliorata,
depurata da tutti gli orrori stalinisti, ma convinto che si potesse in fondo proseguire
quel cammino.
La categoria del progresso è stata sicuramente una delle più importanti categorie
dalla fine del Settecento in poi, almeno per la cultura europea. Alla fine del XX secolo,
uno dei secoli più cruenti e barbari della storia umana e alla vigilia del XXI, è
impossibile mantenere la fede nel progresso, senza riflettere sulle lezioni che la storia
ci ha dato. D'altra parte lei stesso ha detto che, senza la speranza, l'uomo non riesce a
fare niente e che perciò è anche pericoloso abbandonare ogni speranza nella possibilità
da parte della storia di mitigare il "male radicale" che la attraversa. Qual è,
dunque, la posizione che una persona razionale, che non vuole, però, abbandonarsi al
pessimismo, deve assumere rispetto al progresso?
Credo che qualcosa della categoria del progresso vada mantenuta. Se leggiamo l'opera di
Joseph de Maistre, la "bibbia" del pensiero reazionario, si può dire che
empiricamente ha avuto ragione lui: in realtà quello che prevedeva è successo, ma
dobbiamo per questo tornare alla santificazione dell'Ancien Régime, all'esaltazione del
Papa e del boia? Io credo che questo non sia concepibile. E' possibile forse reintrodurre
il boia come hanno fatto i nazisti, ma non è possibile reintrodurre l'elogio del boia, la
persuasione della necessità della sua funzione. In questo senso, l'umanità è diventata,
come diceva Kant, maggiorenne e non torna più indietro. Si fanno cose orribili in nome
della libertà, però questa libertà esiste, è diventata una coscienza generale e
quindi, tornare indietro non è possibile.
Che cosa pensa dell'estetica di Lukács e come spiega il fatto che il marxista Lukàcs
ha subito il fascino della letteratura di Musil e Thomas Mann?
Questo fascino mi sembra abbastanza comprensibile: sia Lukács che Thomas Mann
credevano in fondo nella recuperabilità della civiltà borghese e Lukács aggiungeva a
questa fiducia un "condimento" marxista, con l'affermazione che era possibile
salvare l'eredità borghese solo attraverso il comunismo. La sua idea era in parte simile
a quella di quel comunista francese che sosteneva che il comunismo aveva raccattato le
bandiere della Rivoluzione Francese, che la borghesia aveva buttato in terra. In Lukács
rimane, quindi, sempre l'idea di una borghesia buona, suscettibile, ad un certo momento
della sua evoluzione, di convertirsi al marxismo, e di una borghesia cattiva che indugia
nell'irrazionale e si allontana perciò dalla via aurea della borghesia. Quindi, Lukács
amava Thomas Mann perché era il prototipo di questo tipo di borghesia buona, un prototipo
che gli aveva dato anche delle delusioni perché negli anni della Prima guerra Mondiale
era passato dalla parte della borghesia cattiva; ma in seguito, si era rimesso in
carreggiata e rimaneva, quindi, comunque un modello.
L'altra ragione era formale: Thomas Mann era uno scrittore realista, che si manteneva
fedele all'idea del romanzo ottocentesco, compatto e senza sbavature. Questo era l'ideale
artistico di Lukács che rifiutava, viceversa, l'avanguardia e ogni tentativo di
riprodurre, nelle forme, il caos. Lukács riteneva che si trattasse di una pura illusione
ottica, che il mondo fosse sempre in qualche modo compatto e che fosse la borghesia
degenerata a vederlo in una "forma deformata". In realtà, questa "forma
deformata" corrispondeva oggettivamente all'essenza della società attuale. Non erano
Musil o Céline a favorire l'avvento di una società decomposta, ma era la società
decomposta che chiedeva di farsi riflettere, di farsi interpretare nei modi di Musil o di
Céline. Di qui il carattere "archeologico" dellEstetica di Lukács,
un'opera importante, ma anche difficilmente leggibile, perché si sente che l'autore è
stanco, non perché sia vecchio lui, ma perché è vecchio il punto di vista che ha
adottato.
Lei appartiene a una generazione che ha vissuto buona parte di questo secolo e si è
occupato per più di cinquanta anni della cultura tedesca. Quali sono, secondo lei, gli
autori tedeschi che vale ancora la pena di leggere?
Dei più recenti direi senz'altro Thomas Bernhard e Ingeborg Bachmann, entrambi
austriaci. Non ho invece un grande amore per Grass o per la generazione degli anni
Sessanta. Celan, che si può considerare tedesco solo in un certo senso, ha dato
espressione meglio di ogni altro, da una parte al disastro in cui viviamo, dall'altra
anche a quel nucleo "solido", a quel nucleo di resistenza che la poesia offre.
Insomma, la grande poesia è sempre qualche cosa a cui ci si può aggrappare, anche nel
momento di massimo pessimismo. L'opera di Celan ha dato un esempio di questa possibilità.
Uno degli autori che hanno avuto sicuramente più successo anche al di fuori della
cultura tedesca è stato Bertolt Brecht. Anche in Brecht è possibile ritrovare la
caratteristica per lei essenziale della cultura tedesca, vale a dire la sintesi tra
letteratura e filosofia. Che cosa rimarrà di Brecht? Sarà un drammaturgo le cui opere
verranno lette e rappresentate anche nei prossimi secoli?
Brecht per me è stata una rivelazione letteraria. Ero prevenuto ideologicamente nei
suoi confronti, a causa di Lukács, che era il suo grande avversario nel campo marxista e
quindi non lo leggevo o non riuscivo comunque ad appassionarmi alla sua opera. Poi una
volta mi sono trovato, per lavoro, a rivedere alcune traduzioni ed ho avuto questa grande
rivelazione. Lukács disapprova Brecht per la netta separazione tra cultura borghese e
cultura proletaria. Brecht riteneva che la letteratura proletaria dovesse trovare delle
nuove formule, dei nuovi moduli che fossero diversi da quelli borghesi e dava perciò un
giudizio assolutamente negativo dell'opera di Thomas Mann. Viceversa sembra che,
nonostante la radicale divergenza di vedute, Thomas Mann abbia detto, dopo la lettura di
Madre Courage e i suoi figli: "Quel mostro ha del genio". Le ragioni
dell'attuale eclissi di attenzione per Brecht sono legate sia all'eccessivo successo che
la sua opera ha avuto negli anni '60 e '70, sia al fatto che egli era estremamente legato
alla discussione sul marxismo e perciò quando si è cessato di credere nel marxismo
l'opera brechtiana non è apparsa più degna di interesse. Secondo me Brecht rimane
comunque un grande scrittore e un grande poeta, nonostante i suoi grandi limiti.